Yasmina Reza è principalmente una drammaturga ma scrive anche romanzi molto apprezzati dalla critica e dai lettori; del 2024 è l’opera “La vita normale”, pubblicata da Adelphi in Italia come altri suoi scritti di successo internazionale. Si tratta di una raccolta di racconti più o meno brevi, ispirati quasi sempre dalle scene di processi da lei personalmente seguiti nelle aule di un tribunale.
“Edith Scaravetti ha ucciso suo marito Laurent Baca di notte, con un colpo di carabina 22 long rifle alla tempia. Mi occorre un bel po’ per mettere a fuoco il suo viso, benché l’aula sia piccola e la mia panca abbastanza vicina. Con i capelli neri tirati indietro, il corpo rattrappito, come congelato, guarda fisso un punto poco più in là delle sue scarpe.” (Il rovescio della vita)
“Il 3 agosto 2021, in un convoglio della linea 13 della metropolitana in direzione Chatillon, Dalila ha fatto un piccolo massacro. Ha pugnalato al torace un giovane fattorino nero, ricoprendolo di insulti razzisti… ” (Disperatezza)
E’, nell’insieme, il ritratto epocale di una società il cui tratto comune è l’assenza di consapevolezza, come se tutti i personaggi, uomini, donne o bambini, vecchi o giovani, di qualunque classe sociale, si trovassero privi di coordinate, spogli di informazioni valide, senza difese, soprattutto da se stessi. A fare da protagonista il completo abbandono dell’essere umano, alla mercé di impulsi che non è in grado di dominare e che, soprattutto, non comprende affatto. Merito dell’autrice è l’aver messo il dito nella piaga, un cinismo cieco non dovuto a durezza d’animo ma a mancanza di comprendonio. Da questo suo punto di vista i processi sono completamente inutili poiché nessuno degli imputati capisce che cosa ha fatto, smarrito nel “tutto si equivale” e nel “tutto è possibile”. Molte volte però il processo non c’è e il racconto è descrizione dietro una fotocamera di persone prese a caso come esempio di possibili, o molto probabili, storie e biografie, tutti possono essere tutti. Ancora Pirandello? Forse per caso. In alcuni processi quello che viene rappresentato è il degrado sociale, una donna uccide il marito alcolizzato e violento e lo seppellisce in giardino, poi sposta il corpo, lo immerge nel cemento, viene scoperta e processata: ha subito stupro e violenza da ragazzina e questo è il risultato.
I riferimenti a esperienze personali dell’autrice si inseriscono senza problemi e senza chiedere il permesso, non è una voce fuori campo, è la coscienza che manca ai personaggi. I riferimenti letterari e culturali sono espliciti, a Borges, per esempio, o a se stessa, quando cita “Il dio del massacro” la commedia da cui fu tratto il film “Carnage” di Roman Polanski. Yasmina Reza può permetterselo. Non manca la critica a un mostro sacro come Faulkner e all’illeggibile “Assalonne, Assalonne!”.
Ma torniamo ai processi, qual è l’interesse di Yasmina Reza per i processi? Sono descrizioni, immagini fotografiche, in un certo senso, sono tratti fotografici quelli che vengono descritti, fotogrammi che nascondono o svelano come quando il fotografo è un artista che coglie l’anima con l’obiettivo. Forse è questo l’unico modo attualmente possibile di indagare la realtà. Fra tutti primeggia il tema della morte, niente di gotico o grottesco, come si è abituati a pensare, enigmatica sì! Che sia morte naturale o violenta, improvvisa o annunciata. Anche la morte del suo amico editore, Roberto Calasso, del quale le arrivano per posta i due ultimi libri, senza dedica, perché la morte interrompe lo scambio. Non per chi scrive, come Yasmina Reza, o per chi edita i libri altrui, come Calasso, padre della Casa editrice Adelphi.
Valeria Jacobacci
Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.
Non esiste un solo Ottocento, come sa bene chi è appassionato di un’epoca così significativa per i presupposti tutt’altro che scontati dei tempi futuri. Di quel periodo la Marasco mette in luce lo spaccato degli intelletti nostri tipicamente meridionali, volontariamente rinunciatari della propria individualità in favore di un bene più alto, nazionalista, che porta all’Unità d’Italia e a gran parte degli eventi che si affacciano al Novecento.
