Italo Calvino: “Il sentiero dei nidi di ragno”, di Sonia Di Furia

Non è questa la sede per delineare una storia del secondo dopoguerra (né lo spazio lo consentirebbe), mi limiterò pertanto a richiamare alcune linee essenziali del quadro politico, economico e sociale italiano, quelle che possono risultare indispensabili per comprendere i fenomeni culturali e letterari in cui si inserisce il libro preso in esame “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino e di cui si prende in considerazione l’edizione Mondadori.

Il referendum del 2 giugno 1946 proponeva ai cittadini italiani la scelta tra la monarchia e la repubblica: l’esito delle urne sancì per l’Italia, uscita da vent’anni di dittatura fascista e dall’esperienza traumatica della guerra, l’assetto repubblicano. La Costituzione, elaborata da un’assemblea costituente ed entrata in vigore nel 1948, delineava gli ordinamenti di una repubblica democratica di tipo parlamentare.  La legge elettorale con cui le camere erano elette era di tipo proporzionale, cioè ogni lista otteneva i seggi in proporzione ai voti ricevuti. La Costituzione nasceva dall’incontro delle forze politiche che avevano combattuto il fascismo durante la Resistenza e che avevano trovato espressione nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).

Il paese era uscito prostrato dalla guerra. I primi anni post bellici erano stati quindi segnati dal faticoso processo della ricostruzione: si trattava di ricostruire il tessuto urbano distrutto dai bombardamenti, ripristinare strade, ponti, ferrovie, riavviare la produzione industriale ed agricola, rimettere in piedi i servizi essenziali, l’amministrazione pubblica, gli ospedali, le scuole, il sistema finanziario e creditizio. Furono anni duri, di sacrifici e di miseria, soprattutto per i ceti più deboli, ma il paese, pur ferito profondamente dalla guerra, aveva ancora grandi risorse al suo interno, capacità di iniziativa e di lavoro. In quegli anni si verificò quindi un’accumulazione che fu la premessa di un vero e proprio decollo economico successivo.

In questo dopoguerra proseguono la loro attività le più importati case editrici nate fra le due guerre, alcune di grandi dimensioni e dall’organizzazione industriale, come Mondadori e Rizzoli, altre di dimensioni più artigianali, come Bompiani, Garzanti, Einaudi. Le case maggiori diventano dei veri e propri colossi dalla produzione estremamente differenziata, che va dalla narrativa italiana e straniera ai classici, alla saggistica, ai manuali, alla letteratura di massa, ai rotocalchi di informazione e popolari, ai quotidiani, ai fumetti. 

Il presentarsi di una serie di fattori, nel periodo che si sta esaminando, ha creato le premesse per un sensibile allargamento del pubblico rispetto al periodo fra le due guerre: la scolarizzazione di massa e l’alfabetizzazione quasi totale della popolazione; la maggiore disponibilità economica all’acquisto di libri da parte dei ceti medio-bassi, grazie al cresciuto tenore di vita; il maggior tempo libero, per la riduzione dell’orario di lavoro e la diffusone del fine settimana lungo; l’estendersi e la maggior penetrazione dei canali di promozione (basti pensare alla forza di persuasione della televisione).

Il clima dell’immediato dopoguerra, caratterizzato dall’entusiasmo per la riconquista delle libertà civili e della fiducia in un rinnovamento profondo del paese, si riflette sugli indirizzi letterari. Si diffonde un senso di insofferenza per la letteratura del ventennio precedente: gli aspetti che soprattutto vengono criticati e rifiutati sono la concezione elitaria e aristocratica della scrittura, il culto della pura forma, il soggettivismo e il lirismo evasivo, l’astrattezza metafisica, la chiusura del letterato nella torre d’avorio e la sua mancanza di contatto con la realtà sociale. Oggetto di tale critica sono essenzialmente il Decadentismo e l’Ermetismo. Ora invece si sente fortemente la responsabilità civile e sociale dell’intellettuale. Il compito che gli viene assegnato è proprio quello di prendere contatto con i problemi reali del paese (le devastazioni materiali e morali della guerra, la miseria, la durezza del lavoro, i conflitti di classe, le lotte operaie, gli scioperi, le occupazioni di terre da parte dei contadini), di raggiungere mediante il suo lavoro letterario una più precisa conoscenza di essi e di contribuire fattivamente alla loro soluzione. La letteratura da compiaciuta auto contemplazione, deve trasformarsi, secondo la nuova mentalità che diviene dominante, in uno strumento di lotta politica, in un mezzo per incidere direttamente sulla realtà per cambiarla. Ma, se si escludono alcune personalità maggiori come Vittorini, Pavese, Moravia, Calvino, Fenoglio, la letteratura neorealista, nonostante il fervore civile e le buone intenzioni che l’animavano, non ha lasciato risultati di grande valore. Oggi appaiono anzi evidenti i limiti che la inficiavano: la mitologia populista, cioè l’idealizzazione del popolo come forza sana e incontaminata. Come portatore di tutti i valori morali e sociali positivi; lo schematismo ideologico elementare, che tende a contrapporre rigidamente bene e male, buoni e cattivi, senza alcuna complessità problematica; la riproduzione mimetica della semplice superficie del reale, l’incapacità di penetrare a fondo nelle sue contraddizioni; il bozzettismo provinciale e dialettale; l’usare tecniche narrative antiquate (ad esempio il narratore eterodiegetico onnisciente, che guarda dall’alto la materia giudicandola e commentandola) non più adatte a rendere la percezione contemporanea del reale, ignorando così le più avanzate soluzioni novecentesche, ma anche la lezione stessa dei tanto ammirati americani come Hemingway, Faulkner, Dos Passos, che impiegavano spesso tecniche d’avanguardia.

