La lezione di Pepe Mujica arriva dalla fine del mondo o quasi. Come a Macondo, di Antonio Corvino

A Macondo il tempo scorreva immobile al pari delle acque del fiume che placido si accucciava tra gli alberi appena più in là. 

Il colonnello Buendia guardava il cielo dalla veranda pensando al tempo della sua rivoluzione e annusava l’aria impregnata di sapori che si spandevano tutto intorno.

I peperoncini erano talmente corrugati che se avessero disteso le infinite grinze sarebbero diventati degli enormi palloni tanto da potersene volare. 

Erano di tutti i colori. 

Rossi, gialli, color terra bagnata, verdi. 

Spuntavano da ogni crepa, da ogni fessura della terra arsa o sanguigna a seconda che tirasse il vento furioso o scrosciasse incontenibile la pioggia. E gli mettevano allegria. Gli piaceva addentarne qualcuno ogni tanto.  

Solo i vecchi come lui potevano addomesticare quei peperoncini sensuali come la vita e piccanti come la solitudine.

Quando pioveva, dio ce ne scansi, pensavano terrorizzati  i pochi superstiti. Ma non lui. Con  la pioggia la terra si impregnava di quei sapori tanto da sentirteli nel naso, nella gola e persino negli occhi che lacrimavano per tutti gli amori perduti e le rivoluzioni non fatte . Quella terra era intrisa di sensualità come nessun’altra. Ci facevi l’amore stando fermo sotto la veranda e se ti veniva l’idea di andare in giro a sguazzare nel fango ed a rischiare di essere travolto dalle acque furenti del grande fiume, non ti salvavi più. Morivi di beatitudine, come tra le braccia di una donna  maestosa attesa tutta la vita.

Il colonnello Buendia lo sapeva bene. 

E aspettava che il cielo diventasse nero, i tuoni ed i lampi spaventassero case, gente ed animali, la pioggia scrosciante trasformasse allegramente le strade in un pantano e ingoiasse felicemente la terra con tutti i fottuti soldati che la occupavano. Lui se ne sarebbe andato a zonzo  a sfidare l’universo come aveva fatto con quel  dannato esercito che lo aveva portato davanti al plotone di esecuzione infinite volte, uscendone sempre indenne però perché egli conosceva il segreto della vita. 

Anzi solo allora con la furia scatenata degli elementi si sentiva vivo e poteva respirare la sua solitudine e farla durare cent’anni a beneficio di figli e nipoti. Solo allora gli si parava davanti, momento dopo momento, tutta intera la sua vita e lui la contemplava incurante delle urla di quanti lo invocavano…

“Colonnello Buendia mettiti al riparo… un giorno o l’altro il fiume ti porterà via sino all’Oceano e nessuno ti ritroverà più”.

Gli urlavano per pietà e compassione ma sapevano che quelle urla se le portava via il vento e la pioggia e ammesso che una lontana eco forse arrivava alle sue orecchie, lui se ne sarebbe altamente fregato. Perché ritrovare il tempo della sua solitudine tra le acque gonfie del fiume e nell’Oceano turbolento ingoiando i sapori ed i profumi della terra che gli penetravano in corpo tanto da farlo diventare lui stesso terra e fango, acqua e cielo come quei peperoncini che correvano sulle onde limacciose, era proprio quello che voleva. Quello che cercava. Perché lì erano concentrati i cent’anni della sua solitudine piena di vita. Ed i successivi e tutti gli altri a venire.

Era convinto che il mondo a volersi salvare non aveva altra scelta. Doveva tuffarsi nella natura, amarla e farsene travolgere se necessario. Tutte le rivoluzioni a cui aveva partecipato tendevano a questo. Ripristinare il flusso primordiale tra gli uomini e l’anima dell’Universo. Le violenze, le dittature, le sopraffazioni erano scaturite di là, dal potere e dalla smania di ricchezza che generavano violenza. Ma appena tu fossi stato in grado di assecondare la natura ti accorgevi che tutto tornava a posto. Non solo. 

