Vita, amori e opere di Victor Hugo, di Lavinia Capogna – parte 2 di 2

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SECONDA PARTE

Nei lunghi anni dell’esilio Victor Hugo continuò a scrivere “I Miserabili”, la sua opera più grande, che sarebbe stata pubblicata nel 1862.

Egli stesso raccontò come nacque l’idea: una sera d’inverno, di quelle in cui Parigi si copre di neve, egli vide una prostituta (erano riconoscibili perché dovevano indossare una striscia di tessuto colorato appuntato sul vestito) che venne aggredita da un bellimbusto in abito da sera: egli le mise della neve gelata nella schiena, delle guardie presenti ridacchiarono, lei insultò il borghese e venne arrestata. Hugo li seguì fino al commissariato. Spiegò al commissario come erano andate le cose per farla scagionare. Il commissario, sarcastico verso quel bizzarro e distinto signore, gli chiese il suo nome. Quando sentì che era Victor Hugo impallidì. Immediatamente fece scarcerare la donna. Victor Hugo riportò l’episodio nel romanzo attribuendo a ciò la causa della tubercolosi di Fanette, ragazza povera costretta in una Parigi indifferente se non crudele ad esercitare la prostituzione per non morire di fame. 

“I Miserabili” è uno dei capolavori della letteratura mondiale come i testi di Omero, Saffo, Shakespeare, Cervantes. Uno splendido affresco di Parigi e del suo popolo incentrato su un personaggio qualsiasi, Jean Valjean, un ex galeotto redento perseguitato da un odioso poliziotto, Javert. In mezzo scorre la storia di Francia: Waterloo, la Restaurazione, le barricate e personaggi indimenticabili come Fanette, sua figlia Cosette, Marius, il gran Borghese, il piccolo Gavroche. 

La traversata delle fogne di Parigi lascia senza parole i lettori. 

E l’epilogo di Javert (che vede il suo modo di guardare la vita ribaltato) è semplicemente geniale.

La produzione letteraria di Hugo è vastissima. Se si volesse parlare a fondo della sua opera si dovrebbe scrivere un saggio di due o trecento pagine. Egli scrisse nove romanzi, varie raccolte di intense e delicate poesie, opere teatrali, scritti politici, memorie, diari di viaggio, articoli, testi storici e una grande quantità di lettere. 

Il momento in cui si entra nel suo mondo si fa fatica a staccarsi dal libro, come dicevamo precedentemente, i suoi libri non sono belli solo per le trame ma per come sono scritti: il suo stile è travolgente, la sua forza è come un oceano, gli si perdona qualche (rara) riga di troppo, si trovano sagge intuizioni che butta là con nonchalance e non manca una bonaria ironia. 

Uno dei suoi elementi di forza è la sincerità. Victor Hugo denuncia le ingiustizie ma non assume la posa del moralista, dice schiettamente come stanno le cose e i lettori sanno che è sincero. Così come un bravo operaio che compie coscienziosamente il suo lavoro. 

Quando parla dell’amore risveglia, nei più sensibili, delicate emozioni provate nella giovinezza; quando parla della morte, senza indugiare in descrizioni, ci sgomenta. 

Non si deve poi dimenticare che Victor Hugo nasce come poeta prima che come romanziere e ciò si avverte. Anche la sua vasta esperienza teatrale ebbe un riflesso sui suoi romanzi. 

Il tema principale che attraversa tutta l’opera di Victor Hugo è quella di un personaggio reietto per la società che invece è migliore degli altri umanamente: così sono Jean Valjean, Marius, Quasimodo, Gillet e Gwynplaine, il bello deturpato da una banda di delinquenti in “L’uomo che ride”, il ricco diventato povero. 

Persino il pessimo Lanternac alla fine di “Novantatré” compie d’istinto una doverosa ed umana azione. 

Nei temi e nella passione sociale Victor Hugo assomiglia al suo grande contemporaneo britannico, Charles Dickens, anche se poi naturalmente il loro mondo e i loro stili letterari sono completamente differenti (nota 2). 

Entrambi si batterono per i diritti d’autore che allora non esistevano. I romanzi erano quasi sempre pubblicati sui giornali, capitolo dopo capitolo, se avevano successo venivano poi editi in un solo volume. 

(Spesso gli autori si impegnavano prima di scrivere il libro: Émile Zola firmò un contratto in cui garantiva di scrivere venti romanzi in vent’anni e ci riuscì, Silvio Pellico non guadagnò pressoché nulla da “Le mie prigioni” che fu poi un best seller, Dostoevskij fu obbligato, per fare prima, a dettare a una segretaria “Il giocatore” che si era impegnato a scrivere in poche settimane, cosa che ebbe però un esito imprevisto: in seguito lei divenne sua moglie).

Victor Hugo guadagnò molto vendendo “I Miserabili” a un editore ma l’editore divenne ancora più ricco. 

“L’ultimo giorno di un condannato” pubblicato anonimo nel 1829, scritto da Victor Hugo, è un bellissimo libro contro la pena di morte (che sarà abolita in Francia solamente nel… 1981! ).

Sembra esserci qualche similitudine con “La morte di Ivan Il’ič” di Lev Tolstoj, splendido racconto che sarà pubblicato nel 1886: due uomini si trovano davanti alla morte. Nel racconto di Tolstoj un ricco giudice pietroburghese a causa di un banale incidente domestico, nel romanzo di Hugo un condannato a morte di cui non sappiamo né il nome, né il reato che ha commesso. 

Il collegamento è che entrambi non hanno via di scampo. Come reagiranno? Gli illustri medici non possono salvare il giudice russo e i giudici che hanno condannato il francese hanno preso una decisione ineluttabile conforme alla legge scritta da altri uomini (“Si sono mai per caso soffermati sull’idea straziante che nell’uomo che sopprimono c’è un’intelligenza, un’intelligenza che contava sulla vita, un’anima che non è affatto predisposta a morire? No.”). 

Entrambi si trovano faccia a faccia con la loro interiorità: “Il mio corpo è rinchiuso in una cella, la mia mente imprigionata in un’idea” – scrive Hugo. 

Lo stile del libro di Hugo è conciso, sobrio, essenziale e proprio per questo ottiene il massimo risultato. 

Il lettore è solo insieme all’anonimo condannato difronte all’iniquità e all’assurdità del mondo che qui, nel testo del cristiano Hugo, anticipa quasi sfumature filosofiche alla Albert Camus. 

Altrettanto forte ma meno conosciuto in Italia è “Claude Gueux”, romanzo breve del 1834, ispirato ad un storia vera. Gueux in francese vuol dire mendicante. Lo stile è simile al romanzo precedente. Narra di un serio operaio che convive con la sua ragazza e hanno un bambino. A causa della povertà e della fame, Claude compie un furto. Arrestato viene condannato. Il direttore del carcere è uno stolto che abusa del suo potere.

Claude fa amicizia con un ragazzo, Albin, che gli cede sempre metà del suo misero pasto. Senza alcun motivo il direttore li separa. Alle reiterate richieste di Claude sul perché egli rifiuta di dare una spiegazione e infine Claude lo uccide e poi tenta un goffo suicidio (sembra un fratello del Raskòl’nikov di “Delitto e castigo” di Dostoevskij che sarà pubblicato trent’anni dopo):

“Novembre, dicembre, gennaio e febbraio trascorsero tra cure e preparativi; medici e giudici si affaccendavano intorno a Claude; gli uni curavano le sue ferite, gli altri preparavano il suo patibolo” scrive Hugo. 

Claude viene condannato alla ghigliottina. Lo scrittore non intende certo giustificare il crimine ma, nella seconda parte, condanna i politici, che lasciano “il popolo nella fame e nel freddo”, i giudici e il sistema carcerario (“riformate il vostro sistema penale, rifate i vostri codici, rifate le vostre prigioni, rifate i vostri giudici”), la pena di morte, la mancanza dell’educazione scolastica e chiede di diffondere il Vangelo. Il libro è un atto di accusa verso la società del tempo. 

Il popolo è il grande protagonista dei suoi libri e il popolo ricambiò l’affetto di Victor Hugo. Molti di loro quasi analfabeti leggevano esclusivamente i suoi libri e ai suoi funerali parteciparono, si dice, due milioni di persone, non solo tutta Parigi ma tantissimi venuti da fuori.

I personaggi femminili di Victor Hugo sembrano idealizzati, Cosette, Esmeralda, Déruchette, sono delicate, allegre, fiduciose, semplici, innocenti. Potrebbero però anche rappresentare un genere di ragazze ottocentesche reali.

Il tenero amore di Cosette e Marius occupa una parte importante de “I Miserabili”. Un caso a parte è Éponine, l’introversa ragazza del popolo, che muore sulle barricate travestita da ragazzo e segretamente innamorata di Marius. 

Dea di “L’uomo che ride” più che una ragazza è una creatura celestiale, un elfo, bellissima ed eterea cieca che si esibisce nel Green – Box, carrozzone di saltimbanchi ambulanti. 

Lady Josiana nello stesso romanzo rappresenta invece la tentazione e la lussuria – è l’equivalente femminile di Claude Frollo – ma anche la stravaganza e la noia. 

I cattivi di Hugo sono diabolici ma mai scontati: il machiavellico Clubet che si maschera da probo così come il servile Barkilphedro che in realtà detesta Lady Josiana, l’invadente poliziotto Javert, lo stalker ante litteram Claude Frollo e l’esilarante coppia dei Thénardier (varrebbe la pena di leggere “I Miserabili” solo per Thénardier!) sono senza riscatto. 

“I lavoratori del mare” (che si potrebbe anche tradurre “La fatica del mare”) scritto in esilio nel 1866, a 64 anni, è ambientato invece nell’isola di Guernsey ad inizio 1800. Nel XX secolo è stata inserita come apertura del romanzo una suggestiva descrizione dell’isola che però rallenta la storia vera e propria (secondo me, si sarebbe dovuta metterla alla fine). Il protagonista, Gillet, è un ragazzo solitario, di buoni sentimenti ma guardato con diffidenza dai normanni che abitano l’sola di sua maestà la regina Vittoria. Egli compie un’impresa epica che costituisce il nucleo del romanzo. La compie del tutto disinteressatamente solo per amore di una ragazza soave, Déruchette. 

È un romanzo bello, potente, pieno di atmosfera sul tema del sacrificio molto interessante anche a livello antropologico. 

Nel 1869 Hugo pubblicò “L’uomo che ride” in cui riprendeva certe atmosfere di “Notre – Dame di Parigi”. Il libro si ambienta in Inghilterra nel 1690 e poi nel 1705.

È un libro bello e particolare (nella parte in cui Gwynplaine, saltimbanco, dice la verità ai Lord e in quella in cui medita il suicidio, diventa un capolavoro), alterna parti drammatiche ad altre ironiche o commoventi. Hugo si destreggia magistralmente e riesce a non farle risultare stridenti fra di loro, cosa non semplice. 

Narrare la trama sarebbe impossibile. 

Nella prima parte, bellissima, spira una palpabile angoscia: il bambino abbandonato che vaga sulla scogliera notturna sotto la neve, incontrando prima un impiccato, poi una donna deceduta e una neonata viva che egli soccorre e prende con sé, il suo vano bussare alle porte (tutti temono la peste scoppiata a Londra) è sconvolgente. Sarà Ursus, filosofo vagabondo, alchimista, che vende intrugli per guarire malattie, suonatore di flauto e viola da gamba, ex segretario di un Lord, che ha addomesticato un lupo bianco ad accoglierli, brontolando per celare la commozione. 

Una bottiglia contenente un segreto viene gettata da una nave in tempesta. 

Hugo scrive: “Le avventure dell’abisso non hanno limiti, in nessun senso; in esse tutto è possibile, anche salvarsi. L’uscita è invisibile, ma si può trovare”. 

“Novantatré” è l’ultimo dei nove romanzi dello scrittore pubblicato nel 1874, quando aveva 72 anni. È uno splendido romanzo ambientato nell’anno 1793, anno fondamentale nella Rivoluzione Francese e parla della guerra civile in Vandea e del Terrore. Si impara di più sulla rivoluzione leggendo questo romanzo che cento saggi storici. Hugo mette in scena anche il sanguigno Danton, l’esaltato Marat e il raffinato Robespierre tormentato da tic. 

Sarebbe impossibile ripercorrere la trama che è piena di eventi anche imprevedibili e con tre personaggi principali completamente opposti: il Marchese di Lanternac, che guida i monarchici, Gauvain, giovane comandante monarchico e Cimourdain, ex prete diventato rivoluzionario giacobino. 

Nel 1853 la famiglia Hugo ospitò a Jersey varie persone tra cui la scrittrice e medium, Delphine de Girardin. Inizialmente lo scrittore fu scettico ma poi decise di provare le sedute spiritiche, che lei gli aveva proposto, che sarebbero avvenute con un tavolo con vari partecipanti. 

I contenuti delle comunicazioni (che egli trascrisse fedelmente su un quaderno) lo convinsero della loro realtà. 

Nel 1857, Allan Kardec, che era un pedagogo e insegnante, seguace del famoso svizzero Pestalozzi, avrebbe pubblicato il volume “Il libro degli spiriti” che fu la prima opera della parapsicologia e che, tra parentesi, è un bellissimo libro. 

Victor Hugo ne divenne il più noto sostenitore. 

Eco di questa esperienza si ritrova in numerose sue poesie. Egli scrisse: “Tutto parla. E ora, uomo, sai perché

tutto parla? Ascolta attentamente. È perché i venti, le onde, le fiamme,

gli alberi, le canne, le rocce, tutto vive!

Tutto è pieno di anime”. 

Victor Hugo morì a 83 anni per problemi polmonari, il 22 maggio 1885. Nel suo testamento egli lasciò molti soldi ai poveri di Parigi e chiese di avere un funerale come loro – cosa che non venne rispettata. Egli riposa al Pantheon a Parigi, dove la Francia seppellisce coloro che le hanno dato lustro (ad oggi 75 uomini e solo 5 donne – cosa su cui lui non sarebbe stato d’accordo). 

Nella vita di madame Hugo c’è un episodio, infine, che deve essere ricordato: un giorno, durante l’esilio, 

ella prese la strada verso la villa dove abitava la sua grande e perpetua rivale, Juliette, che non aveva mai incontrato. 

Nessuno osò fermarla. 

Le due donne conversarono per ore, fecero amicizia e il giorno stesso Juliette si trasferì nella casa di lei e della famiglia Hugo. 

Ella aveva compreso quanto Juliette era stata ed era importante nella vita di suo marito. 

Bibliografia : 

Tutte le opere di Victor Hugo

Biografie in francese e inglese:

Sandrine Fillipetti Victor Hugo Éd.Gallimard (2011)

Alain Decaux Victor Hugo Éd. Perrin (2014)

Max Gallo Victor Hugo Éd. XO (2002)

Noel Gerson Victor Hugo: A Tumultuous Life – Lume Books Edition (2015)

Massimo D’Azeglio Ricordi della mia vita (Zanichelli)  

Nota 2) “La vita avventurosa di Charles Dickens” di Lavinia Capogna, che si può trovare online. 

Lavinia Capogna*

*Lavinia Capogna è una scrittrice, poeta e regista. È figlia del regista Sergio Capogna. Ha pubblicato finora sette libri: “Un navigante senza bussola e senza stelle” (poesie); “Pensieri cristallini” (poesie); “La nostalgia delle 6 del mattino” (poesie); “In questi giorni UFO volano sul New Jersey” (poesie), “Storie fatte di niente”, (racconti), che è stato tradotto e pubblicato anche in Francia con il titolo “Histoires pour rien” ; il romanzo “Il giovane senza nome” e il saggio “Pagine sparse – Studi letterari”.

Ha scritto circa 150 articoli su temi letterari e cinematografici e fatto traduzioni dal francese, inglese e tedesco. Ha studiato sceneggiatura con Ugo Pirro e scritto tre sceneggiature cinematografiche e realizzato come regista il film “La lampada di Wood” che ha partecipato al premio David di Donatello, il mediometraggio “Ciao, Francesca” e alcuni documentari. 

Collabora con le riviste letterarie online Insula Europea, Stultifera Navis e altri website. 

Da circa vent’anni ha una malattia che le ha procurato invalidità.

Vita, amori e opere di Victor Hugo, di Lavinia Capogna – parte 1 di 2

PRIMA PARTE

“La vita, la sventura, l’isolamento, l’abbandono, la povertà, sono campi di battaglia che hanno i loro eroi, eroi oscuri a volte più grandi degli eroi illustri”Victor Hugo

Non si potrebbe immaginare matrimonio più dissimile politicamente di quello di Brutus Hugo e Sophie Trébuchet nel 1797. Si erano conosciuti l’anno precedente, lui in realtà si chiamava Léopold Hugo ma come altri rivoluzionari francesi aveva preso il nome di un antico Romano, aveva 19 anni, lei 20. Lui proveniva da una famiglia di agricoltori e artigiani, lei da una famiglia “borghese” (ancora non esisteva la borghesia ma il terzo stato racchiudeva chiunque non fosse nobile o non facesse parte del clero), suo padre era capitano di una nave. 

Léopold a soli 14 anni aveva aderito alla rivoluzione che infiammava la Francia, aveva ideali progressisti ed era coraggioso in battaglia: in Vandea, dove infuriava la guerra civile, con soli 50 soldati aveva tenuto in scacco circa 4.000 monarchici.

Lei aveva visto ghigliottinare una sua amica ed era borbonica.

Il matrimonio finirà abbastanza presto ma ebbero tre figli di cui l’ultimo fu Victor Hugo. Egli nacque a Besançon il 7 Ventôse dell’anno X, secondo il calendario rivoluzionario cioè il 26 febbraio 1802. Era un neonato piccolissimo (forse prematuro), debolissimo e il medico disse che non sarebbe sopravvissuto. La madre era impressionata da lui, il padre aveva paura che sarebbe stato mentalmente disabile. Rimase a lungo un bambino fragile, con un padre assente (Léopold conviveva con una donna, Catherine Thomas, che in seguito sarebbe diventata la sua seconda moglie). 

Egli scrisse in una celebre poesia: “abbandonato da tutti, tranne che da sua madre”. 

Nessuno avrebbe potuto prevedere che sarebbe diventato uno dei più celebri scrittori al mondo e uno degli uomini più influenti del XIX secolo. Solo per dire una curiosità: una volta Victor Hugo acquistò un gilet grigio chiaro e centinaia di parigini lo imitarono. 

Léopold fece una grande carriera militare, venne trasferito in varie città francesi, poi vicino Napoli dove arrestò il famoso bandito Fra Diavolo, poi in Spagna, divenne generale e conte.

Sophie detestava viaggiare con i bambini (i viaggi con le carrozze pubbliche erano molto lunghi e disagevoli nonché pieni di pericoli), lui era un uomo passionale, lei cercava di moderarlo ma alla fine si lasciarono e rimasero in contatto epistolare solo per i figli.

Il piccolo Victor era intelligente e sarebbe diventato il prediletto della madre. Egli ebbe un rapporto di grande affetto con lei ma amava anche il padre assente. Quando Léopold morì improvvisamente nel 1838 fu un grande dolore. 

I biografi, spesso, descrivono Sophie Hugo in modo duro anche se invece potrebbe essere stata solo una donna molto più indipendente e determinata di altre della sua epoca. 

Lei amava i bei abiti, nonostante non fosse ricca vestiva sempre con cura i suoi tre figli maschi e curò assai la loro educazione. Nascosto in una dependance nel giardino della sua casa parigina (che era situata nell’ex convento dei Feuillantines) c’era un uomo che era stato il padrino di Victor Hugo, il generale Victor Lahoire. Era un uomo colto che aveva la mania di organizzare improbabili complotti contro Napoleone. Era il nuovo compagno della madre.

Victor Hugo si distinse per il suo talento letterario e a soli quindici anni vinse un prestigioso premio poetico. I giurati erano increduli che il poema fosse stato composto da un ragazzino. 

Quando decise di dedicarsi alla letteratura scrisse al padre chiedendo di sostenerlo economicamente. Il padre gli rispose, prosaicamente, che lo avrebbe fatto se lui avesse deciso di diventare un medico o un avvocato ma non uno scrittore che Léopold vedeva evidentemente come una professione da spiantati. 

Victor Hugo aveva anche molto talento per il disegno. 

Nel 1821 Sophie morì, aveva solo 49 anni, sembra che avesse avuto un crollo emotivo da quando Lahoire era stato fucilato dopo che, anche in carcere, aveva tramato una ennesima congiura contro Napoleone. Victor Hugo, aveva allora solo 19 anni, soffrì moltissimo. Oltre ad essere sua madre, era la sola persona che lo avesse incoraggiato nella sua carriera letteraria. Lui era uno squisito poeta che viveva poveramente, e a 24 anni, nel 1826, avrebbe pubblicato la prima delle sue cinque raccolte poetiche. 

Ci sono molteplici descrizioni di Victor Hugo da adulto, tra le quali quella significativa dello scrittore Massimo D’Azeglio. 

Nonostante fosse una celebrità, Hugo era un uomo modesto, per nulla presuntuoso, un instancabile lavoratore che scriveva ogni mattina e ogni pomeriggio. 

Aveva un carattere affabile e cordiale, a differenza della stragrande maggioranza degli scrittori del suo tempo (ed attuali) sostenne molti esordienti, tra i quali il poeta Gérard De Nerval e difese “Madame Bovary” quando Flaubert dovette subire un processo per offesa al buon costume. 

Egli lasciò anche un testo commovente in cui descrisse la sua ultima visita a Balzac morente accompagnato dalla governante di lui in lacrime. 

Ma oltre che scrivere assiduamente, Victor Hugo si dedicava attivamente alla politica. L’evoluzione politica che ebbe nel corso della sua vita non fu dovuta a opportunismo ma bensì ad una maturazione: da giovane era stato un monarchico (borbonico) influenzato dalla madre, poi scomparso Napoleone divenne un suo sostenitore, infine fu un repubblicano con forti tinte socialiste.

Fu parlamentare dell’estrema sinistra e dal 1848 al 1851 Pari di Francia 

Si pronunciò contro la pena di morte, la povertà, il lavoro minorile, la prostituzione, il colonialismo, lo schiavismo, la spartizione della Polonia, per i diritti delle donne e l’indipendenza italiana, incontrò e ammirò Giuseppe Garibaldi, voleva gli Stati Uniti d’Europa, fondò un giornale politico (con i suoi figli Charles e François), durante la rivoluzione del 1848 arringò la folla col rischio concreto di esser preso a fucilate dai soldati e rimase sconvolto dai massacri monarchici.

Tornando alla sua gioventù, Victor Hugo, che era diventato un ragazzo abbastanza bello e dai lineamenti delicati, si era perdutamente innamorato di una ragazza che aveva già conosciuto quando erano bambini. 

Adèle Foucher era una ragazza bruna, una persona semplice, concreta, non aveva una passione per la letteratura, era cattolica osservante, in seguito appassionata di cucina. Victor Hugo le scrisse centinaia di lettere, le dedicò poemi ma sia i genitori di lei sia la madre di lui erano contrari al loro fidanzamento.

Un giorno egli percorse molti chilometri a piedi per rivederla solo un momento. Egli non aveva avuto nessuna relazione romantica ed esperienza sessuale. Attese fedelmente per tre anni prima che i genitori di lei acconsentissero al loro matrimonio.

Tuttavia quello del matriminio fu un giorno infausto perché un fratello di Victor Hugo, Éugene, anch’egli poeta, che aveva già dato segni di squilibrio mentale incominciò ad urlare disperatamente in chiesa. Sembra che egli fosse segretamente innamorato di Adèle.

Il giorno dopo distrusse la mobilia della sua stanza con una sciabola. Venne ricoverato in un istituto, ne usci l’anno seguente, il 1823, e un giorno, inaspettatamente, sferrò una coltellata a Catherine Thomas, la nuova moglie del padre. Ella si salvò solo perché Léopold riuscì a bloccare il figlio ingaggiando con lui una colluttazione. Éugene venne internato in un altro istituto. Poco dopo egli perdette delle facoltà cognitive e morì dieci anni dopo sempre ricoverato. 

Questa storia turbò molto il fratello Victor che, tempo dopo, gli dedicò un’opera letteraria.

Anche la sua ultima figlia, Adèle (si chiamava come la madre) ebbe dei problemi. Innamorata di un tenente inglese con cui c’era stato un fidanzamento ma che poi la sfuggiva lo raggiunse a Halifax in Nuova Scozia, Canada. 

Per una donna alto borghese del tempo trovarsi sola in un paese lontano era davvero inusuale. Ella continuò a perseguitare l’inglese, venne sostenuta economicamente dal padre che però le chiese di tornare. Alla fine venne riportata in Europa da una donna delle Barbados che non sapeva leggere ma che conosceva il nome di Victor Hugo perché egli si era battuto contro lo schiavismo. Adèle si salvò solo grazie a lei. Venne ricoverata in una lussuosa clinica privata dove rimase per il resto della sua vita. 

Fu anche l’unica dei quattro figli di Victor Hugo e di sua moglie che sopravvisse al padre. I suoi fratelli, Charles, giornalista, e François, traduttore di Shakespeare, socialisti, morirono nella mezza età di malattia. Tra poco parleremo di Léopoldine. 

È necessario dire che le diagnosi psichiatriche relative alla figlia di Hugo, Adèle, che si trovano su internet non hanno nessun valore scientifico essendo lei deceduta nel 1915. Invece nel 1977 il regista François Truffaut le ha dedicato un bellissimo film, “L’Histoire d’Adèle H.” interpretato da Isabelle Adjani. 

Nel 1830, a 28 anni, Victor Hugo, stufo della paludata e verbosa letteratura del tempo scrisse una commedia, “Hernani”, che ebbe un successo travolgente. 

La sera in teatro il suo amico Théophile Gautier, scrittore, indossava un gilet rosso fiammante in segno di sfida verso la borghesia. Entrambi sostenevano il Romanticismo, la nuova corrente letteraria nata in Inghilterra per merito di poeti come Wordsworth, Coleridge, Keats, Byron, Shelley.  

La sua seconda opera in prosa, “Notre -Dame di Parigi”, che pubblicò a soli 29 anni, un capolavoro, gli diede imperitura fama. È la vicenda della bella gitana Esmeralda, in una bizzarra Parigi del 1400, perseguitata dall’arcidiacono Claude Frollo, uomo colto e lussurioso, soccorsa da Quasimodo, campanaro della maestosa cattedrale. È un romanzo talmente ricco di inventiva che è impossibile riassumerlo in poche righe. 

E come tutti i romanzi di Victor Hugo non è solo bellissimo per la trama ma per come è scritto. È da notare che lui fu il primo scrittore che diede dignità ad un personaggio disabile che prima di allora erano visti in modo alquanto inquietante. 

Tuttavia la fama non bastò a proteggere lo scrittore da una crisi familiare che lo tormentò per alcuni anni. 

Lui e sua moglie avevano avuto cinque figli di cui quattro erano arrivati all’età adulta. Dopo di ciò ella aveva deciso di trasformare il loro matrimonio in un rapporto solo amichevole: era esausta delle gravidanze. Lui la comprese. 

Lui aveva nella sua cerchia un amico, uno scrittore e accademico di nome Sainte – Beuve. Era un tipo piuttosto manierato, misantropo, molto religioso (Victor era credente ma molto anticlericale) e avrebbe poi fatto una grande carriera letteraria soprattutto come critico. Molto tempo dopo, nel 1909, Marcel Proust gli avrebbe dedicato un libro incompiuto intitolato “Contro Sainte – Beuve” dove tra l’altro lo accusava di non aver compreso il genio di Stendhal. Sainte – Beuve non aveva neppure compreso “Madame Bovary” di Flaubert tuttavia sembra che fosse un uomo di un certo garbo e premuroso e, verso il 1827, nacque un’amicizia tra lui e madame Hugo che sarebbe diventata poi una relazione sentimentale. Victor Hugo ne rimase ferito emotivamente ma fu magnanimo verso entrambi, mentre spesso gli altri mariti prendevano a pistolettate moglie e amante, lui, molto più saggiamente, chiese ad Adèle di scegliere tra lui e l’accademico. Lei scelse Victor: li univano l’affetto, vent’anni di matrimonio e cinque figli. Victor Hugo, senza fare scenate, mise alla porta l’accademico. Non altrettanto fece Sainte – Beuve: lo attaccò letterariamente con una recensione anonima, scrisse addirittura un romanzo ispirato a se stesso e a Madame Hugo (intitolato “Madame de Pontivy”), sparlava a destra e a manca di Victor Hugo con frasi sibilline e nel 1841 arrivò a scrivere nei suoi “Diari” che odiava madame Hugo! 

Questa vicenda rimase sconosciuta per ben cent’anni e fu scoperta solo grazie a delle lettere nel 1939. 

Victor Hugo e la moglie continuarono a vivere amichevolmente insieme per tutta la vita. Lei scrisse anche una pregevole biografia su di lui. 

Ma nel 1833 un nuovo amore attendeva lo scrittore nelle sembianze di un’attrice teatrale: Juliette Drouet. Lei aveva 27 anni, era bella e interessante. Oltre ad essere un’attrice era una cortigiana (cioè una donna che aveva apertamente delle relazioni sentimentali con uomini benestanti e talvolta artisti). Quasi inutile dirlo, le cortigiane erano malviste dalla borghesia. Juliette amava leggere, curava la figlia Claire che aveva avuto da uno scultore svizzero, James Pradier, abitava in un appartamento molto elegante con alcuni domestici e, quando incontrò Victor Hugo, aveva una relazione con un principe russo, Anatolij Demidoff che in seguito avrebbe sposato una principessa Bonaparte.

Victor Hugo la conobbe durante le prove di una sua commedia, si innamorò di lei e poco tempo dopo le fece una dichiarazione d’amore nel camerino del teatro. 

Dieci giorni dopo iniziò la loro relazione. 

Lei non era interessata economicamente, si era veramente innamorata.

Juliette Drouet non fu l’amante di Victor Hugo, come sempre viene definita, ma una seconda moglie: rimasero infatti insieme per ben 50 anni. 

Il loro carteggio di 22.000 lettere è oggi in gran parte pubblico. Venne pubblicato in parte nel 1939 e qualcuno si è chiesto se fosse stato legittimo. Effettivamente il carteggio di due innamorati, di due amanti sarebbe forse dovuto rimanere privato ma lettori e lettrici hanno una singolare attrazione per le corrispondenze private degli scrittori. 

Victor Hugo acquistò un appartamento per lei a dieci minuti da casa sua, lui abitava allora nella splendida Place Royale (oggi Place des Vosges) a Parigi e sostenne le spese di Claire (il collegio e tutto il resto), diede a lei una cifra mensile per vivere perché Juliette non aveva un gran successo teatrale. 

Victor Hugo era geloso di lei e dei suoi ammiratori e le chiese di non vedere più nessuno. Ciò era comprensibile ma lei fece di più: si sacrificò per lui, smise di avere una vita sociale, di vedere amici, lo seguì nel suo lungo esilio, lo aiutava anche nel suo lavoro, ricopiava i manoscritti, ne parlavano insieme. 

Sembra che Adèle, madame Hugo, detestasse Juliette. 

Verso il 1839, Léopoldine, 16 anni, figlia primogenita e prediletta di Victor Hugo, una ragazza bruna, delicata, malinconica, che scriveva poesie, incontrò Juliette. Fecero subito amicizia.  

Nel 1843, a 19 anni, Léopoldine sposò un giovane, Charles Vacquerie, che venne descritto come molto serio. Tutti approvarono il matrimonio. Victor Hugo però non fu del tutto felice, sua figlia sarebbe andata ad abitare in provincia e si sarebbero potuti vedere raramente. 

Durante una visita a lei, egli ebbe la netta sensazione che non doveva lasciarla. 

Poi partì insieme a Juliette per uno dei loro soggiorni estivi. 

Il 4 settembre 1843, in un hotel, egli si svegliò nel cuore della notte estremamente inquieto. Juliette cercò di rassicurarlo ma egli compose alcune poesie confuse sul tema della morte. 

Il 9 settembre quando si trovavano in una locanda, in una cittadina di ritorno verso Parigi, Hugo guardò casualmente una gazzetta appoggiata sul tavolo e lesse un articolo: esso annunciava che la figlia di Victor Hugo e suo marito erano deceduti in una disgrazia. 

“Nel destino di ogni uomo può esserci una fine del mondo fatta solo per lui. Si chiama disperazione” avrebbe scritto Hugo molti anni dopo in un romanzo. 

Juliette raccontò di come lo scrittore un attimo prima sorridente era diventato completamente pallido e si teneva una mano sul cuore, non riuscendo più a parlare. 

Il 4 settembre Léopoldine e il marito stavano tornando dallo studio di un notaio via acqua (era frequente viaggiare così), erano accompagnati dallo zio di lui e dal nipote Arthur, di 11 anni, quando la barca si rovesciò nel fiume e tutti annegarono. Per otto volte, secondo i testimoni, Charles Vacquerie tentò di salvare la moglie. Léopoldine era incinta. 

Victor Hugo divenne quasi pazzo dal dolore. 

Per un lungo periodo non scrisse più, visse rinchiuso nella sua stanza dove consumava anche i suoi pasti. Disinteressato a ciò che lo circondava dopo un anno, nel 1844, ritornò nel mondo.

Fu una donna a destare il suo interesse: Leonie d’Aunet, bionda, esile, raffinata, 24 anni, che divenne la sua terza compagna per sette anni. Egli l’aveva già fuggevolmente incontrata qualche anno prima. Leonie, che aveva scritto il resoconto di una esplorazione in una remota isola della Norvegia, aveva per marito un pittore assai geloso. Avendo dei sospetti, un giorno egli seguì la moglie, la vide entrare in un portone e andò a denunciarla alla polizia. L’accusa di adulterio era grave: si poteva restare un anno in prigione ad attendere il processo e poi essere condannati ad almeno un altro anno di carcere. 

Victor Hugo e Leonie furono arrestati in un momento di intimità, il che deve essere stato assai imbarazzante per loro e suscitò non pochi ilari commenti nei caffè parigini. La maligna stampa di destra esultò. Victor Hugo venne liberato dopo parecchie ore. 

La ragazza invece restò in carcere per alcuni mesi nonostante lui smuovesse mari e monti per cercare di farla liberare.

Anni dopo, Leonie inviò a Juliette, che non sapeva nulla, forse per dispetto o forse per liberarsi di lei, le lettere che Victor Hugo le aveva scritto. Juliette lo perdonò.

Tra parentesi, nel 1848, si era suicidata a soli 19 anni, Claire, la figlia di Juliette a cui Hugo aveva fatto da padre adottivo. 

Tempo dopo Leonie, non paziente come Juliette, lo lasciò. 

Questo scandalo cambiò Victor Hugo: da timido divenne un dongiovanni. Rispettoso, affascinante, con la barba, la fronte alta, lo sguardo pensieroso ebbe da allora, sembra, centinaia di avventure e relazioni sentimentali: attrici, signore dell’alta società, borghesi, grisettes (ragazze, spesso venute dalla provincia, sartine o operaie, che frequentavano l’ambiente bohèmien). Anche la famosa attrice Alice Ozy e l’intelligente rivoluzionaria Louise Michel furono compagne di Hugo. La figlia di Louise, Victorine, era probabilmente sua. Louise non volle mai rivelare chi fosse il padre. 

A settant’anni Victor Hugo ebbe due relazioni con due donne poco più che ventenni: la assai bella Judith Gautier, poetessa, figlia del suo grande amico Théophile Gautier, che era sposata con un poeta abbastanza noto, Catulle Mendes (che la lasciò per questo) e poi con l’altrettanto bella attrice Sarah Bernhardt, che era stata ritratta dal famoso fotografo Nadar (che aveva ritratto anche lui in un dagherrotipo). 

Bisogna chiarire che Victor Hugo non fu mai un uomo importuno con le donne o equivoco, non si trova nelle migliaia di pagine scritte da lui neppure una parola misogina o maschilista, anzi, sapeva bene quando era il caso di tacere o di non insistere, forse fare l’amore era per lui un modo per anestetizzare il suo dolore interiore o una specie di droga. 

Vi fu invece solo un’amicizia epistolare tra Victor Hugo e George Sand, la più celebre scrittrice francese del secolo. Lui, a differenza di alcuni letterati assai misogini (tra i quali Sainte – Beuve, Baudelaire e Nietzsche), ebbe una grande ammirazione per George Sand, le dedicò una poesia e la chiamò “orgoglio del nostro secolo”. (nota 1)

Nel dicembre 1852, quando ci fu il colpo di stato di Napoleone III, Hugo corse il rischio di essere arrestato. Napoleone III aveva già fatto arrestare i suoi due figli e poi altre 26.000 persone in Francia. 

Victor Hugo avrebbe affrontato la prigione ma Juliette lo persuase (quasi lo obbligò) a raggiungere Bruxelles in Belgio (e in seguito le isole inglesi di Guernsey e Jersey nel Canale della Manica) e, come lui avrebbe scritto in seguito, gli salvò la vita. 

Napoleone III firmò un decreto di proscrizione e ordinò l’espulsione dal paese di 66 ex rappresentanti dell’Assemblea, tra cui Hugo.

Nel 1859, lo scrittore rifiutò l’amnistia del re rispondendo che, fedele alla sua coscienza, sarebbe tornato solo quando ci sarebbe stata la libertà. 

Aveva anche scritto un testo sul re, intitolato, con ironia tutta francese, “Napoléon Le Petit” (Napoleone il piccolo). Tra parentesi, Hugo aveva compreso che non poteva essere il vero nipote di Napoleone e recenti studi genetici su una ciocca di capelli di Napoleone III hanno confermato l’ipotesi dello scrittore. 

Hugo sarebbe tornato a Parigi solo nel 1870. Nel 1871 avrebbe appoggiato la rivolta della Comune, aiutando i congiurati, e che si sarebbe conclusa tragicamente. 

Madame Hugo morì improvvisamente per un ictus a Bruxelles nel 1868, Juliette a Parigi nel 1883, di tumore. Entrambe confortate da lui. 

Dopo il decesso di Juliette egli non scrisse più nulla. 

Sulla lapide di Juliette si legge una poesia di Hugo che termina con le parole: “Il mondo ha il suo pensiero, io ho il suo amore”.

FINE PRIMA PARTE (continua…)

Nota 1) per chi volesse approfondire mi permetto di suggerire il mio articolo “La ribelle George Sand” (anche pubblicato come “George Sand, una bella vita”) che si può trovare online.  

Lavinia Capogna*

*Lavinia Capogna è una scrittrice, poeta e regista. È figlia del regista Sergio Capogna. Ha pubblicato finora sette libri: “Un navigante senza bussola e senza stelle” (poesie); “Pensieri cristallini” (poesie); “La nostalgia delle 6 del mattino” (poesie); “In questi giorni UFO volano sul New Jersey” (poesie), “Storie fatte di niente”, (racconti), che è stato tradotto e pubblicato anche in Francia con il titolo “Histoires pour rien” ; il romanzo “Il giovane senza nome” e il saggio “Pagine sparse – Studi letterari”.

Ha scritto circa 150 articoli su temi letterari e cinematografici e fatto traduzioni dal francese, inglese e tedesco. Ha studiato sceneggiatura con Ugo Pirro e scritto tre sceneggiature cinematografiche e realizzato come regista il film “La lampada di Wood” che ha partecipato al premio David di Donatello, il mediometraggio “Ciao, Francesca” e alcuni documentari. 

Collabora con le riviste letterarie online Insula Europea, Stultifera Navis e altri website. 

Da circa vent’anni ha una malattia che le ha procurato invalidità.

Ascesa e caduta di César Birotteau, profumiere di Balzac, di Lavinia Capogna

Friedrich Engels, rivoluzionario tedesco e amico e collaboratore di Karl Marx, scrisse che aveva imparato di più sulla società leggendo le opere del legittimista Honoré de Balzac che quelle di tutti gli altri (1).

I legittimisti erano coloro che sostenevano la monarchia borbonica in Francia. Balzac era nato in una famiglia di modesta condizione sociale ed era ammaliato dall’aristocrazia, cosa che probabilmente faceva benevolmente sorridere i suoi amici socialisti come Victor Hugo, Théophile Gautier, George Sand (di cui egli lasciò un significativo ritratto nel romanzo “Beatrix”). Egli aveva anche aggiunto un De, particella nobiliare al suo cognome. 

Dotato di grande volontà e inesauribile fantasia dopo essere stato un ghostwriter fino a 30 anni divenne, negli ultimi vent’anni della sua vita, uno degli autori più importanti della letteratura francese e internazionale. 

Nella sua “Commedia umana” composta di ben 137 romanzi “Balzac analizzò una società cinica dove c’era un solo dio: il denaro; una società senza scrupoli, una società di cui descrisse tutti i vizi e tutti i difetti: aristocratici, nuovi borghesi, proletari, contadini, giornalisti commercianti, medici, preti, avvocati, studenti, artisti, ragazze ingenue, cortigiane, tutto un mondo ed una società sfila nei romanzi di Balzac, dalla frenetica Parigi alle cittadine dove non c’era nulla da fare all’ombra dei tigli e delle persiane azzurre delle vecchie case” (2).

César Birotteau dà il nome ad un suo romanzo pubblicato nel 1837 il cui titolo completo suona: “Histoire de la Grandeur et de la Décadence de César Birotteau” (Storia dell’ascesa e della decadenza di C. B. ) in Italia tradotto solo con il nome proprio (3).

Secondo me, Birotteau è uno dei personaggi più interessanti di Balzac. 

Se Éugenie Grandet ci conquista con la sua limpidezza in un mondo gretto e meschino come quello del padre e del vanitoso cugino, César non è da meno. 

Egli viene dalla campagna (“se mancava di spirito e di istruzione egli aveva un’istintiva rettitudine e dei sentimenti delicati che provenivano da sua madre” scrive Balzac – 4) e a fine Settecento si ritrova da solo a Parigi in cerca di fortuna. Erano gli anni della rivoluzione, delle lotte tra le frazioni ma anche della guerra civile in Vandea.

Dopo ci sarebbe stato l’Impero Napoleonico e la rivoluzione industriale 

Fu la fine di molti mestieri che si potevano fare a casa, tessuti, oggetti artigianali, sopraffatti dalle nascenti industrie e l’inizio di una grande migrazione di contadini e piccoli artigiani verso la capitale: tutto un mondo arcaico stava svanendo. 

È importante mettere a fuoco il contesto storico in cui il romanzo si svolge perché esso non è solo la storia di un uomo (ispirato in parte ad una storia vera) ma di un ambiente sociale. 

A Parigi, Birotteau riesce a trovare un impiego presso un noto profumiere, ex fornitore della regina Maria Antonietta, e pian piano apprende la sua arte. Ragazzo, si trova invischiato in una relazione sentimentale con una cuoca, alcolista e brutale, che lo abbandona senza rimpianti per un coetaneo più avvenente nonché proprietario di un piccolo terreno. 

Il 13 Vendemmiaio (5 ottobre 1795) a Parigi, Birotteau viene convinto a partecipare alla rivolta dei monarchici contro la Convenzione. In realtà egli non sa nulla di politica e non capisce nulla degli eventi travolgenti in corso ma la rivolta viene sedata da un giovane artigliere corso, Napoleone Bonaparte

Si sparge così la voce mendace che Napoleone stesso abbia sparato contro Birotteau facendone, suo malgrado, un eroe monarchico. 

Il povero Birotteau sembra destinato ad una vita infelice quando entrando casualmente in un negozio di novità (articoli di vario genere, nastri, insegne dipinte, orologi eccentrici, cravatte colorate ed altro) che erano allora in gran voga rimane incantato da una bellissima commessa, Constance. 

Si innamora perdutamente di lei. 

Lei non fa caso al timido ragazzo di campagna, onesta, di buoni sentimenti, perspicace viene assillata da molti ammiratori ma suo zio, il sagace Pillerault, sostiene Birotteau perché ha compreso che lui è veramente innamorato di lei. 

Incoraggiato dalla moglie ed ambizioso egli inizia una grande ascesa sociale diventando lui stesso il primo profumiere di Parigi. Crea oli profumati e creme lenitive. È assai divertente quando Balzac racconta come Birotteau usi la pubblicità riempiendo la città di graziosi ed attraenti manifesti avendo come garanzia della validità dei suoi prodotti la firma di un chimico. 

Egli assume un assistente, un personaggio in apparenza grigio ma in realtà machiavellico, senza nessuno scrupolo e gratitudine, Du Tillet. 

Egli importuna la moglie del profumiere, le scrive anche delle lettere e lei riesce a farlo licenziare. Per vendicarsi, Du Tillet ruba dalla cassa una cospicua somma. 

Egli detesta Birotteau, che è ormai diventato ricco e famoso, non solo per la sua agiatezza, la sua fortuna o il fatto che sia sposato con una bellissima donna ma per la sua bontà: “Senza dubbio in quel momento Du Tillet ebbe verso di lui quell’odio inestinguibile che gli angeli delle tenebre hanno verso gli angeli della luce”.

Sarà infatti Du Tillet, in seguito diventato un ricco banchiere grazie a speculazioni e al fatto di essere diventato l’amante della moglie di un uomo di potere, a tramare contro il suo ex datore di lavoro un inganno economico che costituisce il fulcro del romanzo e che Balzac racconta in modo irresistibile. 

Chiaramente non si può raccontare nulla di questa vicenda per non sciupare la lettura del romanzo, né la parte finale.

A far da contrappunto a Du Tillet c’è il nuovo apprendista, Armand Popinot, un ragazzo disabile, zoppo. 

C’e da dire che fin dai tempi antichi le disabilità erano state insensatamente viste come una forma di espiazione per colpe e manchevolezze. I disabili venivano spesso ricoverati insieme ai pazzi e ai vagabondi in tetri (a dir poco) edifici/prigioni o erano personaggi inquietanti nelle fiabe popolari (5).

Furono proprio Balzac, Victor Hugo (con Quasimodo, il gobbo di Nôtre Dame) e Charles Dickens a dare un’immagine più positiva della disabilità. 

Popinot è un giovane bassino, sensibile e timido che inizia una propria attività commerciale associandosi a Birotteau. Egli è innamorato della leggiadra Césarine, figlia del profumiere, che è un ritratto perfetto di una ragazza agiata della borghesia di allora, suona il pianoforte e legge romanzi. 

Il padre, colto da manie di grandezza, decide di rimodernare la loro casa e il negozio. Esilarante il personaggio dell’impeccabile architetto che poi presenta una fattura esorbitante. 

Birotteau decide anche di dare una sontuosa festa, simbolo di prestigio sociale. 

Le vendite vanno a gonfie vele ed egli viene persuaso a partecipare ad una speculazione edilizia. Erano i tempi in cui Parigi incominciava a ingrandirsi, le strade strette e fangose venivano demolite per far spazio a palazzine popolari o borghesi. 

Accecato dal miraggio di diventare sempre più ricco e nonostante l’opposizione della moglie, egli non si rende conto che i suoi soci sono in realtà una masnada di farabutti: tra di loro ci sono stimati notai, avvocati, un potente banchiere tedesco e dietro, come uno Jago shakesperiano, Du Tillet. 

Un altro personaggio in antitesi con questi truffatori è Pillerault, zio di madame Birotteau, un uomo di idee molto progressiste, ex proprietario di una ferramenta, che vive dignitosamente la terza età e che osserva attentamente la gente (a differenza del profumeriere). Sarà l’unico, insieme a Popinot, personaggio che ha un imprevedibile sviluppo, che tenterà di aiutare il suo avventato parente monarchico. 

Il romanzo è scritto in uno stile scorrevole, assai avvincente, per nulla prolisso, evita qualche elemento kitsch o esotico che a volte si ritrova nei romanzi balzacchiani in sintonia con il gusto della sua epoca. 

Birotteau è un personaggio commovente di cui Balzac registra accuratamente i moti del cuore, non ha nulla di un eroe, non bello, non audace, non romantico, non è un Dantès o un Julien Sorel, è un uomo comune, ingenuo, preso in giro da tutti (eccetto che da Pillerault e da Popinot) che cerca di barcamenarsi in una società sempre più complessa e corrotta di cui egli neppure immagina i meccanismi. 

Ma è anche un self made man che non sa moderare la sua ambizione. La sua debolezza lo rende umano ed egli ci dice molto anche sull’umanità del suo autore.

Note:

1) “(Balzac) dà nella ‘Comédie humaine” (…) una storia completa della società francese dalla quale io, perfino nelle particolarità economiche (… ) ho imparato più che da tutti gli storici, gli economisti, gli statisti di professione di questo periodo messi insieme” 

(F. Engels, Il realismo di Balzac, lettera a M. Harkness (primi aprile del 1888), in K. Marx, F. Engels, Scritti sull’arte) 

2) “Balzac, una vita piena di opere più che di giorni” di Lavinia Capogna (2022).

3) “César Birotteau” di Honoré de Balzac a cura di Paola Dècina Lombardi, traduzione di Francesca Spinelli – Oscar Mondadori, 2021

4) Le traduzioni dei brani del libro citati sono state fatte da me dal testo originale francese. 

5) Michel Foucault Storia della follia nell’età Classica

Lavinia Capogna*

*Lavinia Capogna è una scrittrice, poeta e regista. È figlia del regista Sergio Capogna. Ha pubblicato finora sette libri: “Un navigante senza bussola e senza stelle” (poesie); “Pensieri cristallini” (poesie); “La nostalgia delle 6 del mattino” (poesie); “In questi giorni UFO volano sul New Jersey” (poesie), “Storie fatte di niente”, (racconti), che è stato tradotto e pubblicato anche in Francia con il titolo “Histoires pour rien” ; il romanzo “Il giovane senza nome” e il saggio “Pagine sparse – Studi letterari”.

Ha scritto circa 150 articoli su temi letterari e cinematografici e fatto traduzioni dal francese, inglese e tedesco. Ha studiato sceneggiatura con Ugo Pirro e scritto tre sceneggiature cinematografiche e realizzato come regista il film “La lampada di Wood” che ha partecipato al premio David di Donatello, il mediometraggio “Ciao, Francesca” e alcuni documentari. 

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Da circa vent’anni ha una malattia che le ha procurato invalidità.

