Intervista a Elisabetta Cametti di Cristina Marra

Elisabetta Cametti, autrice di thriller e da esperta di crime, volto televisivo di Mattino 5, non poteva non essere su Il randagio nel giorno dell’uscita del suo ultimo romanzo Una brava madre (Piemme) e non poteva non esserlo soprattutto perché la sua scrittura, libera e originale, affida agli animali ruoli di primo piano rendendoli alla pari dei protagonisti e presenze chiave per comprendere la trama e anche la psicologia dei personaggi. In Una brava madre, l’indagine si snocciola su due piani narrativi con da una parte la poliziotta Annalisa Spada che si occupa di un triplice omicidio e della figura complessa della tatuatrice Aria, e dall’altra la conduttrice del programma televisivo IN, Giorgia Morandi, che non molla la ricerca dell’editore Fabrizio Ravizza scomparso da giorni senza lasciare traccia. Cinque storie di donne e madri diventano il fulcro del romanzo che non risparmia rivelazioni e colpi di scena e che indaga all’interno delle famiglie di appartenenza dove si annida il male. Tutti gli animali del romanzo dai ricci, alla cagnolina Allibis, allo scoiattolo Dorian Gray, accompagnano il lettore con un fare randagio indispensabile per arrivare alla verità. 

Elisabetta, benvenuta su Il Randagio. La cronaca di questi giorni ci mette di fronte a casi di madri che perdono i figli, di madri uccise col figlio in grembo, di madri che lasciano morire o uccidono i figli. Quanto è complesso e doloroso raccontare queste figure in tv e soprattutto in modo più intimo in un romanzo?

Sono storie e immagini che non mi abbandoneranno mai. Scavano dentro e lì rimangono, per sempre. Penso che l’unico modo per conviverci, senza lasciarsi devastare da tanto orrore, sia quello di raccontarle con precisione e lucidità. Per sensibilizzare l’opinione pubblica, per aprire gli occhi a chi potrebbe trovarsi nella stessa situazione, per cercare di dare un piccolo contributo alle indagini. Per continuare a ricordare le vittime e i sogni che illuminavano i loro pensieri.

Il doppio ricorre nel romanzo già dai casi, la scomparsa di un giovane facoltoso e una serie di omicidi.

La narrazione si svolge su due piani paralleli. Giorgia Morandi, conduttrice televisiva del programma che ha colmato il vuoto istituzionale in tema di persone scomparsa, si occupa del mistero che riguarda Fabrizio Ravizza, un editore di successo svanito senza lasciare traccia. Annalisa Spada, capo della Squadra Mobile di Milano, investiga sull’omicidio di tre uomini legati a una giovane tatuatrice, Aria. Una ragazza con evidenti disturbi della personalità, arrestata sulla scena di uno dei crimini e sospettata di essere “la serial killer dell’inchiostro”.

Due casi distinti, ma solo all’apparenza. Due strade lastricate di bugie, tradimenti e verità inconfessabili. Un unico segreto, taciuto per oltre trentacinque anni.

Infarcisci il romanzo di fatti di cronaca reali e li leghi alla storia di fiction. Come convivono finzione e realtà?

Quando si parla di crime, non esiste fantasia più sconvolgente della realtà.

Trascorro le giornate a studiare casi di cronaca: scene del crimine, autopsie, piste investigative e profili psicologici dei protagonisti. Scrivo romanzi per raccontare quelle storie, per farle entrare nelle case con l’obiettivo di rendere consapevole il lettore. Consapevole di quanto il male possa essere vicino, subdolo, letale. Solo chi conosce riesce a percepire, sospettare. Prevenire. Alcune volte, nelle esperienze degli altri riusciamo a trovare noi stessi… e a metterci in salvo.

Allibis, la cagnolina di Giorgia, è la sua complice? Gli animali nei tuoi romanzi non mancano mai. Sono esempi da seguire?

Per Giorgia, Allibis non è solo una cagnolina. È una figlia. Come lo sono i tre gatti che ha salvato da un futuro infausto. Allibis dimostra a Giorgia un amore incondizionato. Spontaneo. Tanto da buttarsi contro l’assassino per prendersi una pallottola. In ogni mio romanzo le protagoniste sono sempre accompagnate da un animale domestico. Amo gli animali e sono convinta che sappiano renderci migliori.

