Considerazioni di una lettrice fuori tempo/2, di Francesca Chiesa

Un romanzo è una giostra

Credo da sempre nel romanzo ottocentesco, quello in cui i personaggi sono memorabili, la trama complessa, le caratterizzazioni straordinarie, il ritmo incalzante, l’ambientazione magnifica. Non mi appassiona molta narrativa recente che non ha storie e nemmeno protagonisti, che non ha grandi amori né grandi conflitti, che non è in alcun modo romanzo.” 

Matteo Strukul

Un romanzo di ambientazione storica non è necessariamente un romanzo storico.

Il romanzo storico è un racconto che presenta vicende fortemente condizionate dal periodo in cui si svolgono, e personaggi saldamente connessi con l’ambiente storico e culturale dell’epoca.

Poi ci sono i romanzi di ambientazione storica, che potremmo decisamente paragonare a quelle opere che si prestano a essere allestite con ambientazioni e costumi diversi, senza che ne siano alterati spirito e messaggio. Otello ma non Madame Butterfly, tanto per dire.

Proviamo a soffermarci sui due più noti romanzi di Lev Tolstoj : Guerra e Pace e Anna Karenina

Nel primo, ambientato all’epoca della spedizione in Russia di Bonaparte, la vita e il carattere dei protagonisti sono fortemente influenzati dalle vicende storiche che questi vivono: l’esempio più immediato è quello di Pierre Besucov, giovane infiammato dal fermento intellettuale della Parigi post-rivoluzionaria e napoleonica, insicuro, intelligente ma non razionale, a disagio nella Mosca alessandrina d’inizio ‘800. Più che le vicende personali, sul suo sviluppo spirituale incideranno le dolorose vicende della sua città e della sua patria, che lo trasformeranno da ingenuo rivoluzionario convinto di poter fermare Napoleone, in un saggio proprietario terriero, devoto alla Santa Madre Russia.

Senza Napoleone da amare e poi odiare, questo cambiamento non sarebbe avvenuto.

Anna Karenina, la cui pubblicazione segue quella di Guerra e Pace, è stato definito il capolavoro del realismo e il romanzo più bello del XIX secolo. Fosse stato ambientato nel Ventesimo secolo a Roma, e trattato dalla penna di un Moravia, di un Bevilacqua o di un Bassani, avrebbe comunque mantenuto il suo fascino di storia che eternamente si ripete, negli incroci d’amore di uomini e donne. La storia, qui, è un accessorio; sono i mobili scelti per arredare la scena.

Matteo Strukul ha scritto svariati, affascinanti romanzi storici e un libro che io ho già letto cinque volte senza riuscire a catalogarlo e che, quindi, mi piace tantissimo.

La giostra dei fiori spezzati è un’opera che non può essere catalogata come romanzo storico – le vicende narrate non sono necessariamente vincolate all’epoca in cui si svolgono – ma non possono, allo stesso tempo, essere considerate del tutto indipendenti dall’ambiente in cui si sviluppano. 

Fermiamoci qui, per il momento e andiamo a vedere il contesto storico in cui Strukul ambienta il suo racconto.

Negli anni ’80 e ’90 dell’Ottocento l’economia padovana conosce un discreto incremento, che porta alla nascita di nuove industrie e a un progressivo, anche se ancora parziale, abbandono delle campagne. 

La città di Padova, a fine secolo, fiorisce di imprenditori e magnati e letterati. 

Si stampano giornali – tra fine Ottocento e inizio Novecento, i principali quotidiani di Padova erano La Sentinella, Il Veneto e La Provincia di Padova – si avviano opere di pubblica utilità e beneficenza, si potenziano i settori dell’economia che già erano in via di sviluppo. Il tessile, la siderurgia e la stampa. 

Come se la città fosse tornata al benessere cosmopolita di Ezzelino. 

Ancora una trentina d’anni, forse meno, in cui la comunità ebraica fiorirà e produrrà frutti che purtroppo non resisteranno al tempo.

Chiedete in giro com’era invece  il Portello a fine ‘800: incubi notturni e nulla che profumi di panni stesi al sole.

In questo Porteo, così lo chiamano, non si vede che immondizia; i carretti che vendono verdura e pesce e i mucchi di rifiuti hanno tutti lo stesso colore e lo stesso odore. 