Il romanzo d’esordio di Calvino “Il sentiero dei nidi di ragno” si colloca nell’ambito del Neorealismo, anche se poi l’autore prosegue in tutt’altre direzioni. Affrontando l’argomento della lotta partigiana, sulla base di un’esperienza vissuta in prima persona, lo scrittore trasferisce sulla pagina il clima di fervore degli anni post bellici, il bisogno di dare voce ad una vicenda collettiva che viene sentita come decisiva e che alimenta speranze in un cambiamento profondo della vita nazionale e della costruzione di un’Italia più civile e più giusta. Tuttavia Calvino non vuole offrire un quadro celebrativo ed agiografico della Resistenza, come egli stesso precisa in un’illuminante prefazione aggiunta al libro nel 1964: la banda partigiana che egli rappresenta è costituita dagli scarti di tutte le altre formazioni, da una serie di emarginati, di balordi, di “pìcari”. Con questo però, in polemica con i detrattori della Resistenza, egli intende dimostrare che anche chi si era impegnato nella lotta senza chiare motivazioni ideali sentiva <<un’elementare spinta di riscatto umano>> e si trasformava così in forza storica attiva. Si manifesta in tal modo quell’indipendenza intellettuale che contraddistingue poi sempre la posizione di Calvino, il suo rifiuto di sottostare ad una direzione politica della cultura, di ridurre la letteratura a celebrazione, a propaganda o a pedagogia, secondo normative imposte dall’esterno. 

Ciò che allontana Calvino dagli standard neorealistici è ancora il fatto che, pur rappresentando figure e ambienti proletari e sottoproletari, il suo libro non rivela alcun intento documentario di tipo naturalistico. Anzi, la vicenda della lotta partigiana è trasferita in un clima fantastico, di fiaba. L’effetto è ottenuto presentando tutti gli eventi attraverso il punto di vista di un bambino. Il protagonista, Pin, è un ragazzino cresciuto nei vicoli della città vecchia di Sanremo, precocemente smaliziato, ma che conserva l’ingenuità e lo stupore tipici dell’infanzia: ai suoi occhi il mondo adulto, i rapporti umani, la politica, la guerra appaiono estranei, incomprensibili, assumendo una fisionomia incantata e magica, di favola. Lo scrittore, nella prefazione del 1964, ha modo di precisare che nell’estraneità dello sguardo del bambino si metaforizza il suo stesso rapporto con la guerra partigiana, l’inferiorità da lui sentita <<come borghese>> rispetto a quel mondo. Nel Sentiero appaiono così in germe le due direzioni che Calvino seguirà nel suo percorso letterario degli anni successivi: il realismo e la dimensione fantastica. Proprio nel clima realistico, ancora una volta, si inserisce il tema della lotta partigiana nei racconti di “Ultimo viene il corvo”, sia pur scritto in chiave fiabesca.  La guerra partigiana vi conserva un posto importante, tuttavia rispetto al Sentiero la fiducia nella storia appare incrinata e affiorano inquietudini nuove: progressivamente si fa strada il timore che il sacrificio della lotta sia stato inutile e la vittoria possa essere vanificata.