Oltre a Giorgia e Annalisa ci sono Sveva, Brigitta, Aria. Donne diverse in tutto, hanno qualcosa in comune?

No.

Rapita da neonata, Aria è cresciuta con una madre che la considerava una bambola e con un padre che abusava di lei. Per inseguire un vano sogno di libertà, si è rifugiata nel disegno. I tatuaggi sono il suo modo di rendere indelebili i brevi attimi di felicità.

Brigitta è animata dall’odio verso la donna che ha tradito suo padre, fino a spingerlo al suicidio. Ha rinunciato a vivere per dedicarsi alla vendetta.

Sveva è una narcisista, focalizzata su se stessa. Non prova empatia né senso di colpa, non sa capire gli stati d’animo degli altri e usa le relazioni solo per obiettivi personali. È abituata a mentire e a manipolare le persone, tanto da avere reso la propria vita una terribile menzogna.

Vita e morte si rincorrono nel romanzo. A un certo punto scrivi: “Quanta vita c’è dentro un suicidio?”. Si sceglie di morire per quale motivo?

Il suicidio tracima di voglia di vivere. Solo chi ama follemente la vita decide di togliersela quando si rende conto che la vita che sta vivendo non è all’altezza di quella che vorrebbe. E che dovrebbe essere. Solo chi ama la vita non accetta di sopravvivere, di essere appeso a una possibilità, di piegarsi al destino, di rimanere ad aspettare una nuova alba nella speranza che sia migliore di tutti i tramonti sfumati. Chi si spoglia della vita lo fa per rispetto all’idea che ha della vita stessa.

«Non è il dolore che ti porta a farla finita, ma la felicità che non brucia più. Non sono gli incubi, ma l’assenza di sogni. Non è sentirsi soli, ma non avere voglia di condividere i pensieri più inconsci. Non è scarso coraggio, ma troppo coraggio per potere rassegnarsi. E per capire il suicidio bisogna capire che il problema non sta solo in ciò che manca, ma nel peso che non ti abbandona. Non è la mancanza di progetti, ma la presenza di progetti troppo ambiziosi. Non è mancanza di fiducia, ma consapevolezza. Non è la mancanza di voglia di lottare, ma la visione di dove condurrà la battaglia. Non è mancanza di sentimenti, ma un amore immenso. Alcune volte sei talmente innamorato che le sensazioni ti colpiscono come un uragano. Vedi talmente lontano che l’unico balsamo è spegnere la luce. Sai ascoltare talmente in profondità da comprende quanto sia arrogante vivere. Mentre morire è l’umiltà della coscienza.»

I libri annullano il concetto di tempo, nei libri troviamo sempre una risposta?

Ne sono convinta. Le storie degli altri parlano di noi. È grazie ai romanzi che ci rendiamo conto di non essere soli nelle nostre riflessioni. Non siamo i primi a soffrire, né gli ultimi a lottare: la disperazione che ci tormenta ha già mietuto vittime e continuerà a farlo, così come continuerà a salvarci quella spinta alla sopravvivenza che definiamo speranza. Nulla si inventa in fatto di emozioni. Per scoprire chi siamo è sufficiente aprire un libro.

Cristina Marra

La ballata del piccolo rimorchiatore di Iosif Brodskij (Adelphi) di Cristina Marra

Eccomi, questo sono io si presenta così il protagonista di La ballata del piccolo rimorchiatore unica opera in versi pubblicata da Iosif Brodskij in Unione Sovietica prima di essere esiliato nel 1972 .

Il grande poeta russo premio Nobel per la letteratura nel 1987, accusato di “parassitismo”, dopo diciotto mesi di lavori forzati emigra a New York dove resta fino alla sua morte nel 1996. Per Brodskij la “poesia esisterà sempre. Possono trascorrere anni e anni di campi di concentramento senza che accada nulla, senza che un buon verso veda la luce, poi una notte un poeta è assalito dalla disperazione e nasce così una grande poesia” e con questa Ballata racconta una storia di solidarietà, accoglienza e dedizione che non ha età e che nella potenza dei suoi versi è di un’attualità disarmante.

La Ballata è pubblicata da Adelphi nella collana di illustrati per ragazzi con disegni di Igor Olejnikov e traduzione di Serena Vitale.

Il protagonista è Anteo, un piccolo rimorchiatore, il suo è un mestiere ripetitivo e faticoso, è utile alle grandi imbarcazioni che arrivano nel porto dopo lunghi viaggi. Anteo le accoglie, dà loro il benvenuto, hanno bisogno di riprendere fiato, di riposare al riparo, la solitudine del lungo periodo per mare deve essere ripagata e tutto in compagnia diventa più lieto.

Niente a che fare con l’Anteo mitologico e gigantesco figlio di Gea, quello di Brodskij è un piccolo ma grande eroe che esprime la sua forza nella volontà di accogliere e aiutare. Tra cielo e il fumo delle ciminiere, Anteo è un rimorchiatore instancabile che porta a bordo il suo comandante, i macchinisti e la cuoca, e si lascia andare ai sogni e all’incanto delle nuvole che lo riportano nei luoghi della sua infanzia. Anteo di buon mattino vestito di nebbia dalla testa ai piedi va incontro alle navi che lo attendono e provengono da mari lontani con a bordo stranieri affaticati, ben arrivati, amici!. Con semplicità e abnegazione, il rimorchiatore lavora e vive quotidianamente la sua missione dimenticando  chi è sempre di corsa, in affanno e chiede alle navi che salpano di portare all’oceano natìo i suoi saluti, lui non può raggiungerlo, deve restare lì dove gli altri hanno bisogno fino al giorno in cui farà rotta verso un sogno beato.    

Cristina Marra

Olga Tokarczuk e il grande viaggio di Jakub di Gigi Agnano

Secondo la Kabbalah medievale spagnola «Dio creò le lettere dell’alfabeto, perché avessimo la possibilità di raccontargli la Sua creazione». 

Pubblicato finalmente in Italia da Bompiani a settembre di quest’anno  (il libro è uscito in Polonia nel 2014), il romanzo di Olga Tokarczuk, premio Nobel per la Letteratura del 2018, ha molti aspetti che lo rendono speciale, a cominciare dalle dimensioni imponenti, 1114 pagine con la numerazione invertita quale omaggio all’uso ebraico. Speciale anche per la tematica di cui s’interessa: una setta di eretici ebrei, i frankisti, che professarono, a metà del Settecento, la pratica degli “Atti contrari” alla religione ufficiale – tra cui l’incesto, la sodomia, la poligamia, mangiare cibi non kosher, ecc… -, con lo scopo di degradare l’umanità e “stimolare” la venuta del Messia.

In particolare, l’autrice racconta, attraverso vari narratori, le vicende di Jakub Joseph Frank (1726-1791), nato in Podolia (attuale Ucraina Occidentale, all’epoca Regno di Polonia), sorprendente e scandaloso mistico nomade anti-talmudista, che fu considerato il Lutero del mondo ebraico e che, dopo essersi dichiarato Messia e aver trascorso 13 anni di carcere per eresia sovversiva, una volta libero, guidò la sua comunità di adepti tra l’Europa Centrale e la Turchia.

Un “romanzo storico sorretto dall’immaginazione”, ricco, erudito, che è costato all’autrice un impegno folle di otto anni di lavoro e di ricerche; un’epopea messianica, a tratti donchisciottesca, capace d’immergere il lettore in quel mondo particolarmente variegato per lingue e culture dell’Europa centrale di metà XVIII secolo, investita dal vento della filosofia illuminista. Di pagina in pagina, se da un lato si sprofonda nelle tragedie del tempo, le guerre, i pogrom, dall’altro si gode dello sfarzo e dell’allegria dei matrimoni di paese, delle descrizioni pittoriche di vecchi e bambini, delle atmosfere di mercati esotici, degli odori delle cucine e dei sapori della selvaggina esposta come in una natura morta.

Un romanzo “vagabondo” (per riprendere il titolo del libro più famoso della Tokarczuk), on the road, che ci porta attraverso strade solitarie e polverose di Ucraina, Polonia, Turchia, Grecia,  Romania, Germania, tra l’Impero Ottomano e l’Asburgico; o per vicoli di grandi città come Smirne, Leopoli, Varsavia, Vienna, o di piccole come Brunn ( la Brno di oggi), Czestochowa, Rohatyn, Busk, Lanckorun, Podhajce, Glinna, Miedzyboz. Dove il cammino è fatica, peripezie, scoperta di luoghi inesplorati, ma anche metafora del diffondersi e dell’avanzare di nuove idee, del passaggio da una vecchia era ad una nuova. Romanzo-esperanto, dove si incontrano e s’intendono il polacco e il rumeno, il tedesco e il ladino o il turco.

