Kazimierz Sakowicz: “Diario di Ponary” (a cura di Gigliola Bettelle – Mimesis), di Gigi Agnano

In “Anime baltiche“, Jan Brokken ricorda le vicende che portarono al ritiro dei sovietici da Vilnius il 22 giugno 1941 e l’entrata dei nazisti in città tre giorni dopo. Con l’arrivo dei tedeschi, la già precaria situazione per gli ebrei – circa centomila in quella che veniva chiamata “la Gerusalemme del nord” – si trasformò in una tragedia definitiva.

Il “Diario di Ponary“, scritto da Kazimierz Sakowicz dall’estate del 1941 al novembre del ’43, è una testimonianza diretta unica sugli orrori perpetrati dai nazisti nella foresta di Ponary, circa dieci chilometri a sud di Vilnius. In quel luogo, si stima siano state uccise circa 60.000 persone, principalmente ebrei lituani, ma anche polacchi e prigionieri sovietici.

Le vittime venivano portate a Ponary (Paneriai in lituano), allineate e fucilate ai bordi di grandi fossati che i sovietici avevano scavato per lo stoccaggio del carburante prima dell’arrivo dei tedeschi. I corpi cadevano nella fossa e se qualcuno mostrava segni di vita, veniva finito con un altro colpo.

Kazimierz Sakowicz, giornalista polacco, si ritrovò ad assistere a queste esecuzioni dalla soffitta di casa sua, una villetta tra i boschi affacciata proprio sul luogo dei massacri. Decise di assumersi il rischio e la responsabilità di documentare quotidianamente ciò che vedeva, scrivendo su foglietti che nascondeva in bottiglie di limonata, sigillate e sotterrate, forse con la speranza che qualcuno le avrebbe trovate dopo la guerra.

L’assemblaggio di questi appunti ci consegna un resoconto agghiacciante. Le SS, assistite da collaborazionisti lituani, spesso ubriachi, sparavano a uomini, donne, anziani e bambini, generalmente nudi, dopo averli brutalizzati. I più piccoli venivano uccisi con il calcio del fucile tra le grida disperate delle madri, mentre per gli adulti c’era installato un trampolino per colpirli mentre rimbalzavano. Chi tentava la fuga era oggetto di una caccia dagli esiti scontati e finiva ucciso nei campi circostanti. A fine giornata, l’ultimo gruppo di ebrei, prima di essere fucilato, ricopriva di sabbia i cadaveri accatastati. La puzza era insopportabile, enormi nuvole di mosche infestavano i corpi e iniziò a circolare la voce che l’acqua nelle case fosse contaminata dal sangue dei morti. Si sviluppò un commercio vivace degli abiti delle vittime, lasciati ai collaborazionisti lituani per essere rivenduti alla popolazione locale, laddove i tedeschi, naturalmente, trattenevano il denaro e i beni più preziosi. Ma se “per i tedeschi, 300 ebrei rappresentavano 300 nemici dell’umanità; per i lituani, invece, erano 300 paia di scarpe e pantaloni“.

Le annotazioni di Sakowicz, per quanto dettagliate e precise, sono scarne e prive di qualsiasi coinvolgimento emotivo. È proprio questa freddezza, quasi burocratica, che amplifica l’orrore e la potenza del suo racconto. Un esempio emblematico di questo distacco è il seguente brano:

11 agosto 1941

L’automobile targata NV-370 portava due divertite “signore” (dames) in compagnia di un certo “gentiluomo”: facevano una gita di un giorno per vedere le esecuzioni. Dopo le esecuzioni erano di ritorno; non ho visto tristezza sui loro visi.”

Sakowicz fu ucciso in circostanze poco chiare il 5 luglio 1944 mentre andava in bicicletta da Vilnius a Ponary. L’ultimo documento ritrovato risale al novembre del 1943, ma probabilmente continuò a prendere appunti fino alla fine.

Himmler, nell’ottobre 1943, disse ai suoi ufficiali: “Questa è una pagina gloriosa della nostra storia, ma non sarà mai scritta.” Nel tentativo di cancellare ogni traccia, nell’aprile 1944 inviò a Ponary un Sonderkommando composto da detenuti ebrei per riesumare i cadaveri e bruciarli. Tuttavia, grazie alle cronache di Sakowicz e al lavoro di due sopravvissuti – Rachel Margolis e Yitzhak Arad, che introducono il libro – oggi abbiamo una testimonianza unica che documenta nei minimi dettagli le atrocità della macchina della morte nazista.

Il “Diario di Ponary” è uno dei resoconti più terrificanti dello sterminio degli ebrei che io abbia mai letto. Non solo ci costringe a confrontarci con i massacri del passato, ma ci offre anche una lezione fondamentale e attuale sui pericoli dei “nuovi” fascismi. Ancora oggi, in Lituania, gruppi neonazisti operano apertamente, organizzano marce in onore dei collaboratori dell’Olocausto, innalzano bandiere con la svastica e striscioni che incitano alla russofobia e all’antisemitismo, gridando “la Lituania ai lituani”. Il tutto nell’inquietante indifferenza dell’Unione Europea, di cui la Lituania fa parte dal 2004. 

Gigi Agnano

Intervista a Gianni Solla di Bianca Miraglia del Giudice

Da giugno è in tutte le librerie Il ladro di quaderni, il nuovo splendido romanzo di Gianni Solla, edito da Einaudi, che racconta la storia di Davide, un ragazzino che vive a Tora e Piccilli, un paese nel casertano, dove viene confinato dal regime fascista il coetaneo Nicolas, insieme al padre e altri trentaquattro ebrei, nel settembre del 1942. Grazie alle segrete lezioni del padre del nuovo arrivato, Davide impara a scrivere; in lui la ricerca della parola giusta e perfetta diventa necessaria e salvifica, come un faro sulla visione del suo possibile. Nato zoppo, costretto a vivere dal padre persino in un porcile, Nicolas ha nella giovane Teresa l’unica persona che lo difende e lo incoraggia. Raccontando con sensibilità e poesia gli anni di evoluzioni e cambiamenti, di allontanamenti e di ritorni dei tre protagonisti, fino alla chiusura di un ideale cerchio della vita, Gianni Solla ci fa emozionare profondamente fino alla commozione.
A Tora e Piccilli, anni fa, fu piantato un albero di ulivo per ricordare il coraggio col quale gli abitanti si adoperarono per la salvezza di decine di ebrei dalle deportazioni naziste; pochi giorni fa, l’Ulivo della Shoah, nel parco del paese casertano, è stato di notte vigliaccamente distrutto!
 
Qual è stata la genesi di questo romanzo? Il trasferimento dei trentasei ebrei napoletani a Tora e Piccilli, imposto dal regime fascista nel 1942, non era una vicenda molto nota; tu come l’hai scoperta?
La curiosità è il mio unico talento. In quel periodo facevo ricerche personali non finalizzate alla scrittura, anche se lo so che poi non è così, e quando ho letto di questa storia ho subito riconosciuto una vicenda che poteva essere raccontata con i miei strumenti, con la narrativa. Chi mi conosce sa che sono un bugiardo cronico, ma attraverso la bugia e la mistificazione, riesco a dire la verità.
 
In Tempesta Madre, edito da Einaudi, le parole descrivono i fatti; nel Ladro di quaderni, il significante si evolve e diventa elemento necessario per veicolare un significato, che permette al protagonista di affermare se stesso: penso Davide che definiva solitudine ciò che in realtà era indipendenza. Le parole sono ancora fondamentali oggi, in un’epoca di espressività digitale?
 
