Dahlia de la Cerda: “Bastarde disperate” (trad. Sara Cavarero – Solferino), di Gigi Agnano

In Messico la vita per le donne è perfino più difficile che altrove. “Ogni tre ore e venticinque minuti, una donna muore squartata, soffocata, violentata, picchiata a morte, bruciata viva, mutilata, crivellata dalle coltellate, con le ossa rotte e la pelle livida”.  Le violenze sono perpetrate da organizzazioni criminali  ma anche da bracci armati dello Stato e il 98% dei femminicidi resta impunito. “Essere donne è uno stato d’emergenza”. Il virgolettato è di Dahlia de la Cerda, l’autrice di Bastarde disperate (pubblicato in Italia da Solferino con la traduzione di Sara Cavarero), una raccolta di tredici racconti narrati in prima persona da una varietà di voci femminili accomunate dalla lotta quotidiana per sopravvivere. 

Sono donne di età e orientamenti sessuali diversi, provenienti da contesti sociali e culturali differenti, personaggi fragili ma combattivi che affrontano violenze domestiche, aborti, femminicidi, pregiudizi di classe. L’autrice di Aguascalientes, attivista femminista oltre che scrittrice e giornalista, con un linguaggio incisivo mette a nudo l’umanità di un universo femminile tormentato, alternando momenti di violenza a passaggi di struggente lirismo.

Nel racconto d’apertura, “Prezzemolo e Coca-Cola“, una ragazza sta seduta sulla tazza del water e ha appena orinato sul test di gravidanza che risulta positivo. Studentessa universitaria, orfana e sola in un paese cattolico dove l’aborto è illegale in 20 dei 32 stati, si mette alla ricerca su Google di metodi casalinghi per interrompere la gravidanza: prezzemolo nella vagina, lavande con Coca-Cola, aspirina, zapote nero, tè di ruta, di origano, di anice stellato. Navigando nel web le compare il video di un feto che grida “Ehi! Ehi! La mia gambetta!”. Anziché pungersi l’utero con una gruccia, si procurerà l’aborto da sola, in casa, con pastiglie di misoprostolo, tra tremori, vomito, diarrea e fiotti di sangue. 

I racconti successivi offrono angolazioni diverse della condizione femminile. Yuliana, figlia di un boss del narcotraffico, si ritrova erede di un impero criminale. Constanza, figlia di un deputato, è vittima di un femminicidio che tutti preferiscono mascherare come suicidio. Stefi, minorenne, viene abbandonata con un messaggio WhatsApp da Yandel “il coglione”, col quale ha avuto un figlio.

Giacché queste donne non hanno avuto la possibilità di parlare da vive, molte delle voci di “Bastarde disperate” raccontano le loro storie dall’oltretomba, in una sorta di Spoon River latinoamericano. “Mi sono svegliata molto confusa senza sapere cosa cazzo stesse succedendo. Ho guardato da una parte all’altra e ho emesso un urlo tremendo nel vedere il mio corpo buttato lì in mezzo a un mucchio di spazzatura. Mi sono avvicinata lentamente e ho avuto la conferma ai miei sospetti: ero morta. Quei puttanieri del cazzo mi avevano ammazzata. Ho preso la mia mano insanguinata e ho pianto un po’ per me.”

I racconti sono ricchissimi di rimandi alla musica pop messicana: canzoni tex-mex, ballate, cumbia, rap. Al ritmo di questa colonna sonora le protagoniste bevono, ballano, afferrano l’attimo, anche se le baldorie coincidono sempre con il momento che precede la tragedia. Due amiche vanno a una festa e non sanno, quando si salutano, che quella sarà l’ultima volta che si vedono. In “Regina”, una liceale di buona famiglia balla reggaeton e twerka sognando un fidanzato narcos, ignara che il suo destino è segnato da un proiettile tra gli occhi. 

Sono storie di donne reali, generalmente vittime, ma capaci a loro volta di essere cattive, moralmente grigie. Donne cui la vita non offre altre opzioni, che imbrogliano, ingannano, rubano e uccidono per sopravvivere. Sono forti e bastarde come “La China”, con un passato di violenza domestica, che uccide per soldi, per provvedere alla figlia, e che dice di non fare la puttana solo perché non sa “che prezzo dare alle chiappe”. O come la ragazza che va al Nord  per lavorare nelle “maquilas”, stabilimenti industriali che adoperano manodopera femminile sottopagata, che viene stuprata e uccisa nel deserto da una banda di cinque balordi. È una scena straziante che grida vendetta: “Mi hanno violentata tutti e cinque. Facevano i turni per violentarmi. Mi hanno legato mani e piedi. Mi hanno bruciato con le sigarette, mi hanno colpita finché non si sono stufati. Mi liberavano e poi si divertivano a darmi la caccia. Mi hanno morso i seni. Mi lasciavano andare, io correvo con tutte le mie forze, ma loro erano più veloci e più forti di me. Non appena uno mi raggiungeva, mi afferrava per i capelli, mi buttava sulla sabbia e mi prendeva a calci in faccia, sul petto, con furia.” Il fantasma della ragazza stuprata incastrerà in un autobus gli aggressori che l’hanno uccisa. Per ipotizzare un riscatto contro l’impunità, bisogna ricorrere al sovrannaturale e al fantastico. Il racconto è “Il sorriso”, quello che più di tutti gli altri fa l’occhiolino al genere horror e al gotico messicano. 

Vittime di una violenza e di un’ingiustizia spropositate sono anche le donne trans. Nel caso dei transfemminicidi il tasso di impunità è ancora più elevato, in Messico come altrove. Sono crimini in cui la misoginia si mescola al machismo e le vittime, invece di trovare giustizia, vengono criminalizzate e stigmatizzate. In “Paillettes” una trans, cacciata di casa, si prostituisce e viene violentata e assassinata: “Quando il mio cadavere è stato ritrovato, nessuno mi ha chiamata Julia, è stato come se un pezzetto di plastica con una fotografia valesse più di una vita di trasformazioni.” 

La raccolta si conclude con “La Huesera”, una lettera d’addio, scritta su consiglio dello psicologo, a un’amica vittima di femminicidio: “eccomi qui a scriverti com’è e come è stata la vita senza di te. Dopo la tua improvvisa scomparsa da questo mondo.” Il ricordo è straziante: “Ho la mia top ten delle tue risposte del cazzo. Ancora penso a quella data al tizio che ti aveva detto «Che belle gambe, a che ora aprono?», e tu: «Alla stessa ora di quelle di tua madre, coglione».”

Con uno stile provocatorio e seducente, una scrittura trasgressiva, anarchica e selvaggia, la de la Cerda ci propone un Decamerone adattato ai nostri tempi malati, con il grande pregio di scuotere le coscienze creando un rapporto empatico tra i suoi personaggi e il lettore, che non può restare indifferente all’ascolto.

Libro “politico”, di critica sociale filtrata dalla letteratura, commedia nera che si fa leggere informando, che suscita lacrime divertendo, Bastarde disperate è un debutto grintoso, inquietante e necessario di uno dei più emozionanti nuovi scrittori latinoamericani. E non sorprende che, dopo aver vinto numerosi premi, sia stato inserito nella longlist dei candidati all’International Booker Prize 2025, di cui conosceremo i finalisti il prossimo 8 aprile.

Gigi Agnano

Napoletano, classe ’60, è l’ideatore e uno dei fondatori – il 15 ottobre 2023 – de “Il Randagio – Rivista letteraria“.

Guadalupe Nettel e l’unicità di ciascun essere umano di Gigi Agnano

Sono nata con un neo bianco, che altri chiamano voglia, sulla cornea dell’occhio destro. Sarebbe stato del tutto irrilevante se la macchia in questione non si fosse trovata nel bel mezzo dell’iride, proprio sopra la pupilla che permette alla luce di penetrare in fondo al cervello.
All’epoca i trapianti di cornea sui bambini appena nati non si eseguivano ancora: il neo era destinato a restare lì per vari anni.

Guadalupe Nettel è una talentuosa scrittrice messicana, nata a Città del Messico nel 1973, il cui lavoro è particolarmente apprezzato dal pubblico dei lettori e dalla comunità letteraria mondiale, che le ha attribuito numerosi premi e riconoscimenti.
Nettel ha iniziato con la pubblicazione di racconti che affrontavano tematiche inedite e coraggiose per la società messicana.
Col passare degli anni, anche attraverso il romanzo, Nettel ha continuato a creare storie appassionanti e personaggi complessi, fuori dalla norma. Esplora con grande delicatezza temi come la fragilità, la diversità, la malattia, la maternità. Le sue storie, che sembrano quelle di un’amica o del vicino di casa, raccontano il mistero e il miracolo delle emozioni e delle relazioni umane, le imprevedibilità e le stranezze della vita, l’unicità e la solitudine degli esseri umani sottoposti dalla società o dalla famiglia a condizionamenti o ad opprimenti regimi correttivi.

In particolare, nei racconti di Bestiario sentimentale (2018) e di Petali (2019) s’indaga sul rapporto di reciprocità tra l’uomo e, rispettivamente, il regno animale e vegetale. I pesci rossi, i gatti, un fungo, un serpente, gli scarafaggi che ingaggiano una lotta, un cactus finiscono per interagire emotivamente con i protagonisti umani. In questo è evidente il riferimento a Kafka o all’axolotl di Cortàzar: “In generale, si impara molto dagli animali con cui conviviamo, pesci compresi. Sono una specie di specchio che riflette emozioni o comportamenti celati che non abbiamo il coraggio di vedere.”

In La figlia unica (2020), che è probabilmente il suo romanzo più riuscito, si parla dell’approccio assolutamente diverso di tre donne all’esperienza della maternità. La Nettel sembra ci dica che non c’è alcuna stranezza o difetto, anzi, che piuttosto ci sia bellezza nel loro essere per una qualche ragione “inadeguate” per il comune buon senso.
“Vedo questo neonato che dorme avvolto nella sua tutina verde, con il corpo completamente rilassato, la testa di lato sul piccolo guanciale bianco, e desidero che rimanga vivo, che nulla perturbi il suo sonno e neanche la sua vita, che tutti i pericoli del mondo stiano lontani da lui, e
che il vento impetuoso delle catastrofi lo ignori nel suo passaggio distruttivo. «Non ti accadrà nulla finche sarò con te» gli prometto, pur sapendo di mentire, perché in fondo sono impotente e vulnerabile quanto lui.”

In Il corpo in cui sono nata (2022) la protagonista racconta alla psicanalista un difetto agli occhi che ha segnato la sua infanzia. Per descrivere le ossessioni e le torture subite dai familiari, che peraltro, a causa di una scoliosi, la chiamano “scarafaggio” o più affettuosamente “scarafaggino” o “dromedario”, dice: “Sembrava che i miei genitori considerassero l’infanzia come una tappa
preparatoria durante la quale si devono correggere tutti i difetti di fabbrica con cui si è venuti al mondo, e prendevano quest’impresa molto sul serio.”

Il titolo dell’ultima pubblicazione è La vita altrove (2023), una raccolta di racconti tutti scritti durante o immediatamente dopo il lockdown. Il titolo originale è Los divagantes, I vagabondi, che forse rende meglio l’inquietudine dei protagonisti degli otto racconti, uomini e donne fragili, ma che resistono alla ricerca frenetica di altre possibilità di vita al di là di una frontiera non geografica, ma evidentemente esistenziale. “All’inizio il riposo mi faceva bene, ma a un certo punto mi sono accorta che ogni giorno volevo dormire di più, ingordamente, non perché ne avessi bisogno, solo perché i sogni erano la cosa più interessante che accadeva nella mia vita.”

In tutti i suoi lavori, narrati sempre in prima persona, la Nettel ha la capacità rara di creare una relazione intima col lettore, catturandolo dalla prima pagina e sollecitandolo per tutta la lunghezza del libro ad un lavoro di scavo fino agli anfratti più bui dell’anima. È una scrittrice della quale di pagina in pagina si diventa amici per lo stile narrativo unico e affascinante. Le sue parole sono fluide, poetiche, suggestive, coinvolgenti; la scrittura è spoglia, priva di aggettivi, limpida, spesso ironica, a volte drammatica e spietata. Ed è audace e innovativa, mescolando, in particolare nei racconti, l’iper-realismo con un accenno alla dimensione fantastica.
L’importanza di Guadalupe Nettel risiede anche nella freschezza, nell’ironia e nell’originalità della sua voce letteraria, che la rende una presenza vitale e innovativa nel panorama letterario contemporaneo o, come ha detto Enrique Vila-Matas, “una voce essenziale della nuova letteratura latino-americana”.
In Italia, le opere della Nettel, tradotte da Federica Niola, sono pubblicate da La Nuova Frontiera.

Gigi Agnano