Un romanzo-fiume realista ma intriso di magia, sospeso tra storia e finzione, tra letteratura e ricerca mistica; arduo per ampiezza e per i riferimenti alla tradizione yiddish o all’esegesi di testi come il il Talmud, lo Zohar («Libro dello Splendore»), l’Antico Testamento, la Cabala; ma affascinante e originale nella sua capacità di generare riflessioni, dilemmi sull’origine del mondo, sulla genesi del bene e del male, sull’intolleranza e i massacri e le modalità con le quali si sopprimeva e si tende ancora oggi a sopprimere ogni forma di “deviazione”, su come si possano creare in una società le condizioni per l’avvento di nuovi messia.

Un romanzo, che, per quanto stia provando in questi righi a inquadrare in un genere, è difficile anche da riassumere per la complessità della trama e per la quantità dei personaggi coinvolti, figuriamoci se si lascia ingabbiare in un registro letterario!

Un romanzo, infine, che non si fa fatica a considerare come uno dei colossi letterari più sconvolgenti e maturi di questo secolo, per la lingua estremamente poetica, per la ricchezza espressiva e per la capacità di portare in alto e arricchire il lettore dal punto di vista intellettuale, spirituale e letterario.

Gigi Agnano

Vincenzo Mollica, l’amico del cuore di Paolo Di Giannantonio

A fine settembre ero, con gli amici con cui condivido una avventura teatrale sui Bronzi di Riace, a Bergamo. Reduci da una serata al Vittoriale degli Italiani (che emozione!) e in procinto di performare a Bergamo, ci siamo ritagliati uno scampolo di mattinata per andare su in montagna a Bratto, per una missione di alto valore amicale. Siamo, infatti, andati a trovare il mio collega ma soprattutto amico del cuore Vincenzo Mollica, che da quelle parti passa diversi mesi l’anno sempre in compagnia e in simbiosi con sua moglie, l’ineguagliabile Rosamaria. Io a Vincenzo voglio veramente bene. Perché abbiamo lavorato per 40 anni al Tg1 e perché è un uomo di raro spessore umano. Generoso, cortese, leale, buono. Per non farne un santo aggiungo anche – da buon calabrese – molto permaloso, ma appena un pochino meno di me. Con lui ho condiviso molte ore non solo in redazione ma anche fuori. Epiche cene con Enrico Mentana, Clemente Mimun, Giampiero Galeazzi e tanti altri amici e colleghi. Un po’ gelosi – devo ammetterlo – eravamo di Federico Fellini: spesso la sera, ma molto presto, Vincenzo andava a cena con lui. Poi, però, ci raggiungeva e non di rado qualche cosa ancora la mangiava. Facevamo le quattro del mattino a parlare di giornalismo, televisione, fatti nostri ma anche e molto di cinema, musica e cartoons. E qui gli altri tacevano perché parlava Mollica. Perché in questo lui è inimitabile, nel mescolare i generi, nel rilanciare tutto in una dimensione di creatività e fantasia ben riscontrabile in alcuni dei suoi libri. Tanto per citarne alcuni: Fellini, Pratt e Corto. Storie di disegni e Milo Manara. Dai Borgia ai pittori del Novecento.  

Mi ha colpito di lui la simpatia e l’amicizia con cui i grandi del cinema e della musica lo hanno avvicinato. Non sto a ricordare Paolo Conte, Francesco De Gregori e Renato Zero. Oppure Roberto Benigni e Sophia Loren. D’altronde Vincenzo di loro ha scritto nel volume “L’Italia agli Oscar, racconto di un cronista”, che ha firmato con l’amico Steve Della Casa.

Altra sua caratteristica è la memoria: ricorda tutto, è impressionante. Negli ultimi tempi, quando gli occhi lo stavano abbandonando, riusciva a “sonorizzare” i servizi per il telegiornale basandosi non più sullo scritto ma sulla memoria. Oggi vede e segue il mondo con gli occhi dell’anima e con l’aiuto di Rosamaria. 