Credo che le parole siano e resteranno l’elemento primo del pensiero e della comunicazione. Quando penso, penso “parlando”, pronunciando cioè frasi a me stesso, esattamente quello che faccio quando scrivo. I miei due libri hanno molti elementi di
sovrapposizione ma per certi versi sono anche molto diversi. Quando mi avvicino a una storia nuova da scrivere, ho necessità di scoprire un nuovo continente, esiste una parte avventurosa alla quale non riesco a rinunciare. Oggi si scrive moltissimo, dai messaggi ai post sui social, le guerre generazionali sono sempre perse dalla retroguardia, e tutto sommato questi tempi sono per la parola di massimo splendore. Mai come in questi anni stiamo attenti a non ferirci usando parole sbagliate, addirittura siamo disposti a rivedere testi passati depurandoli da parole che oggi sarebbero offensive. Salviamo la parola, la morale, il decoro, ma perdiamo
l’arte e il significato.

Gli effetti della povertà educativa e l’analfabetismo di ritorno creano un popolo con un alto tasso d’ignoranza, volto al disinteresse verso la politica, alla paura del diverso, alla xenofobia; scrivi “Non sapevamo niente degli Ebrei, ma ci era stato detto che
dovevamo odiarli”; secondo te, l’omologazione e la povertà del linguaggio si riflettono anche sulla capacità di pensiero critico?

Sicuramente la povertà di linguaggio si riflette anche in una povertà di pensiero, magari non di sentimenti, ma dietro ogni parola esiste una possibilità di stare al mondo che se non conosciamo diventa inaccessibile. Forse le paure vengono da altri contesti, quella per gli stranieri è stata una grande propaganda della destra attualmente al potere, così come la riduzione di ogni diversità a un fatto minimo. Lo stesso stanno facendo con Ultima generazione e con chi si occupa di ecologia. Mi spaventano gli algoritmi dei social, il
processo per cui ti viene proposto solo quello che ti piace costringendoti a restare in un recinto piacevole. Preferisco il perturbante. 
 
La paura nasce dalla solitudine e dall’ignoranza; l’evoluzione legislativa contemporanea tende alla cancellazione dello studio della Storia, della Filosofia e dell’Arte dalle vite dei ragazzi, caratterizzati sempre più da rapporti d’amicizia solo virtuali. Il ladro di quaderni è un romanzo sulla crescita, sulla scoperta delle proprie emozioni e passioni, sulla rottura con un passato opprimente e
condizionante; secondo te, è più complesso oggi diventare adulti?

Credo che il passaggio della linea d’ombra sia stato sempre il più complesso possibile, solo che adesso, il passaggio più delicato accade sotto gli occhi di tutti, su un social network. È il momento in cui siamo più esposti. Diventiamo adulti in un flusso di comunicazione che non riusciamo a gestire. Prima accadeva all’interno della propria famiglia, quasi vergognandosene. Oggi sei un vincente o un perdente già a tredici anni. Per uno lento come me è un incubo.
 
Ami il teatro e il cinema? “Non essere nulla mi permetteva di poter recitare tutto”: assolutamente vero…
L’arte è una scatola di mattoncini Lego per costruire il mondo.

Come è nato il tuo amore per la lettura e qual è l’ultimo libro che hai letto? Sei d’accordo con chi afferma che la lettura è attività tipica di una personalità introversa?
Leggo e scrivo in maniera disordinata. Più che l’ultimo che ho letto, che cambia sempre, sono grato al primo, un Reader’s digest di mia madre, trovato in un mobile del soggiorno. Dei romanzi mi piacciono più le voci che le storie. Le frasi più dei paragrafi. Gli scrittori mi hanno salvato la vita, lo dico sempre, entravo in libreria, Feltrinelli a Ponte di Tappia, e mi aggiravo tra gli scaffali come se avessi la febbre. La febbre è rimasta. Da bambino ero introverso, adesso ho dato sfogo alla vanità che non sapevo di avere e tutto sommato vivo meglio.

Bianca Miraglia del Giudice