Le radici teologiche della politica coloniale di Israele, di Vincenzo Franciosi

Questo scritto nasce dall’indignazione di fronte a un crimine morale, storico e politico che si consuma sotto gli occhi di tutti: il colonialismo genocidario dello Stato ebraico di Israele contro il popolo palestinese. 

Se fossi vissuto negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, avrei rischiato la vita per salvare un ebreo dai campi di sterminio. Ma oggi è diverso. Oggi è proprio lo Stato che si proclama “ebraico” a perpetrare crimini contro l’umanità. E lo fa con l’arroganza di chi si sente intoccabile, coperto da una narrazione tossica che confonde pretestuosamente antisemitismo e antisionismo, memoria e propaganda, autodifesa e annientamento. Israele ha trasformato il sionismo, nato come ideologia di emancipazione, in un progetto colonialista ed espansionista, fondato su occupazione, apartheid e pulizia etnica. La definizione stessa di Israele come “Stato ebraico” rappresenta una contraddizione rispetto ai principi del diritto costituzionale moderno, che fondano la legittimità dello Stato sulla cittadinanza inclusiva e sull’uguaglianza dei diritti. Un’identità statale fondata sull’appartenenza religiosa ed etnica produce inevitabilmente esclusione e discriminazione. In Israele, infatti, l’appartenenza al “popolo ebraico” non è definita da criteri civili, ma da una logica genealogico-religiosa, per cui è ebreo chi è nato da madre ebrea o, in rarissimi casi, chi ha ricevuto una conversione riconosciuta dalle autorità rabbiniche. Questo principio, che si fonda sull’antico adagio giuridico mater semper certa est, pater numquam, è alla base della Legge del ritorno del 1950, che concede automaticamente la cittadinanza israeliana a ogni ebreo del mondo, escludendo però milioni di Palestinesi nati o residenti in quella stessa terra. Tale impostazione è stata ulteriormente rafforzata dalla Legge fondamentale del 2018 (Basic Law: Israel as the Nation-State of the Jewish People), che definisce Israele come «la patria storica del popolo ebraico» e dichiara che «il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivo del popolo ebraico». Con questa norma costituzionale, lo Stato non solo si autorappresenta come etnicamente connotato, ma istituzionalizza una gerarchia tra cittadini, subordinando ogni altra identità nazionale o culturale a quella ebraica. Ne risulta un modello statuale etnico e confessionale, che privilegia una sola comunità, quella ebraica, a scapito di ogni concezione pluralista o democraticamente rappresentativa. È, di fatto, uno Stato tribale, non uno Stato di diritto per tutti i suoi abitanti.

Il concetto di “ebraicità”, così come definito dalla tradizione rabbinica, è strutturalmente chiuso ed escludente. Affonda le proprie radici in millenni di teologia e trova oggi applicazione politica nello Stato di Israele. Contrariamente a quanto molti affermano per ignoranza o ipocrisia, l’ebraismo non è semplicemente una fede religiosa. La sua definizione si fonda su criteri biologici: si è ebrei se si nasce da madre ebrea. Ne deriva un’identità “di sangue” che non può essere abbandonata nemmeno in caso di ateismo o di conversione ad altra religione.

Fin dall’antichità, il segno visibile e indelebile dell’alleanza tra il popolo di Israele e YHWH (Yahweh) è costituito dalla circoncisione (milah). La sua origine è nel libro della Genesi, dove YHWH stabilisce un patto eterno con Abramo e i suoi discendenti: «Questo è il mio patto che dovrete osservare, tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: ogni maschio tra voi sia circonciso… Questo sarà il segno dell’alleanza fra me e voi» (Genesi 17:9-11). La circoncisione deve essere praticata all’ottavo giorno dalla nascita e chi non la compie viene «reciso dal popolo» (Genesi 17:14), cioè escluso dall’alleanza.

Nel pensiero biblico e rabbinico, la milah ha un significato profondamente identitario. È un marchio fisico e spirituale che segna per sempre l’appartenenza al popolo di Israele. Anche in caso di peccato o di abbandono della fede, la circoncisione rimane valida. La tradizione rabbinica afferma infatti: «Tutti gli Israeliti circoncisi non vedranno mai la Gehenna, a meno che il profeta Elia non riporti il prepuzio al suo posto» (Midrash Tanchuma, Tazria 7); «La Gehenna è solo per i malvagi delle nazioni; per Israele è un passaggio momentaneo e non li distruggerà mai» (Talmud Bavli, Avodah Zarah 3a). 

Questa impostazione è unica e appare profondamente discriminatoria perché separa in modo netto gli ebrei dai goyim (gentili) e costruisce una logica di superiorità ontologica, espressa chiaramente in numerosi testi rabbinici: «Un gentile che uccide un altro gentile o un israelita è condannato a morte; un israelita che uccide un gentile non viene condannato a morte da un tribunale» (Maimonide, Mishneh Torah, Hilkhot Melakhim 10:11); «Tutte le nazioni del mondo esistono solo per servire Israele» (Zohar, Shemot 14b); «Voi [Israeliti] siete chiamati uomini, mentre le nazioni non sono chiamate uomini» (Talmud Bavli, Yevamot 61a); «Solo Israele sarà risvegliato alla vita eterna, mentre le altre nazioni saranno giudicate come animali» (Zohar, Vayikra 34b); «Tutti i figli dei gentili sono come animali» (Talmud Bavli, Yebamoth 98a).

È impressionante notare come questi concetti tradizionali vengano ripresi identici nella retorica politica israeliana contemporanea. Diversi ministri e leader israeliani hanno definito i palestinesi “animali”, riproducendo letteralmente il linguaggio dei testi rabbinici. Il ministro delle finanze Bezalel Smotrich (ottobre 2023) ha parlato dei palestinesi come “bestie terroristiche”; il ministro della difesa Yoav Gallant (ottobre 2023) li ha definiti “animali umani”.

Israele bombarda scuole, ospedali, mutila bambini, affama civili, distrugge città e villaggi. Non è autodifesa: è annientamento sistematico. E mentre accade tutto questo, il mondo occidentale applaude, tace o peggio ancora, accusa di antisemitismo chi critica la politica genocidaria dello “Stato ebraico”.

Io non sono antisemita. E, a voler essere precisi, il termine stesso ‘antisemita’ è un’aberrazione linguistica, perché semiti sono anche i Palestinesi. Al contrario, provo empatia profonda per ogni ebreo che oggi si sente tradito dallo Stato che, in teoria, dovrebbe rappresentarlo. Se fossi ebreo, superata la depressione iniziale, combatterei con tutte le forze contro questo Stato razzista e assassino, contro questa menzogna, contro questo tradimento. Combatterei con la verità, così come fanno Moni Ovadia, Ilan Pappè, Shlomo Sand, Ariel Toaff, Zvi Schuldiner e tanti altri ebrei, paradossalmente accusati di antisemitismo.

Si parla tanto di recrudescenza dell’antisemitismo. Ma dov’è questo antisemitismo? Oggi i nipotini dei veri antisemiti, i neonazisti e i neofascisti attuali, sono dalla parte di Israele. Non perché abbiano compreso i loro errori, o provino sensi di colpa, ma perché invidiano Israele: Stato armato, etnico, spietato, che viene a rappresentare il compimento dei loro sogni autoritari. Il vero antisemitismo, oggi, è usare la Shoah come scudo morale per giustificare l’oppressione e la distruzione di un popolo come quello palestinese, a sua volta semita.

Per comprendere fino in fondo la brutalità dell’attuale politica coloniale e genocidaria dello Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese, è necessario risalire alle sue radici mitico-religiose: il concetto di “popolo eletto”, l’idea di “terra promessa”, la pratica del kherem. Questi tre elementi, profondamente intrecciati nella Torah, continuano a essere utilizzati per legittimare un’aggressione sistematica travestita da autodifesa. L’idea che il popolo ebraico sia stato “scelto” da Dio tra tutti i popoli – «voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Esodo 19,6) – ha generato un’identità etnica esclusiva, fondata sulla distinzione radicale tra “noi” e “loro”. Questa elezione non è mai universale, ma selettiva e condizionata. Nella lettura sionista, essa si è trasformata in una legittimazione etnica della sovranità su una terra promessa da YHWH e della eliminazione della sua popolazione indigena. Il concetto di “terra promessa” – «la terra che io do a voi e alla vostra discendenza» (Genesi 12,7) – è oggi reinterpretato in chiave geopolitica come diritto esclusivo all’occupazione. Questa promessa, nella Torah, è sempre accompagnata da narrazioni di conquista, sradicamento e annientamento dei popoli residenti: Cananei, Filistei, Amaleciti, ecc. Nella retorica politica israeliana contemporanea, la “terra promessa” è divenuta uno spazio esclusivo da purificare mediante lo sterminio. Durante l’operazione militare israeliana “Piombo Fuso” del 2008-2009 (oltre 1400 morti tra i Palestinesi, quasi tutti civili), alcuni telegiornali trasmisero dei filmati in cui due caccia israeliani mitragliavano, in un villaggio palestinese, dei cavalli chiusi in un recinto. Questo gesto, apparentemente inspiegabile dal punto di vista militare, ha una chiara analogia con la logica del kherem, ovvero l’annientamento totale come forma di “consacrazione distruttiva”. Il concetto di kherem è fondamentale nella visione etnica e militare della divinità del popolo di Israele. Parlo di “divinità del popolo di Israele” e non di Dio in senso universale, perché l’idea di un Dio unico e universale non appartiene all’ebraismo delle origini, ma nasce dopo l’esilio babilonese, si rafforza con l’influsso della filosofia greca e viene compiutamente formulata solo nel Giudaismo tardo, nel Cristianesimo e nell’Islam. 