E durante la mattinata di Bratto, Fulvio Cama, il nostro amico cantautore, gli ha dedicato una canzone tratta da “Caos” dei Fratelli Taviani. Vincenzo, naturalmente, la ricordava, sapeva che l’aveva musicata Nicola Piovani, suo grande amico, e sapeva che era stata eseguita anche nel corso di un concerto con la presenza di Vincenzo Cerami.

Vincenzo Mollica nei primi anni al Tg1 si occupava sì di cinema, affiancando il leggendario Lello Bersani, ma era incardinato alla Redazione Esteri, dov’ero anche io. Quando mi capitò di seguire la Seconda Guerra del Golfo rimasi sette mesi in Arabia Saudita. Avevo bisogno, tra l’altro, di sapere come quei fatti venivano raccontati dai giornali italiani. E lui, che al mattino arrivava prestissimo, con rara disponibilità mi faceva la rassegna stampa. Come non essergli grato? 

Gli dico che è come una rockstar: lo cercano tutti. Lo scorso Natale, ci ha raccontato, lo ha passato con Vinicio Capossela. Ma poi è stato ospite di Fiorello per una puntata interamente dedicata a lui e il Corriere della Sera gli ha dedicato una pagina intera. Tutti sapranno che la Disney lo ha celebrato dedicandogli il personaggio di Vincenzo Paperica, naturalmente giornalista. Su questo Vincenzo, che è maestro di ironia e di autoironia, ha forgiato la sua battuta per me migliore. ”Quando vado al cimitero – raccontò anni fa – mi accorgo che nessuno degli interessati ha scelto la foto per la lapide. Allora, per dare un tocco di colore, voglio un primo piano di Paperica con questa dicitura: “Qui giace Vincenzo Paperica che tra gli umani fu Mollica”.

 Ammettiamolo: c’è del genio…

Paolo Di Giannantonio

Paolo Di Giannantonio, che ringraziamo per il contributo, è uno dei volti più famosi della RAI, avendo condotto per molti anni il Tg1 e le trasmissioni Unomattina, Italia Sera, Ore 23 e Speciale Tg1.

Intervista a Gianni Solla di Bianca Miraglia del Giudice

Da giugno è in tutte le librerie Il ladro di quaderni, il nuovo splendido romanzo di Gianni Solla, edito da Einaudi, che racconta la storia di Davide, un ragazzino che vive a Tora e Piccilli, un paese nel casertano, dove viene confinato dal regime fascista il coetaneo Nicolas, insieme al padre e altri trentaquattro ebrei, nel settembre del 1942. Grazie alle segrete lezioni del padre del nuovo arrivato, Davide impara a scrivere; in lui la ricerca della parola giusta e perfetta diventa necessaria e salvifica, come un faro sulla visione del suo possibile. Nato zoppo, costretto a vivere dal padre persino in un porcile, Nicolas ha nella giovane Teresa l’unica persona che lo difende e lo incoraggia. Raccontando con sensibilità e poesia gli anni di evoluzioni e cambiamenti, di allontanamenti e di ritorni dei tre protagonisti, fino alla chiusura di un ideale cerchio della vita, Gianni Solla ci fa emozionare profondamente fino alla commozione.
A Tora e Piccilli, anni fa, fu piantato un albero di ulivo per ricordare il coraggio col quale gli abitanti si adoperarono per la salvezza di decine di ebrei dalle deportazioni naziste; pochi giorni fa, l’Ulivo della Shoah, nel parco del paese casertano, è stato di notte vigliaccamente distrutto!
 
Qual è stata la genesi di questo romanzo? Il trasferimento dei trentasei ebrei napoletani a Tora e Piccilli, imposto dal regime fascista nel 1942, non era una vicenda molto nota; tu come l’hai scoperta?
La curiosità è il mio unico talento. In quel periodo facevo ricerche personali non finalizzate alla scrittura, anche se lo so che poi non è così, e quando ho letto di questa storia ho subito riconosciuto una vicenda che poteva essere raccontata con i miei strumenti, con la narrativa. Chi mi conosce sa che sono un bugiardo cronico, ma attraverso la bugia e la mistificazione, riesco a dire la verità.
 