Comunque essa si sarebbe incaricata di rimettere a posto le cose. 

Dove non fosse riuscita la cocciutaggine di Buendia o di Mujica, le loro infinite, reiterate rivoluzioni, vi avrebbe pensato l’Universo a rimettere le cose a posto. Come il vento furioso che alla fine avrebbe sradicato tutto intero Macondo sollevandolo in volo fino a farlo scomparire in cielo.  

Ecco era questo il  destino del mondo, pensava Pepe Mujica, mentre nella sua fattoria coltivava quanto gli serviva non per sopravvivere ma per vivere. Egli non cercava la povertà ma il benessere prodromo della felicità…

Aveva fatto il guerrigliero, era stato il terribile tupamaro da tutti i nemici temuto e cercato. Amato solo dai Campesinos. 

Era finito in prigione, torturato per lunghi anni,  ma la sua coerenza non era mai venuta meno. Proprio come il colonnello Buendia e lui aspettava, perché  lo sapeva, che un giorno o l’altro il vento terribile, come un giudice impietoso, se li  sarebbe portati via tutti quei  soldati e i dittatori che li comandavano. 

E arrivò quel giorno. 

E Pepe fu liberato… lo vollero Presidente quanti avevano atteso con lui il ritorno della libertà fresca e grondante come una pioggia purificatrice…

E salì le scale del Palazzo di Montevideo. Ma poi se ne tornò nella sua masseria dove serviva poco per vivere, e dove c’era tutto per essere felici. 

Esattamente come succedeva ai campesinos. 

E l’Uruguay tornò a respirare. 

E Pepe se ne tornò a vivere senza rabbia e rancore ma solo con la coerenza che lo aveva abitato da sempre come un grande fiume, il  fiume della vita.

Solo dalla fine del mondo, dai luoghi del colonnello Buendia e del comandante Mujica, campesino, guerrigliero, Presidente,  poteva arrivare quell’insegnamento. 

Vivere in armonia con la natura e in simbiosi con  la comunità che ti ha generato cercando la libertà come l’aria da respirare e la compassione come la via della salvezza.

E allora ti rendi conto che non serve accumulare ricchezza sino ad impoverire i tuoi simili e distruggere il pianeta.

Non si tratta di essere “pauperisti” diceva Pepe, ma di avere il senso della misura e del limite, nella vita, nei rapporti con gli altri, nella produzione e nei consumi. 

Allorché i nuovi potenti avranno raccattato tutto l’oro del mondo, cosa se ne faranno se non ci sarà più nessuno intorno a loro? 

Come Creso arriveranno alla disperazione e moriranno di fame o se ne partiranno per Marte. Ma quella partenza sarà  la loro più grande sconfitta ed allora un vento furioso si solleverà come a Macondo. Ma sarà  un vento senza poesia e senza compassione … e non sarà la terra a volarsene sino a sparire ma l’umanità intera, distrutta dall’ingordigia di pochi.

C’è un fantasma che si aggira tra gli uomini contemporanei, ne era convinto Pepe come ne  era convinto Buendia… é la violenza figlia dell’ingordigia e schiava del potere che tutto può  distruggere. 

E contrapposto ad esso, come un potente antidoto l’insegnamento della coerenza di Pepe e della determinazione di Buendia. 

La coerenza non solo davanti alla prigione ed alle torture ma anche davanti alla  vittoria ed al potere, e la determinazione anche davanti alle sconfitte.

Non si tratta di sposare le teorie pauperiste. Non si tratta di rifiutare la modernità. 

Non si tratta di spingere verso una inutile palingenesi fuori dal tempo.

Si tratta di ripristinare il senso del limite e della misura nelle azioni degli uomini, delle nazioni e di orientare la produzione della ricchezza in un orizzonte che comprenda l’Umanità perché l’Umanità intera possa beneficiarne.

É una lezione impossibile da mandare a memoria? 

É una lezione necessaria, piuttosto.

L’alternativa sarà un vento di tempesta saturo di polveri irrespirabili se non di scorie nucleari e di particelle radioattive che seccherà la terra e che spazzerà via la comunità umana proprio come Macondo. Ma senza poesia questa volta, e senza compassione.

Antonio Corvino

Antonio Corvino, di origini pugliesi, napoletano di formazione è un saggista ed economista di lungo corso, di cultura classica, specializzato in scenari macro economici ed economia dei territori. 

Direttore generale dell’Osservatorio di Economia e Finanza, specializzato nell’analisi dell’economia del mezzogiorno e del Mediterraneo oltre che nella costruzione degli scenari macroeconomici in cui Mezzogiorno e Mediterraneo sono inseriti.

In tale veste ha organizzato dal 2011 al 2015 il “Sorrento Meeting” che ha affrontato, grazie al concorso di intellettuali, studiosi, rappresentanti economici e politici, controcorrente, dell’intero Mediterraneo e di altri Paesi asiatici ed americani, con largo anticipo e visioni non scontate, le questioni esplose in maniera virulenta, negli anni più recenti: dai nodi gordiani del sottosviluppo alle migrazioni, dai giovani nuovi argonauti in cerca del futuro da qualche parte, all’effetto macigno dell’Euro sull’economia  Mediterranea ed al negativo condizionamento del paradigma  nord-atlantico  su di essa,  dall’energia alla logistica, al destino del Mediterraneo che ahimè appare sempre più  compromesso.

Già Direttore nel Sistema Confindustria ha ricoperto diversi incarichi a livello nazionale, regionale e, da ultimo, anche a livello territoriale.

Appassionato delle antiche vie nelle “terre di mezzo” ha percorso numerosi  cammini nel cuore del Mezzogiorno continentale coprendo oltre 1500 chilometri e traendone una serie di appunti di viaggio che han dato vita a diversi volumi  e romanzi di cui “Cammini a Sud”  è il primo ad essere stato pubblicato.

Nel 2024 a dicembre esce il suo secondo romanzo di viaggio questa volta dedicato a Partenope. “L’altra faccia di Partenope” edito da Rubbettino racconta il viaggio pieno di peregrinazioni reali e immaginifiche dell’autore-narratore tra i misteri ed i miracoli che avvolgono i luoghi e la dimensione della napoletanità che, dal canto suo, riflette la nostalgia e rivela il bisogno del ritorno ai valori primordiali dell’esistenza.

Cultore di arte ha frequentato molti artisti, talora legandosi di profonda amicizia con essi. E’ il caso di Pino Settanni, scomparso nel 2010, artista e fotografo di straordinaria sensibilità e levatura, presente nei musei internazionali, il cui archivio è stato acquisito dall’Istituto Luce-Cinecittà.

Dedito da sempre alla scrittura, questa è divenuta da ultimo la sua principale occupazione, spaziando dal romanzo di introspezione intima e personale sino all’ osservazione lucida quanto preoccupata delle derive antropologiche destinate a scivolare verso una visione distopica che solo nella memoria può trovare l’antidoto.

Nel dicembre 2019 ha curato per Rubbettino il volume “Mezzogiorno in Progress”. Un volume-summa sulla questione del Sud cui hanno collaborato trenta tra studiosi economisti ed intellettuali e trenta imprenditori fuori dagli schemi.

Sin dalla più giovane età ha collaborato con riviste di economia, tra cui “Nord e Sud” che annoverava, essendo egli un giovane apprendista, le migliori menti del Mezzogiorno. Ha collaborato, in qualità di esperto opinionista, con diversi quotidiani meridionali.  Tuttora scrive su riviste specializzate in scenari economici e problematiche dello sviluppo. 

Da ultimo, per l’Università Partenope, il CEHAM, e l’Ordine dei biologi, ha realizzato un corso monografico video sul Mediterraneo della durata di 15 ore destinato ad un master.