Fin dall’inizio del romanzo è riconoscibile una situazione tipica della fiaba, il bambino solo e smarrito nella notte, in un luogo deserto. Fiabesco è anche il motivo dei noccioli di ciliegia lasciati da Pin come traccia per l’amico Lupo Rosso (ricorda Pollicino). La pistola nascosta dovrebbe rappresentare il mondo degli adulti, la guerra, ma nell’ottica del bambino diviene nient’altro che un giocattolo, o meglio l’oggetto magico delle fiabe: maneggiandola, Pin si immerge in avventurose fantasie, in cui assume il senso di onnipotenza tipico dell’infanzia. Fiabesco è ancora l’incontro con lo sconosciuto, proprio nel momento di massimo sconforto: il partigiano è il gigante buono, che nella fiaba è la proiezione della figura paterna, protettiva e rassicurante (funzione che si compendia nel particolare della mano <<grandissima, calda e soffice>>, che <<sembra fatta di pane>>. Nella banda partigiana Pin, sia pure a fatica, troverà la solidarietà umana e il calore che possono salvarlo dalla durezza della storia. Questo clima favoloso è ottenuto dallo scrittore attraverso la focalizzazione interna a Pin, filtrando tutto il racconto attraverso il suo sguardo infantile. 

Proseguendo nella lettura, emerge come Calvino, nel raffigurare la lotta partigiana, voglia evitare la retorica celebrativa; c’è l’accozzaglia di emarginati e di sbandati, che non ha ben chiaro il motivo per cui combatte. Ma lo scrittore vuol dimostrare che ciò che non sminuisce il valore della loro lotta è che in essi c’è un’oscura, elementare esigenza di riscatto umano, che li trasforma in forze storiche positive. La Resistenza è poi ulteriormente straniata perché è vista attraverso una prospettiva del tutto estranea, dal basso, quella del bambino che vive come in un racconto avventuroso, a cui il mondo adulto appare lontano e incomprensibile.

Nel corso degli anni Cinquanta si manifestano già i segni dell’esaurimento del Neorealismo. All’inevitabile logoramento interno delle forme letterarie si aggiungono fattori esterni: la fine degli entusiasmi e delle speranze di rinnovamento civile propri dell’immediato dopoguerra, a causa della restaurazione conservatrice in atto; la crisi delle sinistre, determinata dalla destalinizzazione dell’Unione Sovietica e dell’invasione dell’Ungheria; il proporsi, con lo sviluppo industriale in Italia, di problemi che esigono nuovi strumenti conoscitivi ed espressivi. Appare nel 1959 <<Il Menabò>>, fondata a Torino da Elio Vittorini e lo stesso Calvino, alla cui base vi è l’intento di aprire gli orizzonti culturali, ma soprattutto di cercare gli strumenti per orientarsi nel <<labirinto>> della nuova realtà industriale avanzata, come precisa il fondamentale intervento di Calvino nel 1962 “La sfida del labirinto”.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Italo Calvino: “Il castello dei destini incrociati”, di Sonia Di Furia

In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti. Passai per un ponte levatoio sconnesso, smontai di sella in una corte buia, stallieri silenziosi presero in consegna il mio cavallo. Salii una scalinata; mi trovai in una sala alta e spaziosa: molte persone- certamente anch’essi ospiti di passaggio, che mi avevano preceduto per le vie della foresta- sedevano a cena attorno a un desco illuminato da candelieri”.

Inizia così il racconto di Calvino, edito da Mondadori nella collana Oscar, con la presentazione dell’autore stesso e la postfazione di Giorgio Manganelli.

Il volume è composto di due testi: Il castello dei destini incrociati e La taverna dei destini incrociati. Nel primo le figurine che accompagnano il racconto riproducono il mazzo di tarocchi miniati da Bonifacio Bembo per i duchi di Milano verso la metà del XV secolo, che ora si trovano parte all’Accademia Carrara di Bergamo, parte alla Morgan Library di New York. Alcune carte del mazzo Bembo sono andate perdute, tra cui due molto importanti: Il Diavolo e La Torre.

Il secondo testo è costruito con lo stesso metodo mediante il mazzo dei tarocchi oggi internazionalmente più diffuso: L’Ancien Tarot de Marseille della casa B. P. Grimaud, che riproduce un mazzo stampato nel 1761 dall’incisore Nicolas Conver, maître cartier a Marsiglia e che, sbiadito e alterato dal tempo, è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. Il mazzo marsigliese non è molto diverso dai tarocchi ancora in uso in gran parte d’Italia come carte da gioco; ma mentre in ogni carta dei mazzi italiani la figura è tagliata per metà e si ripete capovolta, qui ogni figura conserva la sua compiutezza di quadretto insieme rozzo e misterioso che la rende particolarmente adatta all’operazione di raccontare attraverso figure variamente interpretabili.