In Tempesta Madre, edito da Einaudi, le parole descrivono i fatti; nel Ladro di quaderni, il significante si evolve e diventa elemento necessario per veicolare un significato, che permette al protagonista di affermare se stesso: penso Davide che definiva solitudine ciò che in realtà era indipendenza. Le parole sono ancora fondamentali oggi, in un’epoca di espressività digitale?
 
Credo che le parole siano e resteranno l’elemento primo del pensiero e della comunicazione. Quando penso, penso “parlando”, pronunciando cioè frasi a me stesso, esattamente quello che faccio quando scrivo. I miei due libri hanno molti elementi di
sovrapposizione ma per certi versi sono anche molto diversi. Quando mi avvicino a una storia nuova da scrivere, ho necessità di scoprire un nuovo continente, esiste una parte avventurosa alla quale non riesco a rinunciare. Oggi si scrive moltissimo, dai messaggi ai post sui social, le guerre generazionali sono sempre perse dalla retroguardia, e tutto sommato questi tempi sono per la parola di massimo splendore. Mai come in questi anni stiamo attenti a non ferirci usando parole sbagliate, addirittura siamo disposti a rivedere testi passati depurandoli da parole che oggi sarebbero offensive. Salviamo la parola, la morale, il decoro, ma perdiamo
l’arte e il significato.

Gli effetti della povertà educativa e l’analfabetismo di ritorno creano un popolo con un alto tasso d’ignoranza, volto al disinteresse verso la politica, alla paura del diverso, alla xenofobia; scrivi “Non sapevamo niente degli Ebrei, ma ci era stato detto che
dovevamo odiarli”; secondo te, l’omologazione e la povertà del linguaggio si riflettono anche sulla capacità di pensiero critico?

Sicuramente la povertà di linguaggio si riflette anche in una povertà di pensiero, magari non di sentimenti, ma dietro ogni parola esiste una possibilità di stare al mondo che se non conosciamo diventa inaccessibile. Forse le paure vengono da altri contesti, quella per gli stranieri è stata una grande propaganda della destra attualmente al potere, così come la riduzione di ogni diversità a un fatto minimo. Lo stesso stanno facendo con Ultima generazione e con chi si occupa di ecologia. Mi spaventano gli algoritmi dei social, il
processo per cui ti viene proposto solo quello che ti piace costringendoti a restare in un recinto piacevole. Preferisco il perturbante. 
 
La paura nasce dalla solitudine e dall’ignoranza; l’evoluzione legislativa contemporanea tende alla cancellazione dello studio della Storia, della Filosofia e dell’Arte dalle vite dei ragazzi, caratterizzati sempre più da rapporti d’amicizia solo virtuali. Il ladro di quaderni è un romanzo sulla crescita, sulla scoperta delle proprie emozioni e passioni, sulla rottura con un passato opprimente e
condizionante; secondo te, è più complesso oggi diventare adulti?

Credo che il passaggio della linea d’ombra sia stato sempre il più complesso possibile, solo che adesso, il passaggio più delicato accade sotto gli occhi di tutti, su un social network. È il momento in cui siamo più esposti. Diventiamo adulti in un flusso di comunicazione che non riusciamo a gestire. Prima accadeva all’interno della propria famiglia, quasi vergognandosene. Oggi sei un vincente o un perdente già a tredici anni. Per uno lento come me è un incubo.
 
Ami il teatro e il cinema? “Non essere nulla mi permetteva di poter recitare tutto”: assolutamente vero…
L’arte è una scatola di mattoncini Lego per costruire il mondo.

Come è nato il tuo amore per la lettura e qual è l’ultimo libro che hai letto? Sei d’accordo con chi afferma che la lettura è attività tipica di una personalità introversa?
Leggo e scrivo in maniera disordinata. Più che l’ultimo che ho letto, che cambia sempre, sono grato al primo, un Reader’s digest di mia madre, trovato in un mobile del soggiorno. Dei romanzi mi piacciono più le voci che le storie. Le frasi più dei paragrafi. Gli scrittori mi hanno salvato la vita, lo dico sempre, entravo in libreria, Feltrinelli a Ponte di Tappia, e mi aggiravo tra gli scaffali come se avessi la febbre. La febbre è rimasta. Da bambino ero introverso, adesso ho dato sfogo alla vanità che non sapevo di avere e tutto sommato vivo meglio.

Bianca Miraglia del Giudice