Sulla rivista Bio’s, Organo dell’Ordine nazionale dei Biologi, ha pubblicato tre saggi sulle prospettive del Mediterraneo alla luce dell’implosione della globalizzazione, indicando un nuovo paradigma policentrico dello sviluppo e proponendo la suggestione del Mediterraneo come Continente; nell’ultimo saggio si è soffermato sul ruolo del Mediterraneo nella crisi alimentare ipotizzando il ritorno della agricoltura familiare e del recupero della biodiversità quali strade maestre per una nuova visione di sviluppo legata alla valorizzazione dei territori e della agricoltura meridionale. 

Sulla rivista Politica Meridionalista ha pubblicato e continua a pubblicare numerosi saggi sul Mezzogiorno indicando i Cammini e le Terre di Mezzo quali orizzonti per combattere lo spopolamento e l’abbandono dei territori interni. 

Cristina Peri Rossi: “Il museo degli sforzi inutili” (Edizioni SUR, 2025), di Rita Mele

“La vita è un puzzle di tanti pezzi, sparsi. E noi, gli ingegneri, cerchiamo di selezionarne alcuni, di configurare un significato, una struttura, una forma di senso. Con gli indizi che propongo, se il lettore è interessato, si può mettere insieme una presunta biografia. Sono nata a Montevideo, in Uruguay, il 12 novembre 1941 (La città di Luzbel). Ero una bambina curiosa, che credeva che la conoscenza fosse potere, e decise di indagare, da sola, tutto ciò che è umano e divino (La ribellione dei bambini, Il pomeriggio del dinosauro). In seno alla mia famiglia (emigranti italiani arrivati nella Terra Promessa, oltre il Sud) ho imparato molto sulle passioni e sulle delusioni: una famiglia è un microcosmo (Il libro dei miei cugini). Ho studiato musica e biologia, ma mi sono laureata in Letterature comparate: la fantasia mi sembrava un territorio più affascinante di quello delle leggi fisiche. Ero romantica prima di sapere cosa fosse il Romanticismo; amavo le rovine, i giorni di pioggia, le passioni morbose, l’intensità. Quando ero piccola, i miei zii mi portavano al porto a vedere le navi salpare. Mi innamorai di quelle balene bianche, senza sapere che un giorno, all’età di ventinove anni, una nave italiana (perfetta geometria di origine e di esito) mi avrebbe portato in esilio, in Spagna. L’esilio è stata un’esperienza lunga, dolorosa, totalizzante, che non cambierei con nessun’altra… Il mio paesaggio preferito: l’Europa dopo la pioggia…I prossimi paesaggi saranno nuovi.” (tratto dal catalogo della mostra Cristina Peri Rossi: La nave dei desideri e delle parole. Omaggio al  Premio Cervantes 2021,  organizzata dal Ministero della Cultura e dello Sport spagnolo e dall’Università di Alcalá).

Come poter rinunciare a questo panoramico puzzle della vita di Cristina Peri Rossi? Perché cercare altre parole se già da queste si sprigionano gli umori poetici e letterari di una scrittrice che, per nostra fortuna, viene riportata in Italia dalla casa editrice SUR, dopo 28 anni dalla prima traduzione italiana, curata già da Vittoria Spada per Einaudi. Nel 1983, a 42 anni, Cristina Peri Rossi ha scritto El museo de los sfuerzos inutiles pubblicato in Spagna, a Barcellona, la città da lei scelta nel 1972 per il suo esilio volontario, dove ancora oggi, a 84 anni, vive continuando a considerare la letteratura, la sua patria. Bisnonni genovesi emigrati a Montevideo, è figlia di Ambrosio Peri, operaio in una azienda tessile, che muore quando lei è bambina e Julieta Rossi, maestra. Da gennaio 2025, Il museo degli sforzi inutili, edito nella Collezione SUR, per chi non lo avesse letto in lingua originale o tradotto, ci dà una seconda chance di visitarlo e immergersi nelle atmosfere sospese scolpite da parole taglienti come una lametta Gillette e lenite dal balsamo di altrettante parole umoristiche, oniriche, ironiche, allegoriche, malinconiche e passionali. Trenta racconti in centosessantanove pagine, rappresentano una preziosa occasione per i lettori randagi che invitiamo a scoprire o ritrovare la spiazzante contemporaneità di una scrittrice più che mai in risonanza con le ambiguità, le paure, le insidie, i sogni, i troppo vuoti e i troppo pieni delle nostre esistenze. Non tutto è come sembra ci dicono i personaggi dei racconti di Peri Rossi, ognuno di loro mostra e allo stesso tempo nasconde e ci sollecita, per questo, a scoprirlo, indagarlo, osservarlo, proprio come quando, visitando un museo, tra gli strati e la giustapposizione di oggetti, scorgiamo il senso o il non senso delle storie che sembrano raccontare e che, a ben guardare, sono forse le nostre. Storie pennellate e delicate al limite del metafisico o surreale, giochi di trasparenze che sembrano offuscarsi bruscamente in epiloghi che ci interrogano. Osando chiedere un prestito letterario e cinematografico, con i dovuti distinguo, è alla raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti del napoletano Gianbattista Basile e al film Il Racconto dei racconti del regista Matteo Garrone che accosterei la tensione costante, fantastica e irrisolta dei racconti di Caterina Peri Rossi. Anche lei, come loro, ne fa una questione puntuale di stile, di lingua, di sguardo, di immaginario avvicinandosi alla struttura della fiaba senza per questo arrivare a toccare tutte le parti, e non sempre in sequenza ordinata, della Morfologia della fiaba del linguista russo Propp (Equilibrio introduttivo, Rottura dell’equilibrio iniziale, Azioni dell’eroe, Ristabilimento dell’equilibrio). Peri Rossi ci offre la sua versione del meraviglioso anche quando arriva allo scacco finale delle storie o da quello parte per sorprendenti ribaltamenti. Il racconto è stato sin dall’inizio della sua esperienza giovanile di scrittrice, uno dei suoi generi preferiti, pur tornando spesso al romanzo senza scadere, come afferma in alcune interviste, all’eccesso di romanticismo, da cui si ritiene indenne per la sapiente alchimia di ironia, umorismo e tenerezza. Pragmatica e sognatrice allo stesso tempo, proprio come l’autrice stessa descrive Barcellona, la sua città adottiva; ossessiva quanto basta per preservare la pulsione e non l’oggetto della passione, come ha dichiarato a proposito della sua passione per l’esilio, scelto a ventidue anni per sfuggire alla dittatura uruguaiana, sostituito con un’altra dittatura, quella dell’amore.

Prima di partire per l’autoesilio, a Montevideo, aveva pubblicato due racconti, un romanzo e una raccolta di poesie erotiche, Evohé, che aveva scandalizzato la pudica società uruguaiana al punto che la dittatura la proibì. Da allora Montevideo è stata cancellata dalle sue geografie. Oggi, superati gli ottanta, Caterina Peri Rossi sta vivendo una rinascita nella sua carriera e non solo da noi in Italia: nel 2014, Estuario Editora ha iniziato a recuperare le sue opere in Uruguay e a pubblicare anche le sue nuove opere, come il romanzo Todo lo que no te pude decir (Tutto quello che non potrei dirti) e la sua autobiografia romanzata La Insumisa (L’Insumisa). Persino Evohé, proibito e praticamente introvabile, è stato ripubblicato nel 2021 sempre da Estuario, e la copertina è stata riprodotta con il nome dell’autrice sulle t-shirt. Il culmine della rinascita sulla scena letteraria internazionale è stato il Premio Cervantes ricevuto da Peri Rossi a 80 anni nel 2021, diventando la terza scrittrice uruguaiana onorata di tale riconoscimento. A causa di un broncospasmo, non ha partecipato alla cerimonia di premiazione, ma ha inviato un discorso scritto letto dall’attrice argentina Cecilia Roth. La giuria del Premio Cervantes ha riconosciuto “la carriera di una delle grandi figure letterarie del nostro tempo e la statura di una scrittrice capace di esprimere il suo talento in una varietà di generi”. Il Cervantes non è bastato a farla tornare fisicamente in Uruguay, ma in compenso Cita en Montevideo, un bellissimo libro-oggetto recentemente pubblicato, che raccoglie testi, foto e altri documenti esclusivi in una prima versione dattiloscritta e annotata, simboleggia il ritorno della scrittrice sulla scena letteraria e, guarda caso, in concomitanza con le celebrazioni del 300° anniversario della capitale del Paese. Perché scegliere di leggere oggi Peri Rossi? E perché cominciare dalla sua raccolta dei 30 racconti brevi e brevissimi che prende il titolo dal primo, appunto, Il museo degli sforzi inutili, parodia di glorie passate dedicato ai perdenti che hanno seguito invano piccole e grandi passioni e sberleffo ai codici di condotta e alla disapprovazione sociale dell’ozio e dei fallimenti? 