L’idea di adoperare i tarocchi come una macchina narrativa combinatoria venne a Calvino da Paolo Fabbri che, in un seminario internazionale sulle strutture del racconto del luglio 1968 a Urbino, tenne una relazione su Il racconto della cartomanzia e il linguaggio degli emblemi. Di quell’apporto metodologico di ricerca, l’autore ha inteso prendere l’idea per cui il significato di ogni singola carta dipende dal posto che essa ha nella successione di carte che la precedono e la seguono; partendo da questa idea, si è mosso in maniera autonoma, secondo le esigenze interne del suo testo.

Il riferimento letterario naturale è l’Orlando furioso; anche se le miniature di Bonifacio Bembo precedevano di quasi un secolo il poema di Ludovico Ariosto, esse potevano ben rappresentare il mondo visuale nel quale la fantasia ariostesca s’era formata.

Ogni carta è uno stemma e di carta in carta i narratori confessano le loro vicende tra incaute avventure e frettolosi amori. A uno a uno i taciturni ospiti seduti al tavolo diventano i protagonisti dei racconti e il lettore ne scopre vite e drammi, gioie e angosce infinite, in un gioco narrativo che coinvolge e sconvolge. A un certo punto nelle intenzioni dell’autore questo volume avrebbe dovuto contenere non due ma tre testi. Calvino avrebbe dovuto cercare un terzo mazzo di tarocchi abbastanza diverso dagli altri due. Ma quale avrebbe potuto essere l’equivalente contemporaneo dei tarocchi come rappresentazione dell’inconscio collettivo? Pensò ai fumetti, non a quelli comici, ma a quelli drammatici, avventurosi, paurosi: gangsters, donne terrorizzate, astronavi, vamp, guerra aerea, scienziati pazzi. Pensò di affiancare al Castello e alla Taverna, Il motel dei destini incrociati. Non andò oltre la formulazione dell’idea. Il suo interesse teorico ed espressivo per quel tipo di esperimento si era esaurito. Era tempo di passare ad altro.

Nel raccontare le storie altrui, quella dell’alchimista, della sposa dannata, del ladro di sepolcri, dell’Orlando pazzo per amore di Angelica, di Astolfo che sale sulla luna per recuperare il senno dell’amico racchiuso in un’ampolla (insieme a lacrime e sospiri d’amore, ozio, tempo perso nel gioco, desideri irrealizzati, doni fatti con speranza di ricompensa, tranne la pazzia, quella sta tutta sulla Terra), Calvino racconta la sua storia e la sua personale concezione della vita. Dissemina di qua e di là pensieri, riflessioni, opinioni, come quando scrive che: “Due diverse vie s’aprono a chi ha ancora da trovare se stesso: la via della passioni, che è sempre una via di fatto, aggressiva, a tagli netti, e la via della sapienza, che richiede di pensarci su e imparare a poco a poco“; oppure: “Il buffone ogni volta che apre la bocca, tra uno sberleffo e un lezzo, semina sospetti, dicerie denigratorie, angosce, allarmi“; o ancora riflette sul tempo che passa: “Per sentieri d’inchiostro s’allontana al galoppo lo slancio guerriero della giovinezza, l’ansia esistenziale, l’energia dell’avventura spesi in una carneficina di cancellature e fogli appallottolati“. E forse tutti ci riconosciamo in questo teatro della vita a cui Calvino ha tentato di dare ordine.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Fotografare fotografie. Italo Calvino e la nevrosi dell’uomo fotografico, di Dino Montanino

Il protagonista del racconto L’avventura di un fotografo, scritto da Italo Calvino nel 1955 e poi inserito nel volume Gli amori difficili del 1958, è Antonino Paraggi, un impiegato che esplica “mansioni esecutive nei servizi distributivi d’un’impresa produttiva”. A ridosso dei trent’anni, Antonino avverte un forte senso di isolamento perché tutti i suoi amici, uno dopo l’altro, si sono sposati e hanno cominciato a fare figli mentre lui è ancora scapolo e non sembra intenzionato a trovare una moglie. Ma c’è dell’altro. Gli amici sposati, come molti a quel tempo, sono stati contagiati da un morbo inguaribile: la sindrome della fotografia. Fanno parte di un vero e proprio esercito di dilettanti dell’obiettivo che condividono la passione fotografica, si scambiano opinioni sulle foto realizzate e non perdono occasione di vantarsi dei progressi raggiunti da attribuire soprattutto alle loro abilità tecniche e artistiche o, in qualche caso, alla bontà dell’apparecchio che hanno acquistato. Dopo aver fotografato tutto quello che c’è da fotografare, attendono con ansia di vedere le loro foto sviluppate e solo quando le hanno davanti prendono possesso della realtà fotografata e, ai loro occhi, le immagini catturate acquistano “l’irrevocabilità di ciò che è stato e non può più essere messo in dubbio. Il resto anneghi pure nell’ombra insicura del ricordo”. 