Non c’è da meravigliarsi se accanto alla tisi, che faceva strage di eroine romantiche nelle opere liriche, si manifestassero almeno due mali estremi per gli animi sensibili, la follia che si accompagna alle allucinazioni degli artisti, e il male di vivere, un’anticipazione dell’esistenzialismo del secolo successivo. Oppure si tratta di un rinvio al taedium vitae di Lucrezio, che lo associa alla malattia dello spirito, e forse alla noia di cui parla Seneca, l’assenza di senso, che fa dire a Cicerone di tornare indietro, al barcaiolo che lo sta portando lontano dalla lama del sicario venuto a tagliargli la gola. Questa ricerca della morte si camuffa da malattia mentale, nient’altro che uno stato di lucidità estrema, l’orrore della verità senza veli.
Ma cominciamo dall’inizio, come si diceva, appunto, nei romanzi dell’Ottocento. Il male di vivere nel Sud dell’Italia ottocentesca risiede nei due momenti fondamentali dell’esistenza, il tempo racchiuso fra il primo vagito e l’ultimo respiro e la dimensione estesa di un tempo fermo sempre uguale a se stesso. Quest’ultimo è il dramma del Gattopardo, inorridito ma impassibile di fronte al “tutto cambia affinché tutto resti uguale”, dall’altra parte c’è la percezione di un movimento che comunque esiste e al quale bisogna dare un contributo personale. Almeno per alcuni decenni, questo sembra possibile, la volontà trova intoppi ma poi si libera, segue il percorso a tratti faticoso e a tratti in picchiata verso qualcosa.
Il medico Ferdinando Palasciano è un personaggio storico, di straordinario talento ma non possiede il cinismo necessario alla sopravvivenza. Chissà, forse se avesse conosciuto Giuseppe Moscati, il medico santo che sarebbe nato a Napoli poco dopo, avrebbero collaborato, invece le cose andarono diversamente. Come altri personaggi eccellenti che appaiono nel romanzo, il pittore Vincenzo Gemito e il meno famoso ma celebre Eduardo Dalbono, autore di paesaggi indimenticabili di Napoli e del Vesuvio, il giovane Ferdinando Palasciano riceve riconoscimenti internazionali per il suo pregevole lavoro di medico e si fa notare per i suoi incrollabili princìpi.
Sarà l’ispiratore per la creazione della Croce Rossa. Durante la spedizione di Garibaldi in Sicilia era stato arruolato fra le file borboniche, sul campo di battaglia, dov’era ufficiale medico, non esitò a curare i feriti di entrambi gli schieramenti. Chiamato a giustificare il suo operato dal generale Carlo Filangieri, spiega che il soldato va onorato e rispettato qualunque sia la sua appartenenza. Viene condannato lo stesso per tradimento e solo in seguito assolto dopo un anno di carcere grazie all’intercessione di re Ferdinando II. Il Risorgimento napoletano è doloroso, complicato. Questo spiega quella sorta di inguaribile frattura subita da tanti personaggi divisi fra onori e disillusioni.
Fatta l’Italia, Palasciano guadagna stima e onori, sposa un’affascinante contessa russa, Olga di Vavilov, che ama appassionatamente e che guarisce da una zoppìa considerata incurabile. Insieme costruiscono e abitano una bella villa dominata da una torre. La Torre è simbolo di spiritualità eccelsa ma prefigura la morte come in un romanzo gotico. L’eccesso di sensibilità racchiude una consunzione morale alla quale i due non possono sottrarsi, quasi che lo sforzo fosse di troppo superiore alle reali capacità umane.
Lo spirito romantico racchiude una radice esoterica che a Napoli è particolarmente sentita. Tutti i personaggi vivono almeno due dimensioni, parlano più lingue, a quella della scienza si affianca il dialetto dei servi ma anche dei napoletani tutti, un linguaggio nobile, forbito, pieno di significati. Il cimento politico del dottor Palasciano diventa frenetico, nella bella villa si svolgono serate e concerti, Olga canta i più difficili lieder, non rimpiange la Russia, ha nugoli di ammiratori, nulla di fronte al legame indissolubile che la lega a colui che l’ha salvata dalla zoppìa. Si tratta di una zoppìa reale o psicologica? Entrambe le cose, la femminilità di Olga è di per sé zoppa.
Il colpo di grazia alla salute mentale del dottor Palasciano lo dà la perdita della sala operatoria, fiore all’occhiello del suo ospedale. Così è la pazzia a fare da padrona, il medico è rinchiuso in una casa di cura, Villa Fleurant, dove a fargli compagnia è il fantasma di Vincenzo Gemito, anch’egli fuori di sé per l’incomprensione della sua arte, o, forse, per il sospetto di averne persa la reale ispirazione. Un altro artista attende al varco il dottore all’uscita dal manicomio, quando sembra ormai guarito. E’ Eduardo Dalbono, al quale il medico commissiona una serie di vedute del Vesuvio, da eseguire in una “camera della poesia” che si trova all’interno della Torre. E’ nella Torre che l’amore di Olga cambia obiettivo, il pittore è irresistibile, ma i princìpi morali e la fedeltà al marito lo sono di più. Ferdinando lo sa, capisce, ama parimenti l’amico pittore e la meravigliosa contessa che è sua moglie. Il ménage a trois non è possibile, non ci siamo arrivati, ammesso che si possa considerare una via di fuga. La Torre resta simbolo esoterico di un’immortalità messa costantemente in dubbio, l’amore è sacrificato, la felicità è una poetica zoppìa.
“Di spalle a questo mondo” di Wanda Marasco è nella dozzina dei candidati al Premio Strega 2025.
Valeria Jacobacci
Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.
La famiglia è una prigione? Un carcere di massima sicurezza? E’ così che la immaginiamo nel racconto di Andrea Bajani, che affida alla lama affilata del “romanzo” la salvezza che è liberazione ma anche strappo e vergogna, paura e senso di colpa. Da questo cocktail velenoso è difficile salvarsi, anche se si frappongono migliaia di chilometri e si cancellano accuratamente le tracce che conducono all’autonomia finalmente raggiunta. Il fuggitivo però resta un transfuga, un traditore e un disertore della guerra sempre in agguato fra un armistizio e l’altro. Il nido senza il quale nessun essere vivente può sopravvivere è anche trappola e tagliola. L’anniversario da festeggiare è il giorno in cui si imboccano le scale di casa e non si fa più ritorno.
Vengono in mente le parole di una canzone del primo Novecento, dove la giornata dell’addio è una magnifica giornata: “Oggi che bellissima giornata, che giornata di felicità, la mia bella donna mi ha lasciato…” il disco un po’ gracchiante attesta un indiscutibile sollievo. Succede quando un rapporto malato ha finalmente fine e il legame miracolosamente si scioglie. Nel caso della famiglia la situazione è diversa, il groviglio è inestricabile, più di un nodo di Gordio, e come tale ha bisogno di una spada e di un eroe per essere tagliato, più che di un semplice paio di forbici.
Perché? Perché si tratta davvero di un gesto eroico, del quale non tutti sono capaci, e anche quelli che ci riescono hanno bisogno di molto tempo per arrivarci. Lasciare la famiglia è facile quando il rapporto con essa è sano, allora non si tratta di abbandono, è un semplice e naturale allontanamento, senza traumi, solo la schiavitù rende complicata e pericolosa l’evasione.
Bajani parla di un rapporto familiare malato, sicuramente non raro, alla base del quale c’è la completa sottomissione della madre al padre. L’anomalia della situazione grava sui figli, un maschio, il protagonista, e una femmina, sua sorella. I due reagiscono in forma diversa agli scoppi d’ira del tiranno, consistenti in volo di oggetti, mobili rotti e botte sul corpo della madre, raramente su quello del figlio. Lui, il figlio, non ha la forza per ribellarsi, inizialmente perché è solo un bambino, poi perché, per l’appunto, non è un eroe, durante la crescita i numerosi episodi gli hanno provocato una nevrosi, con disturbi psicofisici che vanno dalle crisi di panico ai crampi violenti nel profondo delle viscere. La sorella si chiude, non trova complicità in lui, che suscita così il suo disprezzo, aspetta tranquilla di crescere per sposarsi e mettersi in salvo, se davvero si metterà in salvo.
L’incomunicabilità è il danno maggiore rappresentato dalla via di fuga scelta dalla madre, che è quella di rifugiarsi in un altro pianeta, dove non le arriva il dolore dell’umiliazione e non la spaventa la violenza, semplicemente lei non c’è, anzi, non “è”. E’ questa la psicanalisi operata dal figlio, che osserva la madre con stupore crescente. Ad ogni crisi di violenza domestica segue un periodo neutro, durante il quale nessuno dice o fa niente, in attesa che tutto torni normale, di solito è il figlio a rompere il ghiaccio, raccontando un episodio qualunque o azzardando una battuta di spirito, allora il tiranno si degna di rispondere e la famiglia può tornare a respirare. La madre si prodiga in attenzioni e riguardi, come se dovesse farsi perdonare una colpa e non fosse invece il contrario.
I nonni hanno uno spazio in questa famiglia. Quelli materni restano ancorati a uno sterile perbenismo che impedisce loro di correre in difesa della propria figlia, assistono inermi e abulici alla sua rovina. Gli altri nonni non sono sposati, anzi, la nonna ha avuto figli da uomini diversi, il figlio bullo soffre di complessi d’inferiorità perché i fratelli di primo letto appartengono a una classe sociale più ricca. Ecco svelato il mistero: il senso d’impotenza e il rancore si scaricano sulla donna inerme che ha accettato di essere sua moglie.
Con simili genitori e nonni che può fare il nostro protagonista? Solo fuggire. Ed è quello che farà superando il più forte sentimento di colpa che è quello di lasciare la madre nelle mani del suo aguzzino. Ma la vittima non rischia niente perché è già morta molti anni prima. E nemmeno se n’è accorta. Che succede in terza generazione? Quello che succede a molti giovani laureati senza beni di fortuna e famiglie forti alle spalle: il figlio cerca e trova lavoro un po’ ovunque all’estero. Dopo il distacco per frequentare l’università questo è per lui un ottimo pretesto per mettere quanti più chilometri possibili fra sé e i suoi disgraziati parenti. Tuttavia le radici si tagliano dopo molto tempo e solo quando la maturazione psicologica e sentimentale è raggiunta, dopo una lunga psicoanalisi, una profonda sofferenza e un faticoso riguadagnare la riva dopo il più rovinoso dei naufragi.
Ma la vera protagonista resta la donna: perché non ha mai reagito? Eppure lei non ha paura, profondamente anestetizzata, non è in grado di salvare né se stessa né i propri figli. Oppure pensa di farlo proprio in questo modo? E il padre? Può avere una qualche scusante? La sua è un’assurda richiesta d’amore. E’ così che il figlio decodifica il comportamento del debole, del fallito, dell’incapace. Forse non sa che le colpe vengono da più parti, per questo la sua risulta una denuncia: della società e dei suoi vizi, dei falsi valori e degli atavici pregiudizi.
Valeria Jacobacci
Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.
Trecentonovantuno pagine di pensieri , sentimenti, emozioni di una giovane donna in un particolare momento della sua vita ma anche della vita del suo paese: ci troviamo nel 1988 a Berlino, lei a Est del muro, lui a Ovest, fra poco il muro crollerà ma nessuno dei due può prevederlo e forse neanche auspicarlo. Infatti nella mente di lei campeggia lui, sono quindi in due nella sua testa ed è lei la protagonista, anche se il romanzo è narrato in terza persona e l’autrice usa sempre il tempo presente, quasi volesse abolire i passaggi temporali per privilegiare il continuum di un flusso di coscienza spiato dall’esterno. Questa tecnica, che fotografa l’istante e lo ferma, potrebbe creare un diaframma fra il racconto e il lettore, lasciando libertà di scelta fra osservazione e immedesimazione ma è subito chiaro che la protagonista resta lei, la ragazza, che un giorno incrocia lo sguardo di uno sconosciuto sull’autobus preso al volo in un pomeriggio di pioggia.