Si parla solitamente del monoteismo ebraico come della radice prima e incontestabile della tradizione religiosa occidentale. Ma questa convinzione si fonda su una mistificazione storica e teologica. Il cosiddetto monoteismo dell’Antico Testamento non è, in realtà, monoteismo nel senso pieno del termine. La Torah conserva, nella lingua, nei miti e nelle affermazioni, le tracce evidenti di un politeismo arcaico, successivamente mascherato e reinterpretato. Il termine stesso “Elohim”, utilizzato per indicare l’Ente Supremo, è un plurale e significa letteralmente “gli dèi”. Solo in epoca tarda si è voluto intendere come un pluralis maiestatis. La grammatica e i contesti narrativi rivelano invece che, originariamente, si parlava di una pluralità di esseri divini: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Genesi 1,26). La figura di YHWH, che subentra progressivamente a Elohim, anzi, agli Elohim, è quella di un dio etnico, locale, guerriero. Il cosiddetto “Dio degli eserciti” non è l’unico Dio, ma la divinità principale del popolo di Israele, descritta come superiore agli altri dèi ma non unica: «Chi è come te tra gli dèi, o YHWH?» (Esodo 15,11); «Non avrai altri dèi davanti a me» (Esodo 20,3). Non è negata, quindi, l’esistenza di altri dèi, ma è vietato adorarli. Il termine giusto atto a definire lo Yahwismo biblico non è, quindi, “monoteismo” ma “monolatria”. Il Dio unico, creatore universale, onnipotente e trascendente, è, come si è accennato poc’anzi, il frutto di una lunga evoluzione teologica che si consolida soprattutto dopo l’esilio babilonese (VI sec. a.C.) e, in maniera ancora più profonda, con l’incontro con la filosofia greca in età ellenistica. L’influsso delle categorie greche è decisivo: da Parmenide e Platone proviene l’idea dell’unità dell’Essere, dell’esistenza di un principio supremo che non tollera rivali; dallo Stoicismo la nozione di logos, legge razionale e universale che ordina il cosmo, e il concetto di provvidenza; da Aristotele l’idea di un “primo motore” eterno, immutabile e perfetto. Queste categorie trasformano radicalmente il volto di YHWH, che non è più un dio nazionale, legato a un solo popolo, ma diventa il Signore dell’universo, creatore di tutto e giudice di tutte le nazioni. I testi biblici più tardi, come Isaia deutero e trito, riflettono già questa svolta: «Io sono il Signore e non c’è alcun altro» (Isaia 45,5). Si passa così da una religione tribale e monolatrica a un monoteismo universale, che però continua a custodire l’idea dell’elezione esclusiva d’Israele, mantenendo una tensione irrisolta tra universalismo etico e identità etnica.

A questo punto va meglio definito il concetto di kherem, al quale facevamo cenno precedentemente, e che significa “separato” perché consacrato a YHWH. Il termine kherem può indicare ciò che è sacro, ma anche ciò che è impuro e deve essere annientato. In Deuteronomio 20,16-18 viene comandato lo sterminio totale degli abitanti delle città conquistate: «non lascerai nulla in vita che respiri». Lo stesso accade al popolo amalecita, sottoposto al kherem in 1 Samuele 15,3: «Ora va’, colpisci Amalek e vota allo sterminio tutto ciò che gli appartiene: non risparmiarli, ma uccidi uomini, donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini». Il primo ministro Benyamin Netanyahu (ottobre 2023) ha citato esplicitamente questo passo biblico per legittimare la violenza israeliana contro i Palestinesi, evocando lo sterminio come atto di consacrazione al “Signore”. Analogamente, il ministro dell’agricoltura Avi Dichter (novembre 2023) ha dichiarato che “va completata la Nakba come compito biblico”.

Insieme, i tre concetti di “popolo eletto”, “terra promessa” e kherem, costituiscono un arsenale simbolico tendente a giustificare, nei fatti, una politica di apartheid, pulizia etnica e genocidio. Il linguaggio religioso diventa, quindi, strumento ideologico per legittimare la violenza coloniale dello “Stato ebraico”.

L’inclusione dell’Antico Testamento nel canone cristiano non fu una scelta ovvia, ma il risultato di un lungo processo nei primi secoli del Cristianesimo. I primi cristiani, essendo ebrei, leggevano naturalmente le Scritture di Israele, ma quando la Chiesa si separò progressivamente dal giudaismo emerse un dibattito: quelle stesse Scritture, con la loro teologia etnica e bellicosa, dovevano restare testi sacri? Nel II secolo il vescovo Marcione, scandalizzato dall’immagine di un Dio crudele e vendicativo, propose di rifiutare del tutto l’Antico Testamento e di conservare solo parte dei Vangeli e alcune lettere di Paolo. La Chiesa di Roma reagì scomunicando Marcione e affermando l’unità tra Antico e Nuovo Testamento, ma lo fece al prezzo di portare con sé un bagaglio teologico problematico. I sinodi di Ippona (393) e Cartagine (397 e 419) sancirono definitivamente il canone biblico che conosciamo, nel quale l’Antico Testamento, con le sue pagine di elezione etnica, di promesse di conquista e di kherem, divenne parte integrante delle Scritture cristiane. Questa decisione della Chiesa, nata anche dall’esigenza politica di legittimarsi storicamente mostrando di avere radici solide e antiche, ha avuto conseguenze profonde: il Cristianesimo ha ereditato una teologia che non sempre coincide con il messaggio universale e inclusivo di Gesù.

In conclusione, continuare a proclamare “sacro” un testo come l’Antico Testamento, che contiene una teologia arcaica, tribale e bellicosa, significa oggi legittimare una visione del mondo che giustifica dominio, apartheid e genocidio. Riconoscere che il cosiddetto “monoteismo ebraico” non è un autentico monoteismo universale, ma una teologia etnica evolutasi nel tempo, non è un’offesa: è onestà intellettuale. È il primo passo per liberare la spiritualità da ogni ideologia del sangue e del possesso, e per affermare un’etica davvero inclusiva.

Vincenzo Franciosi

Vincenzo Franciosi è professore associato di Archeologia Classica. Ha scavato in vari siti dell’Italia meridionale quali Fratte (SA), Buccino (SA), Montescaglioso (MT), Pompei (NA). Ha pubblicato studi sulle importazioni ceramiche corinzie di età geometrica nell’isola d’Ischia e sulle loro imitazioni locali; sulla ceramica figurata attica del V sec. a.C.; sull’urbanistica pompeiana e sugli scavi dell’insula VII, 14 a Pompei; sul culto della Mefite in Valle d’Ansanto; sulla statuaria arcaica in marmo dall’Acropoli di Atene; sulla statuaria in bronzo dalla Villa dei Papiri ad Ercolano; sulla statuaria policletea. È stato insignito, per l’insieme degli studi e delle indagini condotti nel campo dell’Archeologia Classica, del Premio Anassilaos 2020-21 (XXXII-XXXIII) “Arte, Cultura, Economia, Scienze” – Premio Μνήμη per l’Archeologia, Reggio Calabria, 13 Novembre 2021.

Giambattista Vico: “La Scienza Nuova”, di Sonia Di Furia

Con il Settecento giunge a piena risoluzione la catena di conflitti apertisi nel Seicento, con la crisi sia del sistema e del modello conoscitivo tradizionale, sia delle certezze che a quello erano collegate. Secolo di profonda e generale trasformazione, il Settecento si apre sulla scena politica con il dominio incontrastato del massimo sovrano assoluto, Luigi XIV di Francia, il re Sole, e si chiude sulle prime vittorie italiane del generale Napoleone Bonaparte, destinato a divenire il primo imperatore dei Francesi e a diffondere in tutta Europa i principi della rivoluzione francese ( Liberté, égalité, fraternité), sui quali si fondano oggi direttamente o indirettamente le Costituzioni di tutti gli Stati del mondo. Egemonia francese che, però, cede ben presto il passo al prevalere di quella potenza marinara, l’Inghilterra, che darà il via al processo di trasformazione globale e radicale dell’organizzazione economica e sociale che va sotto il nome di “Rivoluzione industriale” e segna in modo determinante il percorso successivo dell’evoluzione dell’umanità, condizionandone nel bene e nel male ogni forma di organizzazione civile e di esperienza di vita.

Per analizzare e comprendere questi processi, il metodo d’indagine scientifico-matematico, empirico e razionale, derivato dalle scienze naturali, è dal Settecento applicato a tutto lo scibile. Nessun settore dell’esperienza umana è escluso dalla verifica e dal vaglio critico operato dalla ragione che, in questo senso, si sostituisce, come criterio superiore di verifica di ogni affermazione e come principio di ogni azione, alla fede, alla Rivelazione cristiana e alla sua tradizionale interpretazione dogmatica. Nessuna autorità tradizionale, nessun modello istituzionale passa indenne attraverso l’esame cui l’uomo del Settecento sottopone i più minuti aspetti della realtà naturale e umana, ogni settore della conoscenza e della cultura.

In questo sistema di analisi si inserisce il capolavoro di Giambattista VicoPrincìpi di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, per i quali si ritrovano altri princìpi del diritto naturale delle genti”, come recita il titolo della prima edizione del 1725. Si prende qui in considerazione l’edizione “I classici Bur” della Biblioteca Universale Rizzoli, con introduzione e note di Paolo Rossi, quinta edizione del 1994.

Sintesi coraggiosamente innovativa del lavoro erudito dei decenni precedenti, l’opera propone un’interpretazione generale della storia delle attività umane, dei principi fondatori della società e della sua evoluzione dalle origini (desunte dall’autore nel mito e nella realtà delle lingue e delle letterature arcaiche) fino agli esiti moderni.  La ricostruzione del passato comporta delle costanti del divenire storico, analizzato in tutte le sue espressioni culturali di fondo (religiose, politiche, giuridiche e istituzionali, linguistiche, filosofiche e letterarie) e spiegato come l’alternarsi progressivo di fasi successive di civiltà umana ( l’<<età degli dei>>, <<degli eroi>> e <<degli uomini>>), alle quali l’autore fa corrispondere una concezione del mondo, una sensibilità attraverso la quale si esprime il grado di sviluppo raggiunto dall’umanità e che informa nel profondo le modalità dell’esperienza e dell’organizzazione sociale. 

Poiché la ricerca di Vico si spinge fino alle origini prime dell’umanità, ben oltre il punto in cui l’uomo produsse i primi documenti scritti, buona parte della ricostruzione dei caratteri originari dell’umanità e dell’età primitiva, a cui l’autore dedica la massima attenzione, si fonda sulle tracce non intenzionali trasmesse da quell’età ai tempi successivi. Molto frequente è il ricorso alle spiegazioni etimologiche; indispensabile riferimento e oggetto di studio diviene il patrimonio mitologico e leggendario, i rituali e il folklore, dai quali l’autore ricava i dati utili alla ricostruzione, il più possibile fedele all’originale, della mentalità e delle funzioni interiori dell’uomo primitivo. Da queste infatti Vico fa dipendere lo sviluppo successivo della storia del genere umano. 