Proviamo ad elencare alcuni dei buoni motivi per avvicinare una delle scrittrici dallo stile e dalla storia più personali della letteratura ispanoamericana: originalità, stile narrativo e poetico inconfondibile e anticonvenzionale, scrittura acuta, ritmica e profonda che scolpisce i suoi personaggi, sensibilità fine per i temi universali come la solitudine, l’amore e il desiderio, il potere e la repressione culturale della libertà individuale, onestà e sguardo critico sulla realtà, prosa intrigante, profonda e anche inquietante, amore per le parole al di là delle lingue. Non ultimo, fare ricadere la scelta su una raccolta di racconti così densa, sorprendente, stimolante e breve allo stesso tempo come questa, può rappresentare un modello letterario e un formato di libro adatto a farci disintossicare dalla dipendenza da post e a rieducarci agli stimoli e all’attenzione verso storie di vita che sono anche le nostre e che possono ancora farci meravigliare. Scrollare quotidianamente migliaia di contenuti sui social media sovraccaricando il nostro cervello e anestetizzandolo causa perdita di attenzione e desensibilizzazione agli stimoli e fa saltare i circuiti della dopamina sino ad avere bisogno di stimoli sempre più forti. L’antidoto all’era della distrazione può essere proprio un libro come questo e la scrittrice ne sarebbe fiera, dal momento che qualche anno fa, quando la sua attività pubblicistica era più pressante, si è espressa con forte vena critica nei confronti della nostra dipendenza dalla tecnologia, in particolare dal telefono cellulare. Cristina Peri Rossi, con il suo stile tagliente e la sua capacità di osservazione acuta, ha così fotografato una realtà contemporanea in cui la connessione virtuale sembra spesso prevalere su quella umana e reale: “Il telefonino è come l’orecchio del sordo: lo inserisci nell’orecchio e non lo togli più, a volte neanche quando dormi (conosco persone che non spengono il cellulare neanche quando fanno l’amore – i pochi, rapidissimi momenti in cui riescono a farlo). 

L’abbiamo visto in un laccato film americano: il protagonista lavora per una multinazionale molto importante, giace con una bellissima donna in un hotel naturalmente lussuoso, e al momento di scoccare un bacio sulla bocca della diva, il cellulare squilla, l’affare è urgente, la donna aspetta con pazienza, l’amore dura una manciata di minuti, poi il ragazzo si allaccia i pantaloni, perché c’è sempre qualcosa di meglio da fare, soldi, ad esempio.”

Accogliamo dunque il monito della Peri Rossi e leggiamo Il museo degli sforzi inutili per contrastare la perdita di contatto con le emozioni autentiche e le relazioni umane significative, affinché non tutti gli sforzi diventino inutili e, leggendo oltre i social, si torni a prendersi cura ‘della fugace memoria dei vivi’

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare