Maurizio De Giovanni: “Volver” (Einaudi), di Cristi Marcì

A volte il passato assomiglia a una terra sconosciuta prosciugata dallo scorrere beffardo del tempo il cui ventre, anticamente cosparso di sangue e futili speranze è ora pronto a partorire un rinnovato presente.

Un luogo colmo di mistero dove finanche l’ultima briciola di ciò che siamo stati può tessere a nostra insaputa una trama tutta da riscrivere, tracciando un impervio sentiero in grado di rimescolare le carte delle proprie certezze.

In questo romanzo, ambientato tra un paesino della Campania meridionale e il capoluogo partenopeo, Maurizio De Giovanni consegna al lettore uno spaccato storico e socio culturale di un’Italia costretta in ginocchio dalla fame e dalla povertà, al cospetto di un regime che quotidianamente ne deturpa il volto, il corpo e i fini lineamenti: in nome di un’ideologia che manda i suoi figli al fronte plasmando nelle ore più buie un vuoto incolmabile e dal pungente aroma di polvere da sparo.

I vicoli di Napoli sembrano le uniche arterie dove la vita cerca indefessa di resistere, di camuffare il suo aspetto assumendo la fisionomia di un coraggio che all’ombra del regime nazi-fascista tenta in tutti i modi di trasformare la paura in opportunità, salvaguardando così l’amore verso la vita.

Tuttavia se il desiderio di restare prevale spesso sulla possibilità di fuggire dalla propria terra, tornare alle proprie radici è spesso l’unica possibilità di salvezza che ci rimane: la stessa che tra le pagine di questa splendida storia trascina senza troppi indugi il commissario Luigi Alfredo Ricciardi al suo luogo natio.

Nato e cresciuto nel Cilento il Barone di Malomonte è costretto a tornare dove tutto è iniziato ma ancor più in un mondo in cui le proprie radici familiari portano alla luce indizi ormai nascosti dalla polvere del tempo e che nessuno in paese sembra intenzionato a disseppellire.

Ma l’amore è una tremenda e cocente verità e quando arriva, arriva.

Ed è proprio attorno a questa tematica, spesso criptica e inafferrabile, che ruotano e si intrecciano le storie di chi ancora è disposto a ricordare e di chi si affaccia alla vita portando in petto un tesoro pronto a risplendere al riparo di un antico albero di ulivo.

L’amore difatti è forse l’unica energia atavica e universale che non può fare a meno di espandere con forza la propria voce, nonostante lo spazio e il tempo abbiano disegnato geometrie all’apparenza lontane ma pur tuttavia crudelmente vicine.

Se dal padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, era spesso definita come la forma più primitiva di psicosi capace di sgretolare i confini di un Io precario e vacillante, viceversa attraverso il silenzio della piccola Marta, figlia del commissario e all’antica e travolgente saggezza di zia Filumena questa eterna energia si trasforma in preghiera, in grado di sondare l’animo umano di chi non c’è più e di chi ha rischiato la vita pur di vivere quel contrasto che l’amore stesso a volte traduce in eterno conflitto.

Il silente e impercettibile dialogo che nei pomeriggi soleggiati di luglio avvicina le due protagoniste agli antipodi della propria esistenza, consente di sondare un territorio lontano dove le radici familiari ma ancor più quelle nobiliari si tramutano repentinamente in un’indagine di fronte alla quale Luigi Alfredo Ricciardi non potrà tirarsi indietro: dove il perdono è forse l’unica possibilità per comprendere quanto accaduto.

La memoria al pari dell’amore, si nutre così di quel genuino mistero rispetto al quale nulla viene lasciato al caso e dove il silenzio, come una danza ritmata e silenziosa è in grado di trasformare i ricordi in una storia capace di creare nuove vicinanze, tra chi non c’è più e chi invece ogni giorno sceglie cosa scrivere e cosa invece cancellare: rendendo la propria esistenza un miscuglio di sole e ombra pronti a nutrire di speranza le parti più antiche di un ulivo.

In un soleggiato pomeriggio di luglio, 

dove la polvere da sparo è sconfitta dal profumo dei campi

dove un’abietta ideologia viene spazzata via dal vento del riscatto

dove l’odio è schiacciato da quella forza primordiale che consente

a tutti noi di tornare, 

di alimentare quel soffio invisibile,

Sentir que es un soplo la vida.

Cristi Marcì*

* Cristi Marcì è uno psicoterapeuta psicosomatico junghiano. Grazie ai libri ha scoperto la possibilità di viaggiare con l’unica compagnia gratuita: la fantasia. Adora i gialli, la saggistica e i romanzi storici. Ad oggi ha pubblicato racconti brevi sulle riviste «Topsy Kretts», «Morel, voci dall’Isola», «Smezziamo», «Offline» «Kairos» e altre ancora. Scrive articoli per il periodico scientifico «Ricerca Psicoanalitica», «Arghia» e «Mortuary Street». Trovate una sua traccia anche su «Quaerere»

Intervista a Charlie Gnocchi ideatore e autore di O tutto o niente! Manifesto degli artisti scriteriati (CN Oligo editore), di Cristina Marra

Gli Scriteriati sono O tutto o niente! Con un manifesto che scuote la staticità artistica, Charlie Gnocchi, conduttore radiofonico, scrittore, inviato televisivo e tanto altro ancora, avvia un percorso di cambiamento, che comprenderà tour e eventi in giro per l’Italia. Il libro raggruppa interventi e contributi narrativi e artistici di chi come Tasso sognava mondi lontani e Cervantes creava eroi assurdi, Sancho Panza, Jacovitti, Bunuel, noi, fuori dal corso ordinario della storia, diventiamo narratori di mondi dimenticati, cercando la bellezza nella nostra esclusione.

Charlie sei su Il Randagio, una rivista letteraria che ha sposato come motto la frase di Donne sul vagabondaggio e libertà della mente. Sei un creativo randagio che si occupa di radio, TV, libri. Cosa significa essere Randagio per te?

Randagio e’ un termine fantastico che approvo in pieno, ma la linguistica lo squalifica in quanto e’ sempre stato utilizzato in modo ambiguo, randagio e’ libero e vagante curioso avventuroso umile sociale buono e timido, il termine runaway e’ piu’ affascinante ma io sono d’accordo che Randagio abbia bisogno di essere nobilitato, anche se poi tutti vogliono una cuccia calda una zuppa e coccole amichevoli, randagio e’ una vita per spiriti superiori.

Il libro nasce dal tuo manifesto degli artisti scriteriati. Il manifesto è un’esigenza, una volontà di dare spazio al tumulto interiore di molti. Anche io ho aderito con convinzione e entusiasmo alla tua chiamata e mi sento parte di questo progetto.  Quando hai deciso che fosse il momento di scriverlo?

Mi piacciono i Dada e i Surrealisti nei racconti e nelle Opere poi sono stato Punk Demenziale con un occhio al Folk al Pop ai Dialetti dei Cantastorie dei racconti da Bar dalle Balere piene di erotismo e di musica di zone d’ombra di un divertimento senza etichette, la creme de la creme Artistica non conosce la Strada soprattutto i critici i mercanti i borghesi sfaccendati, io rivendico l’Arte Artigianale di chi ci prova, anche a dare un Bacio, l’arte dell’imprevisto del Pubblico superiore e migliore degli Artisti. Soffiamo nei Tromboni per scacciare il Trombonismo Tronfio di palloni gonfiati dall’Aria Fritta!! Gli scriteriati hanno gli spilloni per poterlo fare… ma sono raccolti in un Movimento sotto la mia Guida Spirituale Morale e Umorale… spesso Orale.

“O tutto o niente!” è un raduno di Scriteriati, scrittori e artisti. Il testo del Manifesto è seguito da un’antologia di opere di narrativa poesia e arte. Da Pino Quartullo a Paolo di Giannantonio a Fausto Vitaliano da Luca Gualtieri a Max Greggio, da Marisa Laurito a Isabella Salamida. Come li hai coinvolti?

Ci sono milioni di Artisti Scriteriati che non vedevano l’ora di un Movimento Nuovo di Un manifesto che fosse qualcosa di gia’ sentito pero’ energico, di una guida cioe’ io destabilizzante e anarchica, ignorante rozza ma realmente Indecisa!!!

L’immagine di copertina è un tuo dipinto, un’auto futurista e retrò insieme. Artisticamente ti senti scriteriato, oggi esserlo fa la differenza?

Disegno le cose che disegnavo alle scuole medie quando a 14 anni sognavo il primo Amplesso con le ragazze piu’ sognabili. Ma poi buttavo tempo e denari sui Motori!

In questa epoca digitale, virtuale, effimera che valore ha ancora un libro e quanto è importante?

Sono molto Scriteriato e Randagio perche’ sono diffidente contro tutto cio’ che mi viene imposto anche se mi piego e sopporto tutto. Non ho trovato mai una strada ma tante, tanti sentieri e spesso molto spesso sono rimasto a piedi e senza benzina… pero’ sono qua e non mi fermo.

Oltre a scriverli, che libri legge Charlie Gnocchi?

l libro e’ un feticcio romantico un segno un oggetto prezioso o insulso e’ sempre un libro… la pagina stampata come la parola detta e parlata de visu ha una grande magia. Mi piace scrivere di getto ma sono un lettore troppo disordinato!!!! Sto leggendo Gillo Dorfes… Adorno… la vita di Garibaldi… e Silvia Morghen, una scrittrice scriteriata che ho conosciuto a Più liberi più libri di Roma e inoltre il Minotauro di Varufakis ( economista greco) ma e’ molto noioso. Leggere mi piace ma mi addormento subito!!!

Cristina Marra

Intervista a Orso Tosco per “L’ultimo pinguino delle Langhe” (Nero Rizzoli), di Cristina Marra

Orso benvenuto su Il Randagio. La prima domanda ti tocca e ti cade anche a pennello. Sei un randagio della scrittura, spazi dalla sceneggiatura, alla poesia, ai romanzi fino a questo tuo primo giallo per Nero Rizzoli. Essere randagio cosa significa per te?

Cara Cristina per prima cosa lasciati ringraziare per l’attenzione e la cura che hai scelto di dedicare al mio libro, e grazie a Il Randagio per la preziosa ospitalità. Essere randagio per me rappresenta l’unica condizione grazie alla quale io non finisca per sentirmi un ipocrita. Nascere nell’estremo ponente ligure significa innanzitutto confrontarsi da subito con l’idea artificiale di confine, con la pretesa odiosa di tracciare e imporre dei limiti utili soltanto a pochi, pochissimi, e ingiusti e stancanti per il resto della popolazione. Da questi ragionamenti nasce la mia predilezione per tutti quei personaggi che nelle loro esistenze si sono preoccupati di allargare i confini, arrivando a distruggerli se necessario, pur di scrollarsi di dosso il peso asfissiante e paludoso del potere costituito. Questo tipo di approccio, tanto nella vita quanto nella scrittura, o nella lettura, non può che farti diventare un randagio. 

Da “quel ponente ligure aspro e ripido in cui è nato alla morbidezza delle Langhe. Un trasferimento inaspettato che riporta alla mente un celebre detective, eppure il tuo  Gualtiero Bova, detto il Pinguino, è originale, unico. E’ un personaggio-corale ed è soprattutto il frutto di due territori che solo appaiono esteriormente diversi ma che hanno origine comune. E’ questo il Pinguino? E’ l’espressione di un’appartenenza comune?

Hai perfettamente ragione, ho sempre immaginato il Pinguino come il portatore, magari involontario e persino scocciato, di alcune delle caratteristiche che legano questi due territori, da sempre così diversi e così uniti. C’è in lui una propensione al lirismo, un lirismo che spesso lo conduce alla malinconia o al silenzio più ostinato, ma che per via di un pudore atavico, il pinguino non può che tradurre in una strana forma di sarcasmo. Un sarcasmo che lui rivolge per prima cosa verso se stesso, e che dunque non è un modo per sentirsi migliore o superiore, ma al contrario, è una forma molto pudica e maldestra di affetto. Più passa il tempo e più mi convinco che questo tipo di sarcasmo altro non sia che la forma di empatia concessa ai più timidi.

Il Pinguino è dipendente dalle “gocce” che provocano dentro la sua testa un lavoro sulle parole “raggruppandole di quattro in quattro senza un legame logico tra loro, giusto un po’ di rima”. Sono quelle parole che diventano quartetti il “segreto” delle sue indagini?

Volevo fortemente che il Pinguino avesse un legame viscerale con le parole, ma al tempo stesso volevo che fosse un legame sbilenco, poco ortodosso, lontano dal rigore accademico e dall’aridità del linguaggio giuridico. Le gocce, il loro effetto, rappresentano in questo senso un legame bizzarro e viscerale, il genere di medicina che potrebbe essere al tempo stesso la migliore medicina possibile e un semplice regalo del più comunque effetto placebo. Il Pinguino si affida a loro come altri si affidano ai santi.

Dislessico, ascolta musica hub, fuma la pipa, è uno scrittore mancato, non è un lettore veloce ma ammette di leggere i libri per riempirsi “la testa di un impasto di parole, un po’ come si fa col compost, è un modo per mettere tutto assieme e vedere se ne esce del nutrimento”. Nel romanzo ci sono tanti libri citati in modo più o meno evidente, credo siano tuoi omaggi. Perché un uomo come il Pinguino sceglie di fare il poliziotto?

Paradossalmente per ribellione. Mi divertiva l’idea che qualcuno scegliesse la professione più di tutte legata all’ordine per opporsi ad un ordine giunto dai propri familiari. Infatti il padre del Pinguino, mosso da ideali romantici e anarchici, quando lui era giovane gli disse, nella vita fai quello che vuoi, ma non fare lo sbirro. E lui, proprio per poter contare sull’unico divieto, e dunque su di una libertà quasi assoluta di cui non sa che farsene, sceglie proprio quell’unica strada proibita e la fa sua. Scavando più in profondità credo sia un modo, contorto, elaborato e un po’ assurdo, di non lasciarsi privare di suo padre, ormai morto. Un modo per tenerlo vicino, seppur all’interno di un buffo e taciuto senso di colpa.

Gilda gildina, la bassotta è la sua spalla, la sua compagna di vita, ma anche un bassethound e un capriolo insieme a altri animali compaiono nella storia. Che importanza hanno i personaggi animali nella tua scrittura e in questo romanzo?

Sai, quando nella vita ti capita di chiamarti Orso, credo che ci siano solo due strade percorribili: o degli animali ti disinteressi del tutto, oppure non puoi che accettare l’idea che questo sia un viaggio animalesco condiviso con altri animali. Io ho chiaramente scelto la seconda strada, e devo dire che mi sembra la più ricca e la più credibile. Penso che privarsi di un rapporto il più possibile profondo con gli animali ci renda mutilati e semi analfabeti. 

“E’ sempre vicino alla luce più intensa che le ombre scavano il loro regno profondo”, che rapporto ha Il Pinguino con il dolore e con l’amore?

Temo che abbia deciso di ricevere l’amore e il dolore come si trattasse della stessa sostanza. Io penso che nella vita sia meglio accogliere l’amore e il dolore con due bocche diverse e distinte, pur nella consapevolezza che poi lo stomaco dove finiranno è uno soltanto e lo stesso. Perché questa distinzione, seppur arbitraria e illusoria, ci permette di frapporre un qualcosa tra questi due sentimenti così importanti e lancinanti. Il Pinguino invece, per coraggio o amarezza, difficile dirlo, ha imparato a ricevere i pochi baci e i tanti calci con lo stesso paio di labbra. 

Le indagini scoperchiano un mondo di apparenze e opportunismo. Il Pinguino è “abituato a osservare la vita più che a viverla” e nel romanzo eccentrici, sognatori, sprovveduti, esaltati, ricchi e poveracci scorrono come nei gironi danteschi. Il passato oscuro alle spalle è l’elemento che li accomuna?

Credo che ogni passato, anche il più apparentemente privo di nota, sia in verità un’amalgama incredibile di zone d’ombra e squarci di luce, è il vero legame che ci rende simili e incompleti, è il motivo per cui ci rivolgiamo agli altri con la speranza di comprenderci, o quando la stanchezza o il dolore prendono il sopravvento, di dimenticarci di noi stessi.

 Che rapporto hai tu con i libri, quale il libro o i libri che ti hanno incantato e formato e che consigli ai lettori randagi?

Con la lettura ho un rapporto viscerale e disordinato, procedo per periodi, per innamoramenti che poi vengono sostituiti da nuovi innamoramenti ma che non scompaiono mai del tutto. Grazie al Pinguino e alle Langhe ho riletto Beppe Fenoglio, un gigante, un maestro, l’esempio di una forza e di una sensibilità fuori dal comune e totalmente riversate nella propria opera, senza pose, senza troppa attenzione verso se stesso. Sempre per via del Pinguino e quindi come conseguenza della sua natura “provinciale” ho letto il primo romanzo di Piero Chiara, “Il piatto piange”: meraviglioso. Tornando ai nostri anni, mi sentirei di consigliare alle amiche e agli amici che ci leggono l’ultimo romanzo di Pier Franco Brandimarte, “La vampa”: sono in pochi gli scrittori e le scrittrici in grado di compiere una operazione così ambiziosa e stimolante. E poi sicuramente “Arsenale di Roma distrutta” di Aurelio Picca. Più in generale, qualsiasi libro di Aurelio è un regalo che il lettore si offre. 

Cristina Marra

Intervista a Maurizio de Giovanni per “Il canto del mare” (Salani), di Cristina Marra (foto Ciro Orlandini)

Che voce ha il mare? Forse quella attraente del canto delle mitologiche sirene o quella misteriosa e senza tempo capace di narrare di incontri  e scambi, di amore e meraviglia, di sogni e sacrifici, di attrazioni e sparizioni. Maurizio de Giovanni reinterpreta a modo suo la favola poetica, dolce e “salata” “Maruzza Musumeci”di Andrea Camilleri e la dedica al maestro e ai giovani lettori che, accompagnati dalle illustrazioni di  Mariolina Camilleri, si tufferanno in una storie di parole e di stelle, di acqua e di terra,  in cui il sentimento dell’amore è perpetuo come le onde del mare.

Maurizio benvenuto su Il Randagio.

Che sfida è stata e che emozioni hai provato a narrare a modo tuo e per giovani lettori la favola di Andrea Camilleri?

E’ stata un’emozione enorme vedere il mio nome sulla copertina insieme al più grande narratore italiano degli ultimi cinquanta anni, è stata una cosa che vale più di un premio letterario. Non ho provato a ricalcare le orme di Andrea e del genio che è, ma ho soltanto provato a raccontare a modo mio e con il mio tono la sua favola.

Quanto ti senti un narratore randagio?

 Penso di essere randagio come qualsiasi narratore. I narratori girano per la vita incontrando le storie e raccontano le storie belle che incrociano. Uno non decide di essere scrittore e poi cerca una storia; semplicemente incontra una storia e ha l’esigenza di narrare. E questo già di per sé è randagio.

Emigrazione, sogno, mito, crimine e amore ma anche tanto altro ne Il canto del mare. La Terra di Gnazio incontra il Mare di Maruzza. La conchiglia e l’ulivo si uniscono. Su tutto prevalgono la consapevolezza e la forza dl sentimento più bello del mondo?

La modalità della favola  è sempre la semplificazione dei sentimenti, va alla radice e trova i sentimenti per quello che sono. Ogni scrittore dovrebbe misurarsi con la favola che è di per sé qualcosa che porta chi ascolta, bambini o adulti, a ritrovare  sentimenti nella loro semplicità e immediatezza. Mi piace moltissimo giocare su questo, sull’amore, sulla paura, sui sentimenti più basilari. Credo che la favola sia il modo giusto per raccontare i sentimenti e specificamente l’amore.

Ti sei interfacciato con l’illustratrice o è stato un lavoro autonomo? 

Mariolina Camilleri è una meravigliosa illustratrice. Alcune tavole mi erano state sottoposte prima per farmi vedere il tratto, per farmi capire che tipo di storia avrebbe raccontato lei, in sottofondo e collateralmente a quella che avrei raccontato io. Poi le ho dato il testo e lei sulla base del testo ha scritto una straordinaria storia per immagini che secondo me nobilita il testo. Sono molto felice di avere lavorato con lei.

Il personaggio di Nonnamà, narratrice senza età né tempo incanta i bambini che si riuniscono a casa sua per ascoltare le storie.

Che valore e che importanza ha la narrazione oggi?

Io credo che la narrazione in questa epoca di immagini non sia stata mai così importante. La narrazione per parole lascia lavorare l’immaginazione e questo accade sia nella narrazione orale che in quella scritta. Abbiamo bisogno di immaginare, di non essere soltanto passivi nella ricezione di quello che vediamo. Abbiamo bisogno di elaborare perché soltanto elaborando ci facciamo  una nostra idea e posizione. Quindi l’immaginazione è fondamentale e lo è naturalmente la scrittura.

Un libro randagio che consigli ai nostri lettori? 

Vorrei consigliare Un paese felice di Carmine Abate straordinario narratore calabrese di lingua arbëreshë (lingua parlata dalle popolazioni di origine greco-albanese stanziatesi nel Sud Italia) ma scrive meravigliosamente in italiano. Lui vive in trentino ma rimane affondato nelle sue radici e nella sua terra . Consiglio volentieri ai lettori della rivista Il Randagio questo bellissimo romanzo.  

Cristina Marra

Maurizio De Giovanni fotografato da Ciro Orlandini

Mi chiamo Ciro Orlandini, sono nato meno di dodici lustri fa a Napoli, città di cui sono profondamente innamorato e che ha condizionato il mio modo di vedere e intendere la realtà. La mia mente è stata sempre libera e aperta alla curiosità, alla conoscenza, alla profondità dei sentimenti. Alla passione sconfinata per la mia città si unisce il forte interesse per l’essere umano, per le sue contraddizioni e per le sue fragilità, e questo mi piace raccontare con la forza delle immagini più che con le parole. Sono pertanto un fotografo, un fotografo d’amore. Molti i miei ritratti di scrittori, in occasione di eventi o di presentazioni dei loro libri. Ho collaborato con alcune case editrici per immagini di copertina.