Antonino Paraggi ha la vocazione del filosofo. Vuole capire, sdipanare “il filo delle ragioni generali dai garbugli particolari” e si interroga continuamente sull’essenza dell’uomo fotografico. Molto presto si convince che l’ossessione per la fotografia è un “fisiologico effetto secondario della paternità”. Come già detto, i suoi amici sono genitori novelli e uno dei primi istinti dei genitori, dopo aver messo al mondo un figlio, è quello di fotografarlo. Ma c’è un problema: i bambini crescono in fretta e, di conseguenza, bisogna fotografarli continuamente, non ci si può fermare perché “nulla è più labile e irricordabile d’un infante di sei mesi, presto cancellato e sostituito da quello di otto mesi e poi d’un anno” e poi…  Seguire la crescita dei propri figli continuando a scattare fotografie diventa, per i genitori, un’ossessione pericolosa che, sostiene Antonino, li porterà inevitabilmente e inesorabilmente, alla follia. Riflessioni profetiche quelle di Paraggi: il “filosofo”, mentre si diverte con le sue elucubrazioni, non può immaginare che, come vedremo presto, chi corre il pericolo maggiore è proprio lui, lo scapolo”.

Nonostante le sue perplessità sui suoi amici fotografi, Antonino continua a frequentarli e partecipa alle gite fuori porta che vengono organizzate nei fine settimana. È un modo per vincere il senso di isolamento che lo pervade ma anche per continuare a esercitare il ruolo di osservatore critico che il protagonista del racconto si è attribuito. Nel corso di quelle escursioni, come possiamo facilmente immaginare, si scattano fotografie. Vengono immortalati i paesaggi naturali, montani o marini, ma, presto o tardi, arriva il momento della foto di gruppo, familiare o interfamiliare che sia. Chi viene chiamato a scattare queste foto? Antonino Paraggi, naturalmente, che, suo malgrado, si trova a svolgere il ruolo di fotografo. Come è facile immaginare, uno come Antonino non può essere un fotografo come tutti gli altri. Quando si trova tra le mani l’apparecchio fotografico, quasi istintivamente, invece di eseguire il compito assegnato, punta l’obiettivo per “catturare alberature d’imbarcazioni o guglie di campanili, o decapitare nonni e zii”. Gli amici, infastiditi, lo accusano di farlo apposta, di volere essere a tutti i costi originale. Ma non è così. Antonino si difende dalle accuse che gli vengono rivolte dicendo che lui vuole soltanto “servirsi della sua momentanea posizione di privilegio per ammonire fotografi e fotografati sul significato dei loro atti” perché, da quando ha cominciato a utilizzare la macchina fotografica, le sue acute riflessioni si arricchiscono di nuovi elementi e di nuove domande. Decidiamo di fotografare qualcosa perché ci sembra bello o la realtà ci appare bella perché è stata fotografata? E, rivolto ai suoi amici sempre più perplessi, afferma: “Basta che cominciate a dire di qualcosa: «Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!» e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografatile ogni momento della propria via. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia”. Anche quando gli amici non lo ascoltano più e lo considerano solo un rompiscatole, Antonino non demorde e continua con i suoi sermoni. Arriva a sostenere che chi decide di fotografare non può e non deve esercitare nessuna scelta. Dice che se lui si mettesse a fare fotografie, catturerebbe tutto, ogni attimo del soggetto fotografato, che il vero fotografo è colui che scatta almeno una foto al minuto. In caso contrario si cade inevitabilmente nella mediocrità perché la vera arte fotografica non può escludere i contrasti drammatici. Se si sceglie l’idillio, la consolazione, l’assenza di drammaticità, come fanno la maggior parte dei fotografi dilettanti, si evita la follia ma si piomba nell’ebetudine.

Nonostante la sua ostilità nei confronti della fotografia, Antonino Paraggi ha acquisito una certa dimestichezza con mirini ed esposimetri e, nel corso di una gita al mare, Bice e Lydia, due ragazze aggregate alla comitiva, gli chiedono di scattare delle istantanee che le ritraggano mentre giocano a palla sulla riva del mare. Accetta di fare le foto ma non può rinunciare alla sua vocazione di filosofo. Spiega alle ragazze la sua teoria sulle istantanee affermando che la foto spontanea, contrariamente a quello che tutti pensano, allontana il presente e assume subito un carattere nostalgico, “di gioia fuggita sull’ala del tempo”. Quando le foto verranno sviluppate, le ragazze restano colpite dal risultato. Antonino Paraggi, che gli piaccia o no, è diventato un bravo fotografo e, quando Bice gli chiede se ha voglia di scattare altre foto per loro due, accetta a una condizione: non devono essere istantanee ma foto in posa, come si facevano una volta quando le fotografie ufficiali, matrimoniali, scolastiche davano “il senso di quanto ogni ruolo o istituzione aveva in sé di serio e d’importante ma anche di falso e di forzato, d’autoritario, di gerarchico”. Insomma, secondo Antonino, ogni fotografia deve rendere espliciti i rapporti sociali invece di rimuoverli come avviene molto spesso nella pratica fotografica comune. Il “filosofo” scettico e critico sulla fotografia, accettando la sollecitazione di Bice, ha preso una decisione importante: la sua polemica antifotografica può “essere condotta solo dall’interno della scatola nera, contrapponendo fotografia a fotografia”. In Antonino è avvenuto un cambiamento irreversibile di cui egli stesso non è consapevole fino in fondo. Per adesso ha una sola certezza: per scattare foto in posa alla vecchia maniera, le uniche che lo interessano, è necessario dotarsi degli strumenti adeguati. Dopo lunghe ricerche tra i rigattieri della città, accompagnato da Bice e Lydia sempre più incuriosite, riesce a procurarsi una vecchia macchina a cassetta con scatto a pera completa di lastre. In una stanza del suo appartamento allestisce il suo laboratorio fotografico e invita le due ragazze a posare per lui, per fare delle foto coerenti con la sua “filosofia”. Lydia è diffidente e declina l’invito. Bice, al contrario, aderisce con entusiasmo. Si presenta il giorno dopo a casa di Antonino e diventa la sua modella. Con una docilità inattesa, si presta a tutte le richieste del fotografo che, dopo i primi scatti, non è convinto. Prima ancora di sviluppare le lastre sente che non potrà essere soddisfatto del risultato e presto capisce il motivo della sua frustrazione. “C’erano molte fotografie di Bice possibili e molte Bice impossibili a fotografare, ma quello che lui cercava era la fotografia unica che contenesse le une e le altre”. La invita ad assumere le pose più st, la obbliga a travestirsi, a indossare i costumi più strani ma, nonostante Bice assecondi gli ordini di Antonino, lui continua a ripetere: “Non ti prendo, non riesco a prenderti”. L’atteggiamento autoritario del fotografo filosofo, gli ordini perentori che impartisce alla ragazza, mi fanno pensare quello che Susan Sontag, molti anni dopo la scrittura del racconto di Calvino, dirà a proposito del carattere predatorio dell’atto fotografico. “Fotografare significa appropiarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere. […] L’atto di fare fotografia ha qualcosa di predatorio. Fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può mai avere: equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto” (Susan Sontag, Sulla fotografia). Antonino Paraggi vuole “prendere” Bice, desidera possederla attraverso l’apparecchio fotografico. Il suo desiderio di possesso è un’evidente sublimazione del desiderio sessuale. Riesce a possedere la ragazza solo attraverso il filtro della macchina evidenziando, con il suo comportamento pateticamente autoritario, il carattere patologico della relazione instaurata con la donna. Riuscirà a farla sua, a prenderla solo quando lei, stanca di travestirsi e di eseguire gli ordini di Antonino, si mostrerà nuda davanti all’obiettivo. “Ecco, ora sì, così va bene, ecco, ancora, così ti prendo bene, ancora” dice lui. Poi, finalmente pago, esce dal drappo nero che guarnisce il vecchio apparecchio e, quando si trova Bice senza abiti che aspetta, le ordina di rivestirsi. Lei è delusa e piange. Lui è euforico, ha fatto l’amore con lei fermando la sua immagine dopo aver schiacciato la piccola pera che apre l’otturatore e non ha nessun bisogno che il suo corpo si unisca a quello della ragazza. La macchina fotografica gli permette di vincere la paura che prova per il sesso, di amare Bice rimuovendo definitivamente il timore del contatto fisico. Scopre di essere innamorato di lei e, ora che “l’ha presa” una volta, il suo amore non può avere limiti. Il suo diventa un desiderio sfrenato, incontrollabile, deve “prenderla” a ogni ora del giorno e con il vecchio apparecchio fotografico non è possibile. Compra macchine più moderne, dispositivi per poterla fotografare anche di notte mentre dorme. Lei lo ama e si ostina a scambiare come atti d’amore le violenze fotografiche di Antonino. Nel suo laboratorio “pavesato di pellicole e provini Bice s’affacciava da tutti i fotogrammi, in tutti gli atteggiamenti gli scorci le fogge, messa in posa o colta a sua insaputa”. Antonino ha messo in discussione la sua teoria secondo la quale solo le foto in posa hanno un senso. È ritornato all’idea che solo fotografando ogni attimo della vita di Bice, solo esaurendo tutte le immagini possibili di lei, sarà possibile possederla completamente. E allora la segue di nascosto, la fotografa per strada, vuole “prenderla” quando lei non sa che c’è lui a fotografarla. Vuole immortalare l’inconsapevolezza di essere fotografata.

Quando Bice, esasperata da questa passione ossessiva, lo lascia, Antonino cade in una crisi depressiva. Ma non smette di fare fotografie. “Con la macchina appesa al collo, chiuso in casa, sprofondato in una poltrona, scattava compulsivamente con lo sguardo nel vuoto. Fotografava l’assenza di Bice: […] portaceneri pieni di mozziconi, un letto sfatto, una macchia d’umidità sul muro”. Decide di comporre un catalogo di tutto ciò che, normalmente, è refrattario alla fotografia. Poi osserva i giornali vecchi disseminati sul pavimento del suo appartamento che ormai è in uno stato di abbandono. Si mette a fotografare anche quelli e osserva le immagini di “cariche della polizia, auto carbonizzate, atleti in corsa, ministri, imputati”. Prova invidia per i fotoreporter impegnati a seguire quello che accade nel mondo e si chiede se sia il fotoreporter il vero antagonista del fotografo domenicale. Prigioniero della sua ossessione, comincia fare a pezzi tutte le foto presenti nella sua casa, con Bice o senza Bice, “a tagliuzzare la celluloide delle negative, a sfondare le diapositive”. Ammassa tutti i frammenti ricavati sui giornali stesi a terra. “La vera fotografia totale è un mucchio di frammenti d’immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni”. Questo è quello che pensa. Piega i lembi dei giornali e crea un enorme involto da buttare nella pattumiera. Ma, prima di farlo, decide di fotografarlo. Lascia il pacco un po’ aperto in modo che nella foto che avrebbe scattato sarebbero state riconoscibili “le immagini mezzo appallottolate e stracciate e nello stesso tempo si sentisse la loro irrealtà d’ombre di inchiostro casuali”. Mentre prepara il riflettore capisce che “fotografare fotografie” è l’unica via che gli resta, “la vera via che lui aveva oscuramente cercato fino allora”. Non c’è più antagonismo tra fotografo dilettante e fotografo professionista, tra la quotidianità delle foto di Bice e l’eccezionalità dei grandi eventi politici, tra ciò che è fotografabile e le immagini dell’assenza. Il fotografo dilettante e quello professionista producono entrambi materiali destinati a fondersi in un patchwork pronto a finire nell’immondizia. 

Quando le immagini catturate dall’occhio fotografico si moltiplicano a dismisura, invadono la nostra esistenza, si mescolano e si sovrappongono come succede a ognuno di noi nella nostra vita quotidiana, ricordiamoci di Antonino Paraggi e della sua nevrosi paranoica perché, anche noi che viviamo nell’era della foto digitale, quando non avremo più nulla da fotografare, potremmo ridurci a “fotografare fotografie”. 

Dino Montanino

Dino Montanino, laureato in Lettere moderne presso l’università Federico II di Napoli, ha insegnato Italiano e Latino nei licei. È stato formatore in corsi di aggiornamento per docenti. Si occupa di teatro della scuola e ha condotto laboratori teatrali in qualità di esperto esterno presso molti istituti scolastici. È tra i fondatori dell’associazione culturale “Le macchine desideranti” nata con l’intento di diffondere la cultura teatrale e letteraria tra i giovani curando la drammaturgia di tredici spettacoli. Conduce laboratori di scrittura creativa e incontri letterari tematici presso associazioni culturali.

Ottobre: il mese di Calvino al Randagio, di Gigi Agnano

“Improvvisamente ha guardato negli occhi i suoi lettori e ha detto con voce chiara e netta: cercate pure dentro di me, non troverete nulla.” (Ernesto Ferrero, Italo, Einaudi, 2023)

Il 15 ottobre rappresenta per noi de Il Randagio una data dal duplice valore simbolico: non solo celebriamo il secondo anniversario della nostra rivista, ma rendiamo anche omaggio a uno dei più grandi autori italiani del Novecento, Italo Calvino, nato proprio il 15 ottobre del 1923. Per questo, nella prima metà del mese, lo spazio che Il Randagio cerca faticosamente di ritagliarsi tra i Social sarà interamente dedicato a Calvino. Dal 1° al 15 proporremo una serie di articoli, disponibili anche sul nostro sito, per invitare a rileggere la sua opera e approfondire qualcuna delle tematiche che lo hanno consacrato come pilastro imprescindibile della letteratura contemporanea.

Ancora oggi ci chiediamo perché, due anni fa, decidemmo di far coincidere la nascita della nostra rivista con quella di Calvino, e la risposta ha certamente a che fare con l’ammirazione, con il fascino, la simpatia, la profondità, l’ironia, l’eleganza che per noi questo autore rappresenta. Ma è soprattutto un aspetto “caratteriale” a farcelo sentire vicino in modo speciale, come accade solo a pochi grandi classici. È un paradosso: in un panorama letterario contemporaneo dominato dall’autofiction, dal racconto confidenziale e dalla narrazione intima, noi avvertiamo quasi d’istinto una più profonda confidenza con “lo scrittore invisibile”, l’autore che si mostra poco, il timido, lo schivo. Quell’autore che, come ricordava Citati, «non sapevi mai su quale ramo dell’immenso albero della vita facesse il proprio nido», lo “scoiattolo con la penna” che balbetta di una “balbuzie interiore”, lontano da ogni compiacimento narcisistico e quasi mai protagonista diretto dei propri racconti. Scriveva di lui Pasolini in un poemetto del 1960 “ la sua semplicità / non grigia, la sua misura non tediosa, / la sua chiarezza non presuntuosa. / Il suo splendido amore per il mondo / lievitato e contorto della favola”.

Calvino è il Randagio letterario per antonomasia. Con le sue sperimentazioni narrative, i continui “cambi di rotta”, le variazioni di stile e voce, permette a noi lettori randagi di vagabondare tra mondi e generi diversi senza mai perdere il piacere di leggere: dal realismo del “Sentiero dei nidi di ragno” al meraviglioso fantastico della trilogia “I nostri antenati“, fino a “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, dove dieci incipit di romanzi, tra loro diversissimi per genere (romanzo d’ambiente, psicologico, poliziesco, erotico ecc.), per tradizioni narrative (americana, latino-americana, russa…) e per fonti d’ispirazione (Borges, naturalmente, ma anche Juan Rulfo, Onetti, Nabokov, D.H. Lawrence, Tanizaki, Kawabata, Joseph Roth, Thomas Bernhard, Graham Greene, Landolfi) si intrecciano in una sfavillante fantasmagoria letteraria.

Calvino ci affascina perché, quando pensi di averlo compreso, ti depista; quando credi di averlo riconosciuto, finge di essere un altro; se t’illudi di averne individuato le tracce, le confonde o le cancella. Questo suo essere sfuggente lo ha pure teorizzato: nella fondamentale prefazione all’edizione del 1964 del Sentiero, scrive: «Quando cominciai a scrivere storie in cui non entravo io, tutto prese a funzionare: il linguaggio, il ritmo, il taglio erano esatti, funzionali; più lo facevo oggettivo, anonimo, più il racconto mi dava soddisfazione». E ancora, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, Flannery, uno degli autori degli incipit, esprime il desiderio di cancellare se stesso «e trovare per ogni libro un altro io, un’altra voce, un altro nome, rinascere».

Calvino si definiva uno “scrittore invisibile”, un osservatore defilato la cui presenza emerge appena nei mondi fantastici e nei personaggi simbolici o metaforici nati dalla sua straordinaria immaginazione.

Con gli articoli che proporremo nei prossimi giorni, Il Randagio intende entrare con la consueta modestia, in punta di piedi e – come si usava un tempo – «con le pattine», in alcuni tra i mille frammenti di quei mondi, di quei personaggi, nelle molteplici “invisibilità” calviniane. Ci piacerebbe che questo ottobre non fosse soltanto un compleanno, ma una vera esperienza di conoscenza, riscoperta e rilettura di un autore capace di insegnarci a guardare la realtà da angolazioni inattese.

Per noi, ottobre è il mese di Calvino: lui gioca a nascondino, e noi lo andiamo a cercare.

Gigi Agnano

Napoletano, classe ’60, è l’ideatore e uno dei fondatori de “Il Randagio – Rivista letteraria“, nato il 15 ottobre 2023, anniversario della nascita di Italo Calvino.