Un mondo sterminato di <<detriti>> storici, giudicati fino a quel momento inaffidabili dalla tradizione colta, vengono per la prima volta riportati alla luce e interpretati come documenti della massima importanza per risalire alla definizione della psiche umana, colta nella sua fase primitiva, allo stato originale. Vico supera così definitivamente il confine tra la “civiltà” europea moderna e le altre forme dell’organizzazione umana che l’uomo europeo, al primo contatto con le popolazioni indigene del Nuovo Mondo, aveva provveduto a collocare su un piano inferiore o addirittura subumano: si pensi ai dubbi sorti a proposito della loro appartenenza al genere umano, alle discussioni nate tra i teologi per stabilire se quelle popolazioni fossero o no dotate di anima. Nessuna fase dello sviluppo dell’umanità è di per sé, superiore, in senso assoluto, alla precedente; ciascuna è indispensabile allo sviluppo della vicenda umana. 

Vico ammette la forza della provvidenza divina nella trasformazione storica, ma le considerazioni relative all’azione creativa dell’uomo suggeriscono implicitamente la visione di un mondo il cui sviluppo è largamente affidato alla sua iniziativa, spinto alla trasformazione dal bisogno di soddisfare il proprio desiderio di conoscenza e di azione. In ogni caso Vico non presenta, nella sua ricostruzione del passato, interventi diretti di Dio nella determinazione del corso della storia umana, poiché il progresso, quale è concepito nella Scienza nuova, non è orientato verso alcuna meta e non esclude la possibilità di un regresso, l’instaurarsi di un processo regressivo (corsi e ricorsi). Inseriti nell’insieme ordinato e oggettivo del corso della storia, anche i regressi storici rispondono comunque a una logica che permette in buona misura di prevedere i risultati dell’azione umana.

La progressione delle linee teoriche generali dell’opera, portarono l’autore a due successive riedizioni (1730; 1744, postuma, con il titolo di “Princìpi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni”). In esse, il testo dal 1725 veniva progressivamente ampliato e organizzato, inserendo i risultati di nuove osservazioni e dimostrazioni, accumulatesi via via in gran numero, in un processo continuo di revisione e di crescita.

Il lavoro secolare di indagini dedicate dalla critica alle opere precedenti la “Scienza nuova”, per lo più inedite, ha fatto emergere i motivi che orientano la ricerca di Vico e trovano la loro sintesi nel capolavoro. In questo senso il “De antiquissima italorum sapientia” (L’antichissima sapienza degli italici), del 1710, per alcuni attardato e inadeguato, testimonia nello studioso un’esigenza largamente diffusa nella cultura italiana del tempo, che respinse in buona misura la proposta cartesiana a causa della sua astrattezza intellettualistica.

Rifiutando Cartesio, Vico rifiuta di accettare il predominio incontrastato del metodo matematico e del modello conoscitivo proposto dalle scienze naturali e rivendica la piena dignità, anzi la centralità, delle discipline umanistiche, che avevano perduto negli ultimi decenni il predominio di cui avevano goduto nell’età classica e rinascimentale.  Particolarmente significativa è, in questo senso, l’orazione “De nostri temporis studiorum ratione” (Il metodo degli studi del nostro tempo, del 1709). In essa Vico dimostra un’approfondita conoscenza del metodo fisico-matematico usato dai cartesiani, e considerato il metodo universale perfetto di indagine della realtà, ma esprime la preoccupazione che la nuova scienza confidi eccessivamente nell’assolutezza e nell’universalità di applicazione dei propri strumenti conoscitivi e finisca per sottostimare i limiti della ragione umana. Lo studio della scienza finirebbe per distogliere l’attenzione della classe colta dallo studio di tutta una serie di funzioni psichiche non operanti secondo principi matematici, come la fantasia, e di tutta una serie di attività culturali esprimentisi secondo modi di tipo non-logico, l’arte, l’eloquenza, non penetrabili attraverso lo strumento matematico, ma fondamentali nell’orientare il comportamento dell’uomo. 

Ma una volta stabilito, con Cartesio, che l’unica conoscenza sicura, <<certa>>, è quella esatta, offerta dall’applicazione del metodo matematico alla realtà fisica, e constatato che non si possono spiegare matematicamente i comportamenti umani, si deve da questi due fatti dedurre che non si può dare conoscenza sistematica e obiettiva di queste sfere dell’esperienza, poiché non possono essere imposte in termini matematici.  Vico ha il merito di aver superato questa difficoltà metodologica, che blocca di fatto ogni razionalismo di tipo matematico, recuperando all’osservazione e all’interpretazione coerente e rigorosa dell’intellettuale, il “filosofo”, tutto il vasto terreno dell’incerto, in cui l’uomo da millenni, con soluzioni continuamente nuove, opera la maggior parte delle sue scelte di vita, applica la sua intelligenza ed esercita continuamente la sua creatività.

La soluzione che permette a Vico di superare il dilemma, se sia possibile spiegare razionalmente l’irrazionale, emerge nel famoso principio del <<Verum ipsum factum>> (è accertabile solo ciò che è stato fatto): se a Dio soltanto pertiene, in quanto creatore, la conoscenza piena della natura, all’uomo compete la conoscenza delle proprie creazioni concrete, delle proprie realizzazioni. Compito della filosofia è, allora, mettere a punto strumenti concettuali, altrettanto rigorosamente razionali, quanto quelli messi a punto nel campo fisico-matematico dalla scuola cartesiana, ma specificamente adattati all’oggetto di studio. 

Nella ricerca di un collegamento strettissimo tra la formulazione di un’ipotesi teorica che spieghi il meccanismo che guida l’evoluzione della “cultura” umana, nella vita del singolo e della comunità, e i fenomeni particolari in cui la legge dello sviluppo storico si realizza concretamente, Vico si dimostra erede del metodo scientifico inaugurato in Italia da Galilei. Egli lo estende, di fatto, al mondo dell’uomo, di cui come abbiamo detto rivendica il primato.  La nova definizione vichiana dell’esperienza umana presenta non poche analogie, per originalità, ampiezza della portata e risultati raggiunti, con la rivoluzione copernicana del secolo precedente. Non a caso, tra gli autori a cui Vico si collega idealmente, egli indica l’inglese Francis Bacon, filosofo empirista, eminente uomo politico e strenuo assertore della rivoluzione scientifica del Seicento. 

Non è un caso, inoltre, che Vico approdi alla sua geniale ridefinizione dei meccanismi generali, individuali e sociali, del divenire della società umana, attraverso lo studio del diritto, tanto strettamente collegato alla dimensione politica e di conseguenza alla definizione dei bisogni essenziali dell’uomo. La lezione del giusnaturalismo, della teoria del diritto naturale formulata nei decenni precedenti dall’olandese riformato Huig de Groot e dal tedesco Samuel von Pufendorf, che giungono all’identificazione di principi giuridici comuni a tutta l’umanità, perché basati sulle esigenze e tendenze comuni a tutti gli uomini, offre a Vico il primo esempio di una sintesi teorica generale fondata in concreto sullo studio delle forme che l’umanità ha saputo dare nel tempo alle norme che regolano la convivenza civile. 

 Il procedimento dei giusnaturalisti viene applicato da Vico a tutte le manifestazioni della socialità dell’uomo, e non solo a quelle formali e coscienti quali il diritto, aprendo così la via alla costruzione delle moderne scienze sociali e dell’antropologia in particolare. La connessione instaurata tra speculazione filosofica ed esperienza storica concreta, il carattere di utilità pratica che Vico attribuisce alla propria indagine e le modalità stesse di questa, collegano lo studioso alle correnti più autorevoli del pensiero italiano ed europeo che tra Sei e Settecento si oppongono ai vincoli tradizionali della cultura espressa dalla Controriforma e ne determinano la crisi irreversibile.

Stabilito che il <<mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini>>, la vicenda storica che Vico porta alla luce è la storia dell’evoluzione della mentalità umana, delle caratteristiche psichiche profonde che caratterizzano la percezione del mondo e danno forma, creandola, ad ogni aspetto dell’organizzazione sociale e dell’attività umana. 

Sostanzialmente ignorata dai contemporanei, che per lo più la rifiutarono per la sua <<oscurità>>, La Scienza nuova circolò ampiamente negli ambienti illuministi napoletani e, conosciuta per il tramite degli esuli napoletani della Repubblica Partenopea (1799), ispirò l’azione della maggior parte degli intellettuali impegnati nel Risorgimento. 

I Romantici europei, poi, trovarono in Vico l’anticipazione della loro visione della storia, come progresso civile delle nazioni e della rivalutazione della grandezza umana e civile espressa dalla grande poesia del passato (da Omero a Dante in particolare). Esaltata da Benedetto Croce come fondamento dell’indirizzo storicistico che caratterizzerebbe il pensiero italiano moderno, La Scienza nuova oggi è considerata anche fuori dall’Italia come una tappa fondamentale nella costruzione della moderna concezione dell’uomo e della storia, nonché l’opera con cui ha origine lo studio scientifico della mitologia e, più in generale, della vastissima materia afferente alle scienze umane. 

Per chi ne avesse desiderio, oltre che occasione, si suggerisce di andare a visitare la casa natale di Vico, con la sottostante piccola bottega del padre libraio (libreria non più esistente), in cui visse fino all’età di diciassette anni, come precisa la lapide sulla facciata. Si trova in via San Biagio dei Librai a Napoli. Il testo della lapide fu dettato da Benedetto Croce (colui che aveva scritto e pubblicato su Il Mondo, quotidiano politico, il primo maggio 1925 “L’antimanifesto” in risposta al “Manifesto degli intellettuali fascisti” di Giovanni Gentile). Nella domanda presentata al Municipio di Napoli, su suggerimento di Mario Forges Davanzati, per evitare che la domanda stessa venisse respinta dalle autorità fasciste, Fausto Nicolini si dichiarò autore del testo. La domanda fu accolta e lo scoprimento della lapide avvenne il 23 giugno 1941, alla presenza delle autorità e dell’autore fittizio.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.