La strada principale che viene dalla grande porta, quella da cui entra in città chi viene da Venezia e dalla sua campagna, è come un paese ma un paese dell’inferno: tutta fiancheggiata da casette, dove sembra che si ammassi una quantità enorme di persone. Pare che qui il sole non riesca ad arrivare, sarà il fumo dei fuochi sempre accesi per scaldarsi o far da mangiare. 

Che poi fuochi, ma cosa bruciano? Le porte e gli scuri delle stamberghe, in cui si ammassano la notte e quando piove; vecchi mobili recuperati chissà dove, magari nei palazzi abbandonati, che sono tanti da queste parti, e quello che raccolgono in giro.

Vivono tutti del lavoro delle donne, e c’è solo un tipo di lavoro che una donna può fare da queste parti, vendere: verdura e pesce se è capace di procurarseli, lavori di cucito se li sa fare, se stessa se è disperata.

Queste sono le donne che racconta Strukul, i suoi fiori spezzati che esercitano al Portello ma non solo; nate per vivere male e morire ancora peggio, straziate come bestie da una bestia più feroce di loro.

Fossero rimaste in campagna – se fosse rimasto del lavoro nelle campagne – sarebbero morte di pellagra ma nel letto, circondate dalla famiglia, da quelli che ancora non erano morti.

Non ė un’invenzione di Matteo Strukul che le porta a morire in città, ma uno di quei giri di valzer che la storia ha fatto e rifarà, con il nome di rivoluzione industriale, nella seconda metà del XVIII secolo in Inghilterra e, nel nostro caso, tra ‘800 e ‘900 nel padovano.

La meccanizzazione del lavoro agricolo consente una diminuzione della mano d’opera a pari rendimento, quindi la forzata urbanizzazione degli abitanti delle campagne, lo sviluppo delle fabbriche, la creazione delle nuove classi sociali di borghesia e proletariato.

Per lo sviluppo della borghesia ė necessario l’aumento del numero dei proletari e, parallelamente, la salvaguardia delle concezioni morali su cui si basa la società borghese presuppone l’ampliamento del mercato della prostituzione.

L’eccessiva disponibilità di manodopera genera disoccupazione in campagna e in città e spinge all’emigrazione.

Miseria, ignoranza e frustrazione generano violenza: tanto in chi ne è causa quanto in chi ne diventa vittima.

Questo lo scenario in cui nasce e si sviluppa La giostra dei fiori spezzati, un romanzo che non dipende dalla contingenza socio-economica della Padova di fine Ottocento ma descrive uno stato di cose che generalmente si verifica in presenza di determinate condizioni, alle quali non è peraltro rigidamente vincolato.

Quindi, un particolare tipo di rapporto tra storia e vicende narrate, quello che ha instaurato Strukul con questo romanzo. Che è un romanzo a tutti gli effetti, non un vagabondare dell’autore intorno a se stesso.

Una domanda, per finire: perché la giostra? In un primo tempo avevo ipotizzato che potesse rappresentare la macabra danza delle fanciulle uccise. 

Oggi credo si riferisca piuttosto alla ruota del tempo che non smette mai di girare, sempre uguale a se stessa.

Francesca Chiesa*

Di seguito il link al precedente: 

Considerazioni di una lettrice fuori tempo/1

Un romanzo è un romanzo, un’autoanalisi è una noia

https://ilrandagiorivista.com/2025/09/04/considerazioni-di-una-lettrice-fuori-tempo-1-di-francesca-chiesa/

*Francesca Chiesa, classe 1955, laureata in filosofia. 

Ha lavorato per il Ministero degli Affari Esteri in Iran, Russia, Grecia, Eritrea, Libia, Kenia. Dal 2019 vive col marito prevalentemente a Syros, nelle Cicladi. 

Pubblicazioni recenti:

Dalla Russia alla Persia – storia di un viaggiatore per caso: Peripezie di un marinaio olandese al tempo di Alessio I Romanov e Suleiman I Safavide, La Case Books, 2023

Una storia di donne persiane: Il romanzo di Humāy e Nahid, La Case Books, 2023.

Il suo ultimo lavoro è Diversamente sole, Edizioni Open, 2025.

Considerazioni di una lettrice fuori tempo/1, di Francesca Chiesa

Un romanzo è un romanzo, un’autoanalisi è una noia

Dal millenovecento e novantuno al duemiladiciannove: ventotto anni di lavoro all’estero con immersione in contesti spesso distanti anni luce da quello cui appartieni, sono più che sufficienti per perdere il contatto con la produzione letteraria italiana. 

Anche se la lontananza è interrotta da qualche rientro.

Anche se il tuo lavoro consiste nel promuovere la cultura italiana all’estero, ovvero: qualche concerto, qualche mostra d’arte soprattutto antica o contemporanea ben sponsorizzata, qualche grande nome della nostra letteratura: da Dante a Boccaccio, da Tomasi di Lampedusa a Dacia Maraini. 

Già invitare i Wu Ming a Nairobi è stato un azzardo, per non parlare del festival del romanzo storico inventato da Sugarpulp, una delle poche fucine di idee geniali e intelligenti che si stiano muovendo da qualche anno sul suolo patrio.

È chiaro che alcuni dei mondi attraversati – Mosca e Atene, in filo diretto con Berlino,  ma anche Nairobi che è pur sempre rimasta una realtà anglosassone – ti danno qualcosa di nuovo, se lo vuoi ricevere, ma è con il rientro nel Belpaese che ti trovi ad affrontare una realtà abbastanza destabilizzante. 

Per te che sei partita accompagnata dalle parole del tuo libraio di fiducia – Non si vende, dottoressa, non si vende. Non so quanto riusciremo a resistere. – e da decine di articoli su quotidiani e riviste, in cui ci si interrogava su cosa sarebbe diventata la massa dei giovani non/leggenti, ritornare in Italia è come sbarcare su un altro pianeta.

 

Come descrivere in poche parole, il mondo dei libri e dei lettori che mi si è parato davanti, nel mio percorso per ritornare a essere lettrice di questo Paese?

Devo fare un passo indietro per poter produrre un paragone abbastanza efficace.

Nella “mia” Tehrān degli anni ‘90, appena uscita dalla guerra con l’Iraq, esisteva un solo negozietto dove si potevano acquistare generi occidentali: pasta, affettati, caffè, biscotti e poco altro. Tutto tranne vino, ma quello ce lo facevamo, e comunque era una festa: cibo italiano per il pranzo della domenica. E così negli altri Paesi, con le solite eccezioni.

Tornare in un mondo di supermercati sovrabbondanti e sovraffollati  non è una gioia ma una noia: una gigantesca cornucopia che erutta prodotti a non finire, di ogni marca e di ogni prezzo, talmente tutti uguali che ne basterebbe uno per categoria merceologica.  

Nel mondo, mi correggo nel mercato, dei libri la situazione non cambia, cibo per la mente trattato alla stregua di cibo per cani: i persuasori occulti ti spiegano che senza un cane non sei nessuno; il veterinario ti spiega che senza gli opportuni ammenicoli sanitari parasanitari e ludici il tuo cane è una persona infelice; l’informazione via stampa video audio e web ti convince che optare per la marca X renderà migliori te e il tuo cane; il delizioso negozietto di petfood, comodissimo e giusto all’angolo, ti garantirà l’acquisto di ció di cui ormai hai bisogno. È fatta.

In un momento che non mi è chiaro, tra il 1991 e il 2019, qualcuno nel mondo si è accorto che il libro è un oggetto facile da produrre e facile da vendere. Allora, perché non si vende? Perché bisogna cambiare strategia. 

Come nel caso delle meravigliose calze di vera seta delle nostre bisnonne, sparite da oltre un secolo perché costavano troppo e duravano per sempre, quindi invendibili. 

Quindi sostituibili con calze di nylon.

Torniamo ai libri: per leggerli, bisogna saper leggere, e per capirli bisogna saper pensare.

Amarli è un altro discorso, bisogna che entrino a far parte di te e questo non è programmabile.

Saper leggere: l’introduzione della scuola media inferiore unica obbligatoria, nel 1962, ha fatto si che gli adolescenti italiani, anche quelli che non avevano libri in casa, potessero usufruire di una lettