Émile Zola: “L’assommoir” (Rizzoli, trad. Luigi Galeazzo Tenconi), di Lavinia Capogna

Il sogno di Gervaise

Émile Zola (1840 – 1902) era un uomo sensibile, pieno di talento. 

Riuscì a farsi notare nel variegato mondo letterario parigino con le sue prime opere e vari articoli e nel 1870, a trent’anni, firmò con un editore un contratto che ben pochi scrittori avrebbero avuto il coraggio di accettare: scrivere venti romanzi in vent’anni e ci riuscì.

I venti romanzi, intitolati “I Rougon-Macquart. Storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero” (Les Rougon-Macquart. Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire) pubblicati tra il 1871 e il 1893, prendevano a modello la “Commedia umana” di Balzac ma erano/sono assai diversi nello stile e nei contenuti.

 

Non è necessario leggerli in ordine cronologico, anche se i personaggi sono collegati fra di loro essendo discendenti della stessa famiglia.

Edmondo De Amicis, scrittore ligure autore del famoso libro “Cuore”, ha lasciato un resoconto prezioso di una sua conversazione con Zola nella quale l’artista francese (ma di padre italiano) gli svelava il suo modo di procedere nel lavoro (nota 1). 

Quando Zola aveva un’idea letteraria iniziava a fare un’indagine giornalistica sull’ambiente che intendeva descrivere. Se voleva descrivere un mercato, per esempio, stava tutta la giornata sul posto, prendeva appunti, annotava la topografia, le botteghe, guardava le persone, i modi di fare, di parlare, l’abbigliamento, i tessuti, i colori, faceva caso agli odori, ai dettagli. 

Man mano che il romanzo prendeva sempre più forma, con i suoi personaggi e i suoi eventi, quelle note meticolose gli servivano per essere fedele alla realtà.

Egli tracciava anche un’accurata descrizione delle psicologie dei personaggi. 

Era infatti vicino alla corrente letteraria del Naturalismo e a quella scientifica del Positivismo. Il Naturalismo rigettava le ombre inquietanti del gotico e del fantastico, gli abili ed ingenui stratagemmi letterari del feuilleton, la narrativa idealizzata e romantica borghese per concentrarsi obiettivamente sul popolo. Zola era un impetuoso socialista e nella vita un uomo riservato, timido, gentile (nota 2).

Il suo modo di scrivere era cinematografico ben prima che il cinematografo fosse inventato, nel 1895, dai Fratelli Lumière. Se fosse vissuto nel XX secolo sarebbe stato, molto probabilmente, un grande cineasta e non a caso fu un appassionato della nascente fotografia. 

Leggere i suoi libri vuol dire entrare in un mondo perduto, ma da lui così vividamente descritto, da farci quasi dimenticare il presente. 

Nel 1876 Zola incominciò a pubblicare su una rivista il settimo romanzo del ciclo sui Rougon-Macquart , intitolato “L’Assommoir”.

Lo scandalo fu enorme sia per la trama sia per il linguaggio (nota 3) e si dovette interrompere la pubblicazione. 

L’anno seguente venne pubblicato in volume ottenendo un grande successo e violente critiche. 

“L’Assommoir” era il nome di un’osteria di infimo ordine dove operai, disoccupati e disperati si stordivano con vino da poco prezzo, acquavite e assenzio. 

Spesso nelle versioni italiane si è lasciato il titolo originale che si può tradurre “l’ammazzatoio”. Qualche traduttore ha optato per “lo scannatoio”. 

Nel 1954 il regista René Clément ha realizzato un bel film dal romanzo intitolandolo “Gervaise”, come la sua protagonista, una scelta a mio avviso azzeccata. 

Gervaise era interpretata dalla bellissima e radiosa attrice austriaca Maria Schell che venne premiata al festival del cinema di Venezia. 

L’Assommoir è la storia, ambientata tra il 1850 e il 1877, di una giovane donna, Gervaise Macquart, la quale nonostante tutte le circostanze le siano negative e le persone contro, tenta di costruirsi una vita onesta e dignitosa. 

Gervaise è bionda, bella, un po’ claudicante, tenace ma anche arrendevole, non vuole deludere o scontentare nessuno ma il mondo in cui vive è iniquo e violento. 

Nata a Plassans, una città del sud immaginaria in cui lo scrittore ritrasse la natia Aix – en -Provence, ha avuto un padre violento con lei e con sua madre. Ha iniziato a lavorare come lavandaia da bambina e a 14 anni ha incontrato Lantier, un ragazzo piacente, in teoria cappellaio ma in realtà nullafacente, con il quale ha iniziato, senza sposarsi, una relazione sentimentale da cui sono nati due bambini, Claude e Étienne.

Il primo era già apparso brevemente come pittore ritrattista nel grande mercato parigino di Les Halles qualche anno prima nel romanzo “Il ventre di Parigi” e sarebbe ritornato come tormentato pittore protagonista nel romanzo “L’Opera”. 

Il secondo Étienne, sarebbe stato invece l’introverso minatore protagonista di “Germinal” (1883), altri due bellissimi romanzi di Zola. 

Gervaise avrà anche una figlia da Coupeau, suo secondo compagno e marito, un parigino loquace e furbetto lattoniere, cioè riparatore di grondaie: la bellissima Nanà, futura protagonista del romanzo omonimo e cortigiana nell’alta società parigina. 

Gervaise sogna una vita semplice: un compagno che le voglia bene, un lavoro onesto, una casa modesta ma con qualche mobile grazioso, vicino a sé i suoi figli che adora e che spera che diventino “brave persone”. Il suo sogno sembra realizzarsi quando riesce ad aprire, facendo tanti sacrifici, una bella tintoria. 

Zola scrive: “Il trasloco avvenne immediatamente. Nei primi giorni, Gervaise provava una gioia bambinesca quando attraversava la strada tornando da una commissione. Si attardava, sorrideva alla sua casa. Da lontano, in mezzo alla fila nera delle altre vetrine, il suo negozio le appariva tutto chiaro, di una allegria inedita, con la sua insegna azzurra, dove le parole: Blanchisseuse de fin (lavanderia rifinita) erano dipinte a grandi lettere gialle. Nella vetrina, chiusa sul fondo da piccole tende di mussola, tappezzata di carta blu per valorizzare il candore della biancheria, erano esposte camicie da uomo ed appesi cappelli da donna con i lacci annodati a fili di ottone. E lei trovava il suo negozio grazioso, color cielo. All’interno, si entrava ancora nel blu; la carta da parati, che imitava una decorazione stile Pompadour, raffigurava un pergolato sul quale si intrecciavano delle piante rampicanti” (nota 4). 

L’unico che ama veramente Gervaise è il bello e onesto fabbro repubblicano Goujen. Vi è tra di loro un innocente, quasi non confessato sentimento. 

Le conseguenze della povertà, le ingiustizie sociali, l’alcolismo, i maltrattamenti contro le donne, il lavoro minorile, la promiscuità sessuale sono i temi del libro che Zola descrive non con l’occhio del moralista ma con quello del serio reporter oltre che con quello, ovviamente, del grande artista.

Nonostante la drammaticità della trama, essa è molto avvincente, non mancano momenti pateticamente buffi come i popolani che vanno a vedere il Museo del Louvre, dopo il matrimonio di Gervaise, con i loro abiti sgargianti o una bonaria ironia tutta francese ma anche episodi scioccanti come l’ubriaco che massacra di botte la moglie, salvata da Gervaise e da un vecchio operaio. 

E non si può non provare una grande amarezza che questi temi, che per un attimo nel Novecento avevamo creduto relegati al secolo scorso (il 1800), siano tornati di nuovo in prima pagina. 

Lantier e Coupeau sono i due personaggi maschili del romanzo sul quale non si può dire altro per non svelare l’inconsueta trama, Virginie rappresenta invece una doppiezza femminile più sottile e subdola. 

Anche i personaggi minori del libro, del composito microcosmo che lo compone, sono indimenticabili: dalla vecchietta che cuce bambole per 13 soldi nella sua misera stanza alla madre di Goujen, ricamatrice che reagisce dignitosamente alla terribile disgrazia che l’ha colpita: il marito si è suicidato in carcere, così come gli operai che si incontrano nelle osterie dove bevono vino e sminuzzano nelle pipe tabacco da pochi centesimi (fumare insieme la pipa ha una valenza per gli uomini d’oltralpe che non c’è in Italia). L’ambiente è tipicamente parigino, ma una Parigi ingrata, difficile, quella delle antiche strade tortuose e cadenti dove le donne rovesciano secchiate d’acqua ed i monelli giocano eccitati e tante vicende umane si incrociano ogni giorno. 

“L’Assommoir” è un capolavoro che non ha perso dopo 150 anni il suo impatto emotivo: ci conduce in un mondo senza speranza e redenzione dal quale egli fa emergere il volto di una donna tra la folla. Sullo sfondo si percepisce una sobria, contenuta ma palpabile compassione. 

………

Nota 1) Edmondo De Amicis, Ricordi di Parigi, capitolo intitolato “Émile Zola”. 

Nota 2) ho dedicato un articolo alla vita di Zola, intitolato “Il coraggioso Émile Zola” nel mio saggio “Pagine Sparse – Studi Letterari” (2024). 

Tra le varie biografie (purtroppo non tradotte in italiano) assai gradevole quella del noto saggista francorusso Henri Troyat intitolata “Zola” (Livre de Poche) 

Scriveva Guy De Maupassant su Zola: “La sua vita è semplice, molto semplice. Nemico del mondo, del rumore, del trambusto parigino (…) Si alza presto e non interrompe il lavoro prima dell’una e mezza circa, per il pranzo. Si siede di nuovo al tavolo verso le tre e le otto, e spesso torna al lavoro anche la sera. In questo modo, per anni è riuscito, pur scrivendo quasi due romanzi all’anno a comporre un articolo quotidiano (…)” (1883). 

Nota 3) in relazione al linguaggio, elemento importante del romanzo” L’Assommoir”, Zola usa varie espressioni dell’argot parigino o idiomatiche che contribuiscono al realismo del testo.

Egli si servì di un dizionario dell’argot, che è un dialetto parigino le cui prime tracce risalgono al 1500 – inizialmente usato nell’ambiente del sottoproletariato e della malavita ma oggi comprensibile in tutta la Francia. 

Bisogna anche considerare che è difficile tradurre fedelmente le frasi di lessico specifico e minoritario di un’altra lingua: ci saranno sempre sfumature differenti. 

Nell’argot parigino come nel cockney londinese vi sono spesso delle espressioni colorite.

Il linguaggio del libro contribuì, oltre che la trama, ai grandi attacchi contro Zola della stampa borghese. 

In realtà la scelta stilistica di Zola era ineccepibile letterariamente: far parlare dei proletari del 1850 così come parlavano i borghesi sarebbe stato irreale.

Per verificare le traduzioni ho letto e confrontato l’edizione originale francese con alcune traduzioni passate e recenti. 

Personalmente, trovo quelle passate, come l’edizione Rizzoli, migliori perché nonostante alcune forme un po’ desuete, le parole e le frasi più audaci, pur mantenendo il loro significato, sono smorzate in confronto a quelle più recenti le quali, essendo eccessivamente volgari, sminuiscono il valore artistico del romanzo (in francese non suona così spinto). 

Nota 4) mia traduzione dal testo originale francese. 

Lavinia Capogna*

*Lavinia Capogna è una scrittrice, poeta e regista. È figlia del regista Sergio Capogna. Ha pubblicato finora otto libri: “Un navigante senza bussola e senza stelle” (poesie); “Pensieri cristallini” (poesie); “La nostalgia delle 6 del mattino” (poesie); “In questi giorni UFO volano sul New Jersey” (poesie), “Storie fatte di niente” , (racconti), che è stato tradotto e pubblicato anche in Francia con il titolo “Histoires pour rien” ; il romanzo “Il giovane senza nome” e il saggio “Pagine sparse – Studi letterari” .

E molto recentemente “Poesie 1982 – 2025”.

Ha scritto circa 150 articoli su temi letterari e cinematografici e fatto traduzioni dal francese, inglese e tedesco. Ha studiato sceneggiatura con Ugo Pirro e scritto tre sceneggiature cinematografiche e realizzato come regista il film “La lampada di Wood” che ha partecipato al premio David di Donatello, il mediometraggio “Ciao, Francesca” e alcuni documentari. 

Collabora con le riviste letterarie online Il Randagio e Insula Europea. 

Da circa vent’anni ha una malattia che le ha procurato invalidità.

Klaus Mann: “Fuga al Nord” (Castelvecchi, curatore Massimo Ferraris), di Lavinia Capogna

Klaus Mann e Johanna, tra amore e lotta politica

“Si era avventurata con Ragnar in una regione dove non c’era nulla, solo lei e lui; ora dipendeva completamente da lui. Ma poteva contare su di lui, su di lui e sul suo incomprensibile cuore?”

Klaus Mann (1906 – 1949) è stato uno dei più bravi scrittori tedeschi della prima metà del Novecento. Non gli fu di aiuto il fatto di essere figlio di Thomas Mann, celebre scrittore e Premio Nobel. Per quanto insensato sembrava inevitabile per i critici un ricorrente confronto con il padre a cui egli non aveva mai chiesto aiuto. In realtà erano/sono due scrittori molto diversi nei temi e nello stile: il tema principale che attraversa l’opera di Thomas Mann è il dissidio tra vita d’artista e vita borghese e quello di Klaus Mann è il tentativo di vivere, riuscito o meno, in una società alienata. 

Anche lui tentò di resistere e assai coraggiosamente per poi smarrirsi nell’oppio e nel suicidio, a soli 42 anni nel 1949 (*). 

Gay dichiarato quando non lo era nessuno, protagonista della vita culturale e mondana nella Repubblica di Weimar (1919 – 1932), Klaus Mann fu uno dei più impegnati antinazisti tedeschi. Nel marzo del 1933 scelse l’esilio a Parigi, poi ad Amsterdam ed infine negli Stati Uniti dove divenne cittadino americano e partecipò, non combattendo, alla Seconda guerra mondiale arrivando anche a Roma dove scrisse parte della sceneggiatura del film “Paisà” di Roberto Rossellini. 

Fondò anche due prestigiose riviste letterarie antifasciste a cui collaborarono parecchi scrittori e filosofi, tra i quali il nostro Benedetto Croce. 

A lungo rimosso anche in Germania, perché troppo scomodo (ancora non mancano articoli di reazionari contro di lui) è stato riscoperto negli anni ’70-’80, gli sono state dedicate alcune biografie e una piazza a Francoforte sul Meno, Klaus Mann Platz. 

Riguardo alla sua ampia opera letteraria c’è stato un grande ritardo da parte delle case editrici italiane. La sua bellissima autobiografia, “La Svolta”, venne pubblicata nel 1962 ma poi si dovette aspettare fino agli anni ’80 per poter leggere qualche altro suo libro tradotto sull’onda del successo del film “Mephisto”, tratto dal suo romanzo omonimo e Premio Oscar. 

“Fuga al nord” (Flucht in den Norden) pubblicato nel 1934 dall’editore Querido di Amsterdam (una stimata casa editrice che fu l’unica ad accettare i testi degli esuli tedeschi) è stato finalmento edito per la prima volta in Italia nel 2024 dall’editore Castelvecchi che sta portando avanti l’encomiabile iniziativa di pubblicare l’opera omnia dello scrittore (io lo avevo letto, tempo fa, in originale e l’ho riletto in questi giorni in questa edizione assai curata). 

Fu il primo libro di quella che viene denominata Exilliteratur (letteratura dell’esilio, 1933/1945). 

La maggioranza degli scrittori aveva infatti lasciato la Germania quando Hitler era andato al potere: Thomas Mann, Heinrich Mann, Bertolt Brecht, Erich Maria Remarque, Anna Seghers, Ernst Toller, Ludwig Renn, Oskar Maria Graf, Jacob Wassermann, i filosofi Theodor Adorno, Hannah Arendt, Walter Benjamin, il bulgaro Elias Canetti, gli austriaci Stefan Zweig, Joseph Roth e altri. 

Erich Mühsam venne invece ucciso in un campo di concentramento nel 1934.

La protagonista del romanzo è Johanna una ragazza tedesca ventenne, comunista, intelligente e vulnerabile, che ha appena lasciato la Germania grazie ad un passaporto falso. 

Ella raggiunge nella bianca e quieta Helsinki in Finlandia una sua amica e compagna di studi, Karen. 

Karen è una ragazza molto graziosa, dolce e ragionevole. 

Johanna pensa di fermarsi solo qualche giorno e poi di raggiungere i compagni a Parigi. 

La stessa sera del suo arrivo conosce Jens, uno dei fratelli di Karen, uno snervante, spudorato fascista che l’importuna mentre ballano insieme. 

Finalmente tornate a casa, Johanna racconta a Karen qualcosa della devastante realtà tedesca. Poi, inaspettatamente, le due ragazze fanno l’amore – che qui assume valore di un atto di conforto e di empatia piuttosto che sentimentale. Sarà l’unica volta – Karen, che è innamorata di Johanna e che già nella sua famiglia è sacrificata, le celerà abilmente la sua delusione. 

Ma c’è anche un segreto nella vita di Karen, qualcosa che lei non ha raccontato neppure a Johanna. 

Nella vasta tenuta di campagna della famiglia, Johanna incontrerà gli altri familiari e Ragnar, l’altro fratello di Karen, indolente, mutevole, affascinante, antifascista, che le presterà un libro di Rimbaud. Sarà l’inizio di un percorso emotivo, di un amore senza domani, di un oscillare tra il dovere etico dell’impegno e un desiderio di fuga e di oblio in sintonia con il viaggio, quasi iniziatico, che i due amanti faranno agli estremi confini del paese, tra splendidi boschi e laghi ma anche desolati villaggi lapponi.

Il Leitmotiv del libro è lo straniamento di Johanna di fronte al mondo che è andato in frantumi (le persone di una certa età che non riescono più a ritrovarsi, i suoi confusi e dignitosi genitori, la madre di Karen che vive del lontano passato quando la Finlandia faceva parte dell’Impero russo e si andava in vacanza sulla Costa Azzurra francese), la brutalità inaudita del nazismo, un mondo in cui tutti i valori si stanno disintegrando, in cui il suo amico Bruno è a rischio della vita, in cui si perde la patria (bellissimo il dettaglio dell’emozione che lei prova nel vedere casualmente dei libri tedeschi nella locanda). In cui, infine, l’amore stesso può essere conforto, come con Karen, ma anche annullamento, come con Ragnar. 

Ciò che ha attratto di più del libro nel tempo è stata la storia d’amore, piuttosto osé, tra Johanna e Ragnar ma in realtà esso descrive perfettamente la situazione politica senza essere mai didascalico. 

Lo stile è scorrevole, assai coinvolgente, intenso come un crescendo musicale, a tratti struggente, in qualcosa chiaroveggente (la lucidissima previsione della guerra che scoppierà cinque anni dopo). 

La trama si ispira ad una storia vera: Ragnar è un ritratto dell’avvenente Hans Aminoff con cui Klaus Mann aveva avuto una breve ma importante relazione sentimentale. Poco dopo Aminoff si era sposato. Egli era rimasto in contatto con Klaus Mann che aveva provato sentimenti di rimpianto, come si legge nei suoi “Diari”. 

Aminoff aveva anche acquistato tutte le copie di “Fuga al nord” nelle librerie di Helsinki temendo di essere riconosciuto (apparteneva ad una famiglia nobile assai nota nel paese). 

A Johanna invece aveva dato i tratti della sua amica Annemarie Schwarzenbach, bionda e delicata scrittrice svizzera.

(*) Per chi volesse approfondire le opere e la vita di Klaus Mann suggerirei il mio articolo “Klaus Mann e l’integrità intellettuale”, che si trova nel mio libro “Pagine Sparse – Studi letterari”. 

Nota: da “Fuga al nord” è stato tratto nel 1986 un film discontinuo diretto dalla regista finlandese Ingemo Engström.

Lavinia Capogna*

*Lavinia Capogna è una scrittrice, poeta e regista. È figlia del regista Sergio Capogna. Ha pubblicato finora sette libri: “Un navigante senza bussola e senza stelle” (poesie); “Pensieri cristallini” (poesie); “La nostalgia delle 6 del mattino” (poesie); “In questi giorni UFO volano sul New Jersey” (poesie), “Storie fatte di niente”, (racconti), che è stato tradotto e pubblicato anche in Francia con il titolo “Histoires pour rien” ; il romanzo “Il giovane senza nome” e il saggio “Pagine sparse – Studi letterari”.

Ha scritto circa 150 articoli su temi letterari e cinematografici e fatto traduzioni dal francese, inglese e tedesco. Ha studiato sceneggiatura con Ugo Pirro e scritto tre sceneggiature cinematografiche e realizzato come regista il film “La lampada di Wood” che ha partecipato al premio David di Donatello, il mediometraggio “Ciao, Francesca” e alcuni documentari. 

Collabora con le riviste letterarie online Insula Europea, Stultifera Navis e altri website. 

Da circa vent’anni ha una malattia che le ha procurato invalidità.

Katherine Mansfield, una neozelandese a Londra, di Lavinia Capogna

Intelligente, con grandi occhi scuri intensi, una personalità sfaccettata, Katherine Mansfield fu una scrittrice che nei suoi circa cento racconti riuscì a descrivere le donne in un modo nuovo (e per questo si potrebbe definire una scrittrice femminista), a raccontare lucidamente delusioni, stati d’animo, sensazioni in pochi tratti. 

C’era in lei una capacità di descrivere l’animo umano con una sottile perspicacia e anche la natura (i fiori, i frutti, la pioggia e il vento) con grande intensità. 

Secondo me, il tema che attraversa la sua opera è l’incomprensione tra le donne e gli uomini.

Emerge anche, tra le righe, una compassione che non viene mai sbandierata, il suo stile è diretto, essenziale – e forse questa pudica compassione è il trait d’union tra lei e Anton Čechov, il suo scrittore prediletto, deceduto anch’egli di tubercolosi. 

Quando Katherine Mansfield morì aveva appena 34 anni, aveva pubblicato tre libri di racconti che avevano avuto buoni riscontri, molte recensioni per una rivista ed era sul punto di spiccare il volo nel variegato e stravagante ambiente letterario britannico. Non a caso era l’unica scrittrice della quale Virginia Woolf, sua amica, aveva scritto di essere gelosa (nota 1).

Kathleen Mansfield Beauchamp, che usò vari nomi d’arte sia femminili sia maschili per diventare infine celebre con quello di Katherine Mansfield, nacque nel 1888 a Thorndon, vicinissimo a Wellington, in una strada piena di vento dalla quale si vedeva il mare (oggi è un Museo), in Nuova Zelanda. 

Il paese faceva allora parte dell’Impero più grande del mondo, quello britannico. 

L’isola si divideva tra il modo di vivere inglese e quello della popolazione locale, i Maori. 

La famiglia Beauchamp, di origine australiana con un cognome indiscutibilmente francese, era benestante e in seguito lo sarebbe diventata molto di più. I neozelandesi anglofoni vivevano in una natura lussureggiante con vulcani millenari e antichi riti magici animisti esattamente come se fossero stati in Inghilterra. 

La vita a Wellington era scandita da varie attività mondane come i ricevimenti, le partite di cricket, la lettura e la musica. 

Ben presto Katherine, anticonformista, vivace, con senso di humour, si sentì la pecora nera di questa famiglia tradizionalista di fine secolo: l’obiettivo delle ragazze (e quello imposto loro) era di fare un buon matrimonio, avere figli e una vita socialmente rispettabile. Tutte cose che lei evitò accuratamente. Si sposò due volte ma furono due matrimoni alquanto singolari e rimase incinta, ventenne, di un coetaneo musicista, Garnet Trowell, ma perdette il bambino a causa di un aborto spontaneo (il fatto di non avere avuto figli fu un rimpianto per lei e spesso nei suoi racconti appaiono bambini). 

La sua passione per la letteratura iniziò molto presto, compose piccoli racconti e belle poesie e decise che sarebbe diventata una scrittrice anche se ebbe qualche dubbio verso la musica. Adolescente prese molto seriamente lezioni di violoncello e si innamorò platonicamente del suo insegnante. Contemporaneamente o quasi ebbe in collegio due relazioni sentimentali: la prima con Martha Grace, il cui nome Maori era Maata Mahupuku, figlia di un capo indigeno e parente di un ministro, e poi con Edith Kathleen Bendall, che aveva 26 anni (Katherine ne aveva 17), una ragazza assai vivace intellettualmente. 

Questi sentimenti la portarono ad essere presto consapevole del suo orientamento bisessuale ma fu Ida Baker, studentessa di un innovativo collegio di Londra in cui Katherine venne mandata dal padre industriale, che rimase con lei per sempre – Ida, una ragazza buona e premurosa, precocemente orfana di madre che viveva con suo padre, un prepotente colonnello, fu un’amica, una compagna, una factotum per Katherine. 

Era lei che risolveva tutti i problemi e che si sobbarcava di tutte le incombenze, che le fu vicina nella malattia a rischio di ammalarsi. 

Ida Baker ha lasciato un notevole libro di memorie su Katherine edito nel 1971 (nota 2). Katherine ebbe, nel tempo, sentimenti contrastanti verso di lei. A volte di tenerezza, a volte di insofferenza. 

Sembra che la madre di Katherine escluse la figlia dal testamento proprio per la sua relazione con Ida Baker. 

Tantissime lettere della scrittrice a Ida sono state distrutte. 

Invece i partner maschili di Katherine prima di sposare nel 1918 John Middleton Murray, il musicista Garnet Trowell dal quale era rimasta incinta, il polacco Sobieniowski che aveva incontrato in Germania a 21 anni, che le scriveva lettere assai romantiche ma che, purtroppo, l’aveva anche contagiata con una malattia sessualmente trasmissibile (che le provocò una forte artrite e facilitò poi la tubercolosi) o il francese per il quale aveva attraversato il fronte durante la prima guerra mondiale solo per vederlo pochi giorni, svanirono nel nulla. 

Nel 1908 Katherine aveva fatto un curioso matrimonio con un certo George Bowden, maestro di canto, probabilmente gay, più grande di lei di undici anni. Il giorno stesso del matrimonio lo aveva abbandonato. In realtà lo aveva fatto perché era incinta e presumibilmente per risultare coniugata. La cosa più disdicevole per una ragazza nubile allora era rimanere in stato interessante (e così sarebbe stato a lungo). Solo nel 1917 Bowden le concesse il divorzio (in Inghilterra era legale dal 1858) e l’anno seguente lei sposò John Middleton Murray, un intellettuale marxista e pacifista, con cui conviveva già da qualche anno. 

Anche il rapporto con Middleton Murray fu controverso. Alcuni ebbero l’idea che egli “distrusse” Katherine (nota 3) influenzandola letterariamente e non fu generalmente visto con grande stima. 

Virginia Woolf in una lettera lo aveva addirittura definito ‘un giovanotto con un’aria idiota’ (nota 4).

Era un saggista e un giornalista prolifico ma non aveva la creatività della moglie. Era un ragazzo abbastanza interessante con uno strano sguardo. Fu lei che lo sostenne emotivamente, lo incoraggiò, lo mantenne economicamente. 

Il loro rapporto fu un alternarsi di amore e disamore, momenti sereni e forti contrasti, unioni e separazioni. Infine Katherine lo lasciò ma rimasero amici. 

Probabilmente anche la assai precaria situazione economica ebbe un peso in questa esasperazione. 

Invece l’amicizia (e non amore) tra Virginia Woolf e Katherine non sembrava inizialmente così scontata. Loro provenivano da due ambienti sociali molto diversi: Katherine dalla alta borghesia industriale colonialista ma viveva poveramente a Londra, Virginia da una famiglia con una grande tradizione culturale. Virginia era una persona fragile e tenace, evanescente e casta, Katherine una donna indipendente e per certi versi spregiudicata. 

Ma probabilmente ciò che le fece entrare in sintonia fu il fatto che Virginia comprese che Katherine era una vera, sincera scrittrice. 

La Hogart Press, la casa editrice dei Woolf, pubblicò un suo racconto, “Preludio”. 

Un altro suo grande amico fu il talentuoso e trasgressivo David Herbert Lawrence, autore di “L’ amante di Lady Chatterley” (1928) e di “Donne innamorate” (1920) nel quale si ispirò a lei per il personaggio della volitiva Gudron anche se Middleton Murray scrisse che Lawrence aveva compreso ben poco di Katherine.

Di solito vengono comprese sotto il nome di Modernismo alcune correnti artistiche che si contrapponevano nella prima metà del Novecento a quelle del passato: Virginia Woolf giunse a scrivere solo pensieri in alcuni libri (“La camera di Jacob”, “Le onde”), James Joyce frasi senza connessione logica fra di loro in “Ulisse”, Proust si focalizzò prevalentemente sulle emozioni e sensazioni nella Recherche, il poeta Thomas S. Eliot scrisse “Terra desolata”, Kandiski inventò l’astrattismo, Picasso il cubismo, Schönberg la musica Zwölftontechnik (dodecafonica), Franz Kafka descrisse l’assurdità del mondo, Freud scoprì l’inconscio e Jung la parte luce e quella ombra di ognuno di noi. Era un mondo in fermento, in rapido cambiamento, un mondo che conosceva nuove ansie e aveva bisogno di modi nuovi per esprimerle. 

Già nella sua prima raccolta di short stories, “In una pensione tedesca” pubblicata quando aveva solo 23 anni (1911) Katherine mostrò una precoce intensità letteraria: accanto a una sottile presa in giro di certe debolezze tedesche e di idee alla moda (la “signora evoluta” o il giovane, pallido filosofo nichilista) l’innocenza di Sabine e la confusione di Viola sono assai incisive. Gli uomini sono brutali o manierati, le donne sono da loro considerate graziosi oggetti da esaltare o da distruggere (naturalmente non tutti gli uomini erano così, ella raccontava con anticipo quello che la sociologia chiama patriarcato). 

Nella seconda raccolta “Beatitudine e altri racconti” pubblicata nel 1920 quando aveva 32 anni e dedicata al marito, aveva raggiunto una piena maturità artistica. Qui gli uomini sono inconsistenti e fuggevoli come il vanesio e compito Paul di “Je ne parle pas français”, l’intellettuale con la sua amica, Reginald o il timidissimo studente. 

Le donne spesso sole, imprevedibili, ferite emotivamente. 

Sarà terribile il disinganno di Bertha nel racconto “Bliss”, la storia di una donna felice che ha un marito competitivo, una deliziosa bambina piccola, una casa confortevole con un bel giardino, dei simpatici amici artisti e che crede di essere in sintonia con una donna bionda, affascinante e ‘linfatica’ miss Fulton. Il sentimento di Bertha verso miss Fulton ha una sfumatura omosessuale. 

Nello splendido “Immagini” invece la grassa e non più tanto giovane Ada Moss, contralto d’Opera che ha fatto il Conservatorio, cerca disperatamente lavoro facendo anticamera dagli impresari teatrali in una Londra dura e impietosa: “Sapete pilotare un aereo… tuffarvi dall’alto… guidare l’automobile… fare il salto mortale… sparare?”, lesse Miss Moss. Camminava per la strada facendosi queste domande. Soffiava un vento forte e freddo; la spingeva a strattoni, la schiaffeggiava, la scherniva; sapeva che lei non era in grado di dare quelle risposte. Negli Square Gardens trovò un cestino di fil di ferro dove lasciò cadere il modulo”. 

Altrettanto bello è “The Garden Party”, che dà il titolo alla terza raccolta del 1922, basato su alcuni stridenti contrasti: una splendida festa in giardino di un’agiata famiglia e la morte improvvisa di un carrettiere, sensibilità e insensibilità, le differenze di classe, l’energia della gioventù e la quiete della morte, qui vista con uno sguardo inusuale. 

La tubercolosi di Katherine divenne sempre più grave. Tra il 1800 e la prima parte del Novecento era chiamata ‘il male del secolo’ e non esisteva una cura (gli antibiotici non erano stati ancora scoperti). Generalmente, il trattamento consigliato era di andare in un paese con un clima mite: il poeta Guido Gozzano era stato a Ceylon (Sri Lanka), lei soggiornò in Svizzera e nella Riviera Ligure in Italia (a Sanremo e Ospedaletti). Tentò anche varie terapie mediche e affrontò la malattia con coraggio. I suoi amici si spaventarono vedendola sempre più sciupata e deperita. 

Poi qualcuno le parlò di Gurdjieff. 

Gurdjieff era una sorta di maestro spirituale di origine greca armena che aveva aperto una comunità a Fontainebleau, in Francia, chiamato “Istituto per lo sviluppo armonioso dell’uomo”. 

Le sue teorie avevano parecchio successo e Katherine, anche se sembra che non si fosse mai interessata a questioni spirituali, decise di tentare. 

Nell’ottobre del 1922 si ritirò nella comunità spirituale. Ida Baker affittò una casa vicina. Qui Katherine fece una vita spartana in una piccola dependance che Gurdjieff le aveva messo a disposizione ad Avon, a 60 chilometri da Parigi. 

Era una vita molto dura e l’inverno era molto rigido. In seguito alcuni videro in lui qualcuno che aveva affrettato la morte della scrittrice con uno stile di vita completamente inadatto ad un tubercolotico grave, altri invece come colui che era riuscito a farle trascorrere l’ultimo periodo serenamente (il suo umore migliorò). 

Il 9 gennaio 1923 Middleton Murray andò a trovarla, trascorsero la giornata con altri seguaci di Gurdjieff prevalentemente russi, ma la sera lei ebbe un violento fiotto di sangue forse perché aveva salito rapidamente le scale. 

Lui, terrorizzato, corse a chiedere aiuto. 

Due medici e due infermieri accorsero ma lei morì subito. 

Il marito curò la pubblicazione delle sue due opere inedite, poesie, abbozzi e più tardi delle Lettere e dei Diari ma distrusse anche alcuni testi di lei. 

Nel 1924 si risposò con una scrittrice, Violet Le Maistre. 

………….. 

Note:

1) Katherine Mansfield scrisse con grande perspicacia di Virginia Woolf “per la prima volta ho avuto l’impressione di incontrare una di quelle donne di Dostoevskij, la cui innocenza è stata ferita”. 

2) Oggi il libro si trova in questa edizione tedesca: “Ein Leben für Katherine Mansfield. Erinnerungen der Ida Baker” (Una vita per Katherine Mansfield. Ricordi di Ida Baker) 

3) Così ritiene , tra gli altri, la nota saggista Claire Tomalin nella biografia: “Katherine Mansfield. A Secret Life” (Viking, 1987)

4) Sara De Simone

“Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf. Storia di un’amicizia” (Ed. Neri Pozza 2024)

Bibliografia:

Katherine Mansfield 

Tutti i racconti (Newton Compton 2015) 

Pietro Citati

Vita breve di Katherine Mansfield (Adelphi 2014) 

Nadia Fusini

La figlia del sole: Vita ardente di Katherine Mansfield (romanzo, Feltrinelli 2023)

Sara De Simone

Opera citata nelle Note

Katherine Mansfield The Complete Works (eBook – edizioni Bauer) 

Claire Tomalin  

Opera citata nelle Note

(oltre che questa biografia, sono state dedicate a K. M. altre sei biografie tra Inghilterra e Francia, romanzi, film per la televisione tra i quali uno del 1973 dove lei era interpretata da Vanessa Redgrave). 

Lavinia Capogna*

*Lavinia Capogna è una scrittrice, poeta e regista. È figlia del regista Sergio Capogna. Ha pubblicato finora sette libri: “Un navigante senza bussola e senza stelle” (poesie); “Pensieri cristallini” (poesie); “La nostalgia delle 6 del mattino” (poesie); “In questi giorni UFO volano sul New Jersey” (poesie), “Storie fatte di niente”, (racconti), che è stato tradotto e pubblicato anche in Francia con il titolo “Histoires pour rien” ; il romanzo “Il giovane senza nome” e il saggio “Pagine sparse – Studi letterari”.

Ha scritto circa 150 articoli su temi letterari e cinematografici e fatto traduzioni dal francese, inglese e tedesco. Ha studiato sceneggiatura con Ugo Pirro e scritto tre sceneggiature cinematografiche e realizzato come regista il film “La lampada di Wood” che ha partecipato al premio David di Donatello, il mediometraggio “Ciao, Francesca” e alcuni documentari. 

Collabora con le riviste letterarie online Insula Europea, Stultifera Navis e altri website. 

Da circa vent’anni ha una malattia che le ha procurato invalidità.

Charles Dickens: “Martin Chuzzlewit” (Adelphi, trad. B. Oddera), di Lavinia Capogna

Charles Dickens e la grande delusione del buon Tom Pinch

Charles Dickens usciva spesso di sera tardi dalla sua bella e piacevole casa nel centro di Londra (che, detto per inciso, ho visitato) e andava a passeggiare nei sobborghi. Erano luoghi di grande povertà e anche di malavita ma nessun malfattore importunava quel distinto signore. Dickens era abbigliato sempre in modo molto accurato e faceva queste passeggiate notturne per osservare e poi denunciare con grande forza nei suoi romanzi e nei suoi interventi pubblici le estreme diseguaglianze della società britannica. 

Egli era nato in una famiglia borghese ma il padre era stato imprigionato per debiti e a 12 anni era dovuto entrare come operaio in una fabbrica di lucido da scarpe. Fu un’esperienza traumatica ed egli si salvò solo per il suo grande amore verso la lettura e il suo talento letterario. 

Nel sesto dei suoi quindici romanzi, “The Life and Adventures of Martin Chuzzlewit” (oggi intitolato sia in italiano sia in inglese solo “Martin Chuzzlewit”), che egli considerava, come attesta una lettera scritta al suo amico e primo biografo, John Forster, il migliore che avesse scritto fino ad allora, attaccava la media piccola borghesia nel proverbiale personaggio di Mr. Pecksniff. 

Il libro si ambienta in una cittadina vicino a Salisbury nel sud ovest dell’Inghilterra, a Londra e negli Stati Uniti (che lo scrittore aveva a lungo visitato). 

Seth Pecksniff è il cugino di Martin Chuzzlewit senior, un testardo milionario, che ha una serie di parenti di vario grado e condizione sociale, che aspettano solo che egli rediga un testamento (allora non esistevano obblighi legali). L’anziano milionario, afflitto da alcune malattie, si tiene alla larga da loro e ha anche frettolosamente ripudiato il suo omonimo nipote, il ventenne Martin Chuzzlewit (dal quale il romanzo prende il nome). Tiene presso di sé solo una delicata ragazza, Mary Graham, un’orfana che ha allevato e che deve sopportare una vita di privazioni (“Quelle prove giovanili l’avevano resa altruista, costante, seria e devota” – scrive Dickens) e alla quale ha deciso di lasciare una cifra infinitesimale del suo patrimonio. 

Pecksniff, che è uno dei personaggi principali di questo romanzo corale, si spaccia per architetto e agrimensore ma in realtà si limita ad affittare stanze in casa sua a prezzi esorbitanti a giovani aspiranti architetti che poi fa esercitare in inutili lavori che spesso rivende di soppiatto. Compunto vedovo, rigorosamente abbigliato di nero, che straparla sempre di virtù, ha due figlie antipatiche che ha chiamato Mercy e Cherry (abbreviazioni di Misericordia e Carità). 

Solo cinque anni dopo l’uscita del libro, come attesta il prestigioso dizionario Merriam Webster, il vocabolo ‘pecksniff’ entrava nel vocabolario inglese come aggettivo per indicare un “ipocrita” o più esattamente “un gesuita”, nel significato che questa parola ha in italiano traslato. 

Il falso virtuoso ha però un instancabile ammiratore ed è il personaggio più bello del romanzo: Tom Pinch. 

Molti ritengono che sia lui il vero protagonista del libro. Il giovane Martin Chuzzlewit è piuttosto egoista, viziato e volubile invece Pinch (che in inglese vuol dire ‘pizzicotto’) è un opposto: ha circa 30 anni, è quasi calvo, timido, intelligente, viene sottovalutato da tutti, gira per la cittadina con qualche libro nelle tasche del suo cappotto striminzito, possiede solo un vecchio violino e ama suonare l’organo nella chiesa anglicana solo per sé stesso quando le funzioni sono già finite. 

Pecksniff tratta Pinch con grande condiscendenza e si spaccia per il suo benefattore quando in realtà ha depredato la povera nonna di Pinch, una ex governante, si è impossessato del denaro di lei e ha preso in casa il nipote. 

Pinch svolge la mansione di segretario di Pecksniff, ottemperando a varie incombenze. Ma al tempo stesso anche Pecksniff ha bisogno di Pinch: tutti ammirano la sua innocenza e ciò gli porta lustro. 

Sia Pinch sia il giovane Martin si innamorano di Mary Graham. 

Non si può raccontare l’avvincente ed imprevedibile trama del romanzo, che, come tutta l’opera dickensiana, ha uno sfondo sociale, in cui egli, muovendo – needless to say – con abilità i suoi personaggi, facendo parlare ognuno secondo la propria classe sociale, alterna il suo usuale senso di humour, un’atmosfera spesso dark e memorabili descrizioni. Tra i personaggi non mancano un criminale e due esilaranti malavitosi, Tigg e Slyme. 

A far loro da contrappunto ci sono il generoso proletario Mark Tapley, in qualcosa affine al Sam Weller de “Il Circolo Pickwick”, il bel John Westlock e la dolce Ruth, sorella di Tom. 

Un altro personaggio esilarante è quello di Sarah Gamp, una specie di infermiera che si occupa sia di nascite sia di funerali sia di ammalati, gira sempre con un ombrello nero (e da allora nello slang britannico il termine gamp significa “ombrello”), beve troppo alcool e ha l’abitudine di conversare amabilmente, prendendo il tè delle cinque, con una gentile signora, Mrs. Harris, che purtroppo ha la particolarità di… non esistere! 

Grandioso è infine il vecchissimo Mr. Chuffey, che tutti ritengono quasi incapace di intendere e di volere e che invece avrà un ruolo determinante nel romanzo.

Splendida la descrizione di Londra nella nebbia del primo mattino e dei quartieri poveri, la poco raccomandabile Pensione Togders, la rabbia malinconica del giovane Martin senza uno scellino nonché il viaggio degli immigrati negli Stati Uniti che Dickens descrive come una terra di predatori rapaci ed infingardi (eccetto il cordiale Mr. Bevar) – il che gli valse lettere di protesta ed insulti da parte della stampa e di lettori d’oltreoceano. 

Il capitolo XXXI di “Martin Chuzzlewit” è, secondo me, una delle cose più belle mai scritte da Charles Dickens perché racconta la grande delusione a cui va incontro il buon Tom Pinch dopo aver saputo cose inaspettate e negative su Pecksniff…

Egli descrive magistralmente la costernazione e l’estremo smarrimento che si prova quando qualcuno che ci è caro si rivela differente da come lo avevamo creduto.  

Il capitolo è talmente intenso che si potrebbe quasi pensare che lo scrittore abbia attinto emotivamente da una sua vicenda privata. 

Bibliografia:

Charles Dickens Martin Chuzzlewit (Adelphi) 2007 – nell’edizione ci sono le riproduzioni di alcune stampe originali del 1800 che rappresentano varie scene del romanzo. 

Charles Dickens Martin Chuzzlewit (versione originale – Penguin Books) 2012

Lavinia Capogna*

*Lavinia Capogna è una scrittrice, poeta e regista. È figlia del regista Sergio Capogna. Ha pubblicato finora sette libri: “Un navigante senza bussola e senza stelle” (poesie); “Pensieri cristallini” (poesie); “La nostalgia delle 6 del mattino” (poesie); “In questi giorni UFO volano sul New Jersey” (poesie), “Storie fatte di niente”, (racconti), che è stato tradotto e pubblicato anche in Francia con il titolo “Histoires pour rien” ; il romanzo “Il giovane senza nome” e il saggio “Pagine sparse – Studi letterari”.

Ha scritto circa 150 articoli su temi letterari e cinematografici e fatto traduzioni dal francese, inglese e tedesco. Ha studiato sceneggiatura con Ugo Pirro e scritto tre sceneggiature cinematografiche e realizzato come regista il film “La lampada di Wood” che ha partecipato al premio David di Donatello, il mediometraggio “Ciao, Francesca” e alcuni documentari. 

Collabora con le riviste letterarie online Insula Europea, Stultifera Navis e altri website. 

Da circa vent’anni ha una malattia che le ha procurato invalidità.

Considerazioni di una lettrice fuori tempo/1, di Francesca Chiesa

Un romanzo è un romanzo, un’autoanalisi è una noia

Dal millenovecento e novantuno al duemiladiciannove: ventotto anni di lavoro all’estero con immersione in contesti spesso distanti anni luce da quello cui appartieni, sono più che sufficienti per perdere il contatto con la produzione letteraria italiana. 

Anche se la lontananza è interrotta da qualche rientro.

Anche se il tuo lavoro consiste nel promuovere la cultura italiana all’estero, ovvero: qualche concerto, qualche mostra d’arte soprattutto antica o contemporanea ben sponsorizzata, qualche grande nome della nostra letteratura: da Dante a Boccaccio, da Tomasi di Lampedusa a Dacia Maraini. 

Già invitare i Wu Ming a Nairobi è stato un azzardo, per non parlare del festival del romanzo storico inventato da Sugarpulp, una delle poche fucine di idee geniali e intelligenti che si stiano muovendo da qualche anno sul suolo patrio.

È chiaro che alcuni dei mondi attraversati – Mosca e Atene, in filo diretto con Berlino,  ma anche Nairobi che è pur sempre rimasta una realtà anglosassone – ti danno qualcosa di nuovo, se lo vuoi ricevere, ma è con il rientro nel Belpaese che ti trovi ad affrontare una realtà abbastanza destabilizzante. 

Per te che sei partita accompagnata dalle parole del tuo libraio di fiducia – Non si vende, dottoressa, non si vende. Non so quanto riusciremo a resistere. – e da decine di articoli su quotidiani e riviste, in cui ci si interrogava su cosa sarebbe diventata la massa dei giovani non/leggenti, ritornare in Italia è come sbarcare su un altro pianeta.

 

Come descrivere in poche parole, il mondo dei libri e dei lettori che mi si è parato davanti, nel mio percorso per ritornare a essere lettrice di questo Paese?

Devo fare un passo indietro per poter produrre un paragone abbastanza efficace.

Nella “mia” Tehrān degli anni ‘90, appena uscita dalla guerra con l’Iraq, esisteva un solo negozietto dove si potevano acquistare generi occidentali: pasta, affettati, caffè, biscotti e poco altro. Tutto tranne vino, ma quello ce lo facevamo, e comunque era una festa: cibo italiano per il pranzo della domenica. E così negli altri Paesi, con le solite eccezioni.

Tornare in un mondo di supermercati sovrabbondanti e sovraffollati  non è una gioia ma una noia: una gigantesca cornucopia che erutta prodotti a non finire, di ogni marca e di ogni prezzo, talmente tutti uguali che ne basterebbe uno per categoria merceologica.  

Nel mondo, mi correggo nel mercato, dei libri la situazione non cambia, cibo per la mente trattato alla stregua di cibo per cani: i persuasori occulti ti spiegano che senza un cane non sei nessuno; il veterinario ti spiega che senza gli opportuni ammenicoli sanitari parasanitari e ludici il tuo cane è una persona infelice; l’informazione via stampa video audio e web ti convince che optare per la marca X renderà migliori te e il tuo cane; il delizioso negozietto di petfood, comodissimo e giusto all’angolo, ti garantirà l’acquisto di ció di cui ormai hai bisogno. È fatta.

In un momento che non mi è chiaro, tra il 1991 e il 2019, qualcuno nel mondo si è accorto che il libro è un oggetto facile da produrre e facile da vendere. Allora, perché non si vende? Perché bisogna cambiare strategia. 

Come nel caso delle meravigliose calze di vera seta delle nostre bisnonne, sparite da oltre un secolo perché costavano troppo e duravano per sempre, quindi invendibili. 

Quindi sostituibili con calze di nylon.

Torniamo ai libri: per leggerli, bisogna saper leggere, e per capirli bisogna saper pensare.

Amarli è un altro discorso, bisogna che entrino a far parte di te e questo non è programmabile.

Saper leggere: l’introduzione della scuola media inferiore unica obbligatoria, nel 1962, ha fatto si che gli adolescenti italiani, anche quelli che non avevano libri in casa, potessero usufruire di una lettura guidata perfino dei grandi classici; la riforma della scuola superiore, avviata nel 2008, ha rafforzato questo processo; la modifica della struttura e dei contenuti dei corsi di laurea, c.d. “riforma Berlinguer”, ha offerto gli strumenti e aperto la strada a una massa di lettori e di possibili scrittori. 

Scrittori in nuce, cui si provvede a garantire le competenze necessarie grazie alla istituzione di appositi corsi di laurea e di specializzazione a livello universitario, o corsi professionalizzanti privati. L’apertura della Scuola Holden, finalizzata alla formazione di narratori e guarda caso intitolata a un personaggio della letteratura statunitense contemporanea, segna un punto di non ritorno. 

Nel 1991, quando ho lasciato l’Italia, chi parlava di struttura e strutturalismo era comunista. Oggi, sul concetto di “struttura” si regge la didattica del romanzo.

La massa di clienti, che era fino ad allora mancata al mercato dei libri, si definisce grazie a uno sdoppiamento che viene immediatamente recepito dalle nuove generazioni di potenziali lettori/scrittori: se leggo posso scrivere, se voglio scrivere devo leggere.

Attenzione: se voglio essere letto, devo scrivere ció che richiede il mercato. 

Enunciazione, questa, solo apparentemente lapalissiana, giacché non sempre gli scrittori sono stati sottoposti alla necessità o all’obbligo di venire incontro ai desideri e agli interessi del lettore, quantomeno non fino al XVIII secolo dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese, e al XIX secolo delle letterature nazionali, secoli in cui davvero si scriveva per liberare e allargare l’area della coscienza. 

È nel ventesimo secolo che si ritorna a una produzione letteraria condizionata, dal fascismo e dall’antifascismo, ma anche da fenomeni che non hanno nulla a che fare con regimi e ideologie, ma rappresentano comunque una forma di penetrazione teorica, ideologica ed economica estremamente ben riuscita. Vale a dire l’ingresso in Italia della psicanalisi, databile più o meno al 1925, con la fondazione della Società Psicoanalitica: più ancora delle dottrine politiche, questa tecnica influenzerà profondamente la produzione letteraria italiana. 