Se la ragazza fosse la Marinella della ballata di Fabrizio de Andrè, “tu lo seguisti senza una ragione…” , il romanzo finirebbe molto prima ma Katharina non è una sprovveduta e non l’attende la morte ma una vicenda amorosa che giunge spesso a fargliela desiderare. In un rapporto asimmetrico nel quale fin dal principio un fascinoso scrittore cinquantenne concede alla bella studentessa universitaria una relazione senza diritti, deve essere soprattutto chiaro che lui si terrà come più gli aggrada una moglie, un figlio, un’amante fissa e molte amiche occasionali. Non le chiarisce che lei non potrà essere libera neanche in parte, del resto alla ragazza non importa. E’ questa la prima chiave d’interpretazione: la manipolazione senza scrupoli del più forte sul più debole, del resto l’autrice chiarisce presto che il professore ha vissuto i primi anni della sua vita durante il nazismo, ha fatto parte della Gioventù Hitleriana.
Sarebbe però troppo facile attribuire a questo la tossicità del rapporto, lui si è allontanato dal modello malefico da molto tempo, è moderno, liberale, simpatico, trasmette da una radio la sua pregevole cultura, ama la musica classica, l’arte e, ovviamente, la letteratura. Gli incontri non sono occupati solo dal sesso, si direbbe che due anime si siano incrociate e che si amino incondizionatamente, al di là del bene e del male, si potrebbe dire. E’ così? Libri, sinfonie e gallerie d’arte sono interessi condivisi, i due bastano a se stessi, sono paghi di sé, si vedono nei caffè e nei ristoranti, la moglie di lui non prova neanche a indagare sulle sue giornate. Fin quando non lo caccia di casa.
Così per un po’ i due stanno insieme nella stanza da studentessa di Katharina, una magnifica Boheme carica di tenerezza. Quando e perché l’idillio finisce? Se solo Katharina fosse capace di approfittare del vantaggio conquistato le cose potrebbero volgere al bene ma, come in tutte le vite, le difficoltà si affacciano a rompere i più miracolosi equilibri. Katharina deve completare gli studi e lui non può perdere la famiglia. Lei si trasferisce per studiare e lui torna a casa. Finisce qui? Troppo facile.
La vita presenta il conto, i due si amano troppo per rinunciare e lasciarsi, bisognerebbe che oltre ad amarsi fossero capaci di volersi bene. Forse non succede quasi mai ma nel caso di questa coppia è davvero impossibile. La città sta cambiando e così accade anche di loro, il crollo del muro non rimette le cose a posto, prima da Ovest si poteva andare a Est e non il contrario, era lui ad andare da lei e non il contrario, una metafora dell’asimmetria del rapporto? La libertà non coincide con i diritti, riconosciuti, per tardi che sia. Così la libertà non è per i due amanti. Katharina vive nonostante, che dovrebbe fare? Ha una storia con un compagno di corso, viene scoperta, pensa di poterne parlare con l’amante come aveva imparato a fare per ogni cosa della sua vita, come se lui fosse una parte non separata di se stessa.
Le conseguenze sono disastrose, lui non è affatto pronto per questo, soffre come mai prima nella vita. La lascia. Lei non accetta, non vuole essere lasciata e dovrà pagarne le durissime conseguenze. L’amore si ammala, come qualunque altra creatura vivente, lei sempre più vittima con colpe da espiare, fino a farsi frustare, a cambiare il sesso in tortura, tradisce ancora, perfino con una donna, non c’è altro da fare. Tutto può finire in un dramma a fosche tinte ma è proprio l’arrendevolezza di Katharina a salvarla, accetta di farsi tormentare anche psicologicamente pur di non essere lasciata. Lui registra cinque cassette della durata di un’ora ciascuna nelle quali elenca le sue colpe alle quali lei dovrà rispondere per iscritto. Sarà mai perdonata? Di cosa deve essere perdonata? Di avere ucciso l’amore.
Alla fine delle cinque cassette tutto è cambiato, la città più di qualunque altra cosa, i locali chiudono, istituzioni, imprese, uffici, vengono chiusi, lui non potrà più lavorare in una radio che non c’è più. Anche questa storia vede la fine, per inedia e disperazione, dopo aver resistito a lungo lei si arrende, e forse anche lui: dopo essersi lasciati e ripresi per tre volte, alla fine l’ultima è la definitiva, forse senza che neanche se ne rendano conto. Un’amara conclusione, in un clima di generale sconfitta. L’ex ragazzino della Gioventù Hitleriana ha avuto una misteriosa vita da spia, della quale lei non ha mai avuto idea. Ora non c’è più niente da spiare. Il muro è caduto. Il crollo è assordante.
Il romanzo ha vinto l’International Booker Prize 2024.
Valeria Jacobacci
Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.
“Ci sistemiamo nelle sala da pranzo della casa, una grande tavola di legno su cui dispongo il materiale, e ci sediamo sulle panche, assi di legno in bilico su alcuni mattoni e casse di birra.”
Dopo un lungo percorso in auto un gruppo di donne, attraversata una parte del Pàramo di Sumapaz, in Colombia, arriva nel luogo deputato per un laboratorio di scrittura molto particolare. Sono donne avvolte nella nebbia, donne della nebbia, come recita il titolo del romanzo.
Il Pàramo di Sumapaz è infatti una regione pianeggiante in mezzo alle Ande, a venti chilometri da Santa Fé, semi inesplorata, ricca di un fascino di sacralità, dovuta anche a un clima dominato dalle escursioni termiche, gelo e pioggia con improvvise schiarite, sullo scenario di una laguna ritagliata nell’azzurro abbacinante, in alto, a mille metri sul livello del mare, in mezzo alle montagne. Chi sono queste donne?
Il titolo originale del romanzo è “La paramera”. La donna che abita questo paesaggio è figlia della natura selvaggia che la circonda, ma figlia sofferente e ribelle, ansiosa di scavalcare il limite e darsela a gambe. Non è nella psiche di tutti la voglia di varcare il confine alla ricerca della libertà? Se lo è per tutti, in questo romanzo si tocca con mano l’allarme che sa di disperazione, uno stato di allerta. Senza contare la situazione politica – immersa da sempre nelle guerre civili che strappano i figli alle madri, che scaraventano i corpi di rivoluzionari di infinite rivoluzioni (memorabile quella del non lontano 2005), nell’Iconanzo, un suggestivo burrone dentro un canyon senza fondo – qui è soprattutto l’isolamento del territorio a creare il clima claustrofobico che riempie gli uomini di follia. L’immenso spazio è circoscritto, la vastità non serve a niente se non si scorge la via di fuga. Non sono però gli uomini ad accorgersi di tutto questo ma le donne. Perché?
Probabilmente è l’essere madri, corpi addetti al ciclo della riproduzione, a rendere le donne più esasperate e quindi consapevoli, determinate. La maternità è trappola e salvezza contemporaneamente. Lo sente la protagonista della storia, una giovane professoressa, laureata all’università di Bogotà, altruisticamente protesa verso le sorelle, contadine, offuscate dalla nebbia di una vita isolata, nella realtà primordiale della solitudine. Lo sentono tutte, protese più o meno consapevolmente alla conoscenza, perché della conoscenza si tratta.
L’originale laboratorio di scrittura costringe la prof a percorrere parecchi chilometri per realizzare il progetto, affidando il figlio di appena sette mesi al marito, affettuoso e comprensivo, ben diverso dai compagni delle altre donne del gruppo. Il proprio corpo le ricorda ogni paio d’ore di essere madre, le esigenze del neonato le riempiono il seno di latte. Il rapporto con il corpo è difficilissimo per lei, non per le sue allieve, anni luce lontane dai problemi delle donne occidentali degli Stati Uniti o della vecchia Europa, immerse nel mondo del lavoro, al quale hanno dato la precedenza assoluta su tutto, in particolare sulla maternità. L’assurdo è nel fatto che questa ostacolante maternità è l’unico bene prezioso. Questo le donne del laboratorio di scrittura non lo sanno e forse non lo sapranno mai.
La più simile alla prof è Adriana, spregiudicata, tenace, pronta a cogliere la prima occasione per fuggire all’incubo del compagno ottuso e assillante con il suo bisogno di sesso. Adriana fa il bagno nella laguna durante una breve sosta del tragitto in macchina verso il luogo della riunione letteraria. Un bagno fisico e allegorico. La prof ammira il corpo nudo stillante acqua gelida, il groviglio dei capelli bagnati e le gambe robuste e forti. Niente di esile in questi corpi di donne andine, niente personaggi eterei.
L’unica astrazione è la scuola di scrittura che dovrà servire come psicanalisi per indurre a raccontare l’indicibile e il mai raccontato: esercizio psicanalitico alla ricerca almeno della consapevolezza di sé. La libertà nasce appunto da questo. Il torbido di quello che Freud definisce “inconscio” sta nella condizione originaria della creatura umana, che tutto riconduce al sesso. Nelle civiltà occidentali un tortuoso cammino ha portato a dissotterrare quell’ascia di guerra che in mezzo alle Ande è ben in chiaro. Qui fra le montagne gli uomini sono dei bruti. Sono rozzi e ignari, non possono nascondersi perché non immaginano di doverlo fare. Per questi uomini quasi non c’è differenza fra donne ed esemplari femminili di altre specie: servono a sfogare l’impellenza dell’istinto. Non essendo completamente allo stato primitivo, a volte cantano ballate romantiche, ispirate ai fuorilegge o a chi tale è considerato, chi può saperlo.
Tuttavia la civiltà, se così vogliamo definirla, si fa sentire nonostante, in qualche modo si è sempre fatta sentire: la cultura è il passaporto per una vita diversa. Non tutto quello che è ferino lo è fino in fondo, tutto e tutti possono cambiare, benché essere scaraventati nel burrone sia davvero orribile. L’autista Albeiro trasporta le donne con il suo mezzo sgangherato verso il laboratorio, e loro arrivano, e cominciano a raccontare le loro storie. Raccontano di gravidanze a tredici anni, di botte, di soprusi, di amplessi sopportati. L’istinto è potente. L’essere donna è la carta vincente. Le donne sono abituate ad avere figli che alleveranno da sole, perché gli uomini le abbandonano invariabilmente, secondo la loro natura. L’amore materno spalanca gli orizzonti e mette in chiaro la strada da seguire. La cultura legata al cibo, la coltivazione e la sua preparazione sono il segno della vita che continua. La voglia di vivere viene da lì. E’ forse per questo che due forze uguali e contrarie si sfidano in questo mondo primitivo. La corsa verso la conquista della libertà, oltre i confini delle montagne – scuola, università, altre lingue e altri mondi – da una parte, e bellezza di paesaggi, odori e sapori di una terra fantastica, istinti travolgenti, la sacralità della madre e del suo corpo, dall’altra. Se il maschio nel suo istinto è bestiale anche la femmina lo è. Se la natura selvatica del Pàramo è crudele, la sua bellezza è sacra, affascinante e indimenticabile, come un paesaggio magico o stregonesco. Allontanarsene porta la nostalgia ancor prima di partire. Chi passerà le montagne? Lo faranno i libri. Come afferma l’autrice colombiana, Laura Acero, dalla non lontana Università: “la letteratura non deve essere un saggio con note a pié di pagina” .
Le storie di donne sono tutt’altro che rare nel nostro attuale panorama letterario, gli scaffali delle librerie ne sono pieni. La lotta per affermare diritti delle donne sempre negati s’imbatte oggi nell’incredibile realtà dei continui femminicidi, proprio nel moderno mondo occidentale, e proprio nel nostro avanzato paese. In più, i fantasmi del passato risorgono nel mondo arabo, gli uomini coprono le donne con spessi drappi di stoffa, terrorizzati all’idea che possano sfuggire al controllo. Non è un problema geografico. Forse è un problema antropologico? Religioso? Psicanalitico? La prima cosa che s’impedisce alle donne in quel tipo di mondo è l’istruzione. Proibito alle donne andare a scuola. Nel Pàramo nasce invece un laboratorio di scrittura. Va bene. E’ da qui che si parte e si riparte.
Valeria Jacobacci
Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.