Un fatterello algerino, di Gigi Agnano

Prometto di non parlare qui del mio viaggetto perché i racconti di viaggio bisogna saperli scrivere e io non ho questa dote. Però, se vi va di seguirmi, un fatterello vorrei provare a dirvelo.

Sono stato per una decina di giorni con un amico e cinque Tuareg in quel triangolo del Sahara a Sud Est dell’Algeria, al confine a meridione col Niger e con la Libia a levante. Una spettacolare e immensa distesa di sabbia tra le alture dell’Hoggar (circa 50 mila kmq) e i 500 km di altopiano di roccia arida del Tassili.

Potremmo chiamarla la via della sete, dove le temperature arrivano anche a 55-58 gradi di giorno per scendere di notte anche sotto lo zero. Di giorno la pelle ti brucia sotto al sole e di notte a me è capitato anche di tremare dal freddo nonostante la tenda, un pullover pesante, il sacco a pelo invernale e un cappello di lana. In tutta l’area, montagne comprese, un ricercatore meticoloso ha contato poco meno di 150 alberi. Il reperimento delle carcasse di tronchi secchi era parte delle nostre attività diurne per poter accendere il fuoco di sera.

In questa zona vanno gli archeologi perché abbondano le pitture e le incisioni rupestri di migliaia di anni fa, ma anche i fossili di pesci, coccodrilli e dinosauri a dimostrazione che, come si sa, in epoche remote c’era l’acqua. A differenza della nostra immagine idealizzata del deserto non ho visto scenografiche carovane di tuareg. Per la verità in dieci giorni non ho visto anima viva, a parte qualche militare in improbabili posti di blocco, dei dromedari al pascolo e dei topolini bianchi minuscoli quasi trasparenti che venivano a trovarci all’ora di cena. Ah, dimenticavo l’incontro con una simpatica vipera interessata alle nostre merende che un driver sollecito ha immediatamente schiacciata con una grossa pietra. Punto. Fine della premessa. Ecco ora la cosa che volevo dire. Tranquilli, sarò brevissimo.

In quest’area, a presidio del confine algerino, sono stati schierati 25 mila soldati. Pare che li manteniamo noi: i soldi – che sono tantissimi – sono quelli dei contribuenti italiani ed europei utilizzati sapientemente per “difenderci” dai migranti. Con questi stanziamenti miliardari abbiamo solo reso a questi disgraziati dell’Africa nera il viaggio verso di noi un tantino più difficile, allungandolo di diverse centinaia di chilometri, un nulla in confronto alle migliaia da percorrere complessivamente. In passato chi arrivava da Sud attraversava questo tratto di terra algerina per entrare in Libia; oggi deve costeggiare il confine in Niger per poi attraversare tutta la Libia destinazione Tripoli. Pare che nessun migrante di fronte a questo sbarramento abbia deciso di tornare indietro. Nessuno ha ritenuto di non dover partire. I più fortunati – leggi i più ricchi, quelli non ancora depredati di tutto – venivano (e vengono) accompagnati dai passeur (l’equivalente sahariano dello scafista mediterraneo) su camion scoperti; i meno fortunati si facevano (e si fanno) una salutare passeggiata al calduccio del sole africano.

Per queste terre un tantino inospitali pare che sappiano orientarsi solo i Tuareg, così ho chiesto a ciascuno dei miei cinque accompagnatori berberi di raccontarmi com’era la situazione da queste parti prima della chiusura delle frontiere col Niger e con la Libia. La risposta di ognuno di loro è stata assai simile a quella di Karim: “si incontravano ogni giorno i cadaveri delle persone che si erano messe in cammino nel deserto o che avevano provato ad attraversare le montagne da soli. A me è capitato di vedere tantissimi morti.” Fine dell’intervista.

Un italiano mediamente informato sa che negli ultimi dieci anni trentamila uomini, donne e bambini siano affogati nel Mediterraneo. Non sa – ma chi lo sa? – quanta povera gente muoia durante il viaggio nelle più svariate rotte sahariane che dall’Africa nera vanno verso la costa. Soprattutto non sa quanto in questi anni l’Europa e l’Italia abbiano speso di soldi nostri per consentire questa barbarie. Soldi che si sarebbero potuti spendere per esempio per l’accoglienza. Magari senza prevederla in Albania. Barbarie che crea risentimenti, odi, distanze che prima o poi pagheremo. I conflitti del Novecento erano conflitti di nazionalismi e hanno determinato sessanta milioni di morti. Oggi assistiamo passivamente ad un conflitto tra continenti. Possibile che non riusciamo minimamente ad immaginarne le conseguenze?

Gigi Agnano

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