Con questo lungo prologo arrivo a due riletture, che si situano alle estremità di un arco temporale che va dal 1963, anno in cui è stato pubblicato Un amore del poliedrico e ormai affermato Dino Buzzati, al 2014 quando un giovane Matteo Strukul, non ancora arrivato ai successi odierni, pubblica La giostra dei fiori spezzati.

Entrambi i libri sono definiti romanzi, entrambi ruotano intorno al mondo della prostituzione.

Nel 1963 non avevo più di otto anni, ma ricordo bene l’agitazione che provocó nella piccola comunità padovana che usava trascorrere le vacanze estive nel Bellunese, la pubblicazione di Un amore di Dino Buzzati. I libri proibiti, a casa mia, erano chiusi in una vetrinetta, sotto chiave: a ogni compleanno, più o meno, me ne veniva concesso uno ma Un amore da quella vetrinetta non uscì mai. Superata l’età dei divieti, gli interessi rivolti altrove, non mi vergogno di confessare che pur avendo letto e amato varie altre opere di Buzzati, la forza della censura genitoriale aveva espulso quel libro dai miei orizzonti di lettura. L’ho letto ora, quindi a voler essere precisi non si tratta di una rilettura ma della ripresa di un autore amato in nuova veste, diciamo così.

Ed  è stato un libro che non mi è piaciuto, come non mi sono piaciuti La coscienza di Zeno di Italo Svevo, Il male oscuro di Giuseppe Berto, Io e lui di Alberto Moravia, Le libere donne di Magliano di Mario Tobino. 

Forse l’esito sarebbe stato un altro se queste opere fossero state presentate come Memorie piuttosto che come Romanzi; forse avrei riconosciuto loro un diverso valore linguistico e letterario se fossero stati diversi i titoli: Buzzati: Io, io, io e Laide; Svevo: Io e il fumo; Berto: Io e il profondo me stesso; Moravia: Io io io e lui; Tobino: Io e le mie matte: ritratti.

Non so, forse la lettura sarebbe risultata comunque alquanto noiosa, come sempre lo è l’accostarsi a testi in cui all’autore non interessa comunicare ma semplicemente mostrarsi. D’altra parte, questi poveri autori non ne portano nemmeno tutta la responsabilità.

Di fatto, tra le molte strategie adottate dalla civiltà occidentale per contrastare la diffusione del collettivismo sovietico, l’adozione della psicoanalisi appare particolarmente significativa: formalmente definita sulla base del mito greco di Edipo, questa pratica geniale è tutt’ora impegnata a diffondere il principio secondo il quale se ti senti a disagio nella vita il problema é tuo, perché non hai ancora imparato a vivere nel modo giusto. 

Da qui il proliferare di produzioni letterarie in cui l’Autore si presenta con determinate caratteristiche, e queste rimangono sostanzialmente invariate dall’inizio alla fine di una narrazione, che si muove totalmente al di fuori di quei meccanismi di mimesi/imitazione e catarsi/purificazione i quali, secondo Aristotele, generano nello spettatore piacere e sollievo.

Immaginate la raffigurazione del Buddha che si guarda l’ombelico: la comunicazione avviene tra lo scrittore e se stesso, il lettore é un accessorio utile all’ego di chi scrive ma non necessario. 

Se ne puó fare a meno – secondo gli scrittori di cui sopra – insieme a tutti gli elementi che contribuiscono a creare l’effetto mimesi: struttura, personaggi, ambiente, colore e suono delle parole. Leggendo Un amore, ad esempio, ci troviamo sommersi e oppressi da una sovrabbondanza di aggettivi distribuiti a pioggia, come si sparge a terra il sale per sciogliere il ghiaccio e il fango che produce ti sporca le scarpe. La sensazione è che non creino un mondo ma servano a riempire spazi vuoti.

Personaggi, invece, pochini pochini oltre a Buzzati/Dorigo: la Laide, come la vive l’autore, e la signora Emmelina in veste di maitresse o Caron-dimonio-traghettatore. I colleghi di lavoro, gli incontri casuali esistono in funzione di Dorigo, come scene fisse nella messa in scena di un monologo.

Buzzati, peró, ha scritto anche il Il deserto dei Tartari.

Ammettendo che il protagonista di Un amore (1963) non sia cambiato rispetto a Il deserto dei Tartari (1940) – Dorigo è Dogo? – la differenza tra le due opere è tanto semplice quanto smisurata: Il deserto è un romanzo, Un amore non lo è. A me appare così e ho cercato di capire perché, dando per certo che non mi si sarebbe posto alcun interrogativo se Un amore fosse stato scritto prima del deserto.

Scrive Graham Greene, ragionando su Il console onorario, che lui giudica il migliore dei suoi romanzi:«Quando scrivi un romanzo, non devi mai includervi qualcosa che è capitato a te senza modificarlo in qualche modo.» 

In effetti, anche ne Il console troviamo storie di uomini che non avrebbero bisogno di bordelli per innamorarsi ma inevitabilmente sviluppano una passione per una prostituta. Quanto ci ricorda la Laide di Dorigo, quella Clara amata dal console e dal dottore? Non molto: non ha la sua indipendenza, la sua strafottenza, la sua volgarità anche. Sembra che il suo maggior desiderio sia accontentare il console Fortnum e il dottor Psarr: loro – cioè la presenza di due innamorati – sono ció che fa di questa storia un romanzo. Loro sono il conflitto, Antagonista l’uno dell’altro. Quel conflitto che in Un amore  avviene tra il protagonista e se stesso e quindi non porta a nulla.

E Drogo, laggiù, di fronte al deserto? Drogo non è preso da amore, questo è sicuro. 

Nel momento in cui arriva alla fortezza Bastiani, il tenente Giovanni Drogo inizia la sua vita da adulto: da ragazzo che era, convinto di poter recedere da una decisione sbagliata solo dicendo «Non mi piace più», vede la vita scappargli davanti senza che lui riesca a raggiungerla. Come da sempre qualcosa appare e qualcosa scompare, una vita finisce, la neve cade e la primavera spunta e gli uomini attendono una vita migliore. Giovanni – come quanti di noi? – aspetta il momento di poter scegliere, di potersi provare. 

Di vincere, alla fine, come in effetti gli riesce di fare, solo e proprio di fronte all’Invincibile.

Il sorriso di Giovanni di fronte alla Morte è la cifra dell’umanità.

Lo sguardo di Dorigo che passa dalla Torre Nera alla piccola squillo, segna il passaggio dall’essere al possedere, quasi un biglietto d’ingresso per le feste di Villa Certosa.

segue 

Considerazioni di una lettrice fuori tempo/2

Un romanzo è una giostra

Francesca Chiesa

Francesca Chiesa, classe 1955, laureata in filosofia. 

Ha lavorato per il Ministero degli Affari Esteri in Iran, Russia, Grecia, Eritrea, Libia, Kenia. Dal 2019 vive col marito prevalentemente a Syros, nelle Cicladi. 

Pubblicazioni recenti:

Dalla Russia alla Persia – storia di un viaggiatore per caso: Peripezie di un marinaio olandese al tempo di Alessio I Romanov e Suleiman I Safavide, La Case Books, 2023

Una storia di donne persiane: Il romanzo di Humāy e Nahid, La Case Books, 2023.

Il suo ultimo lavoro è Diversamente sole, Edizioni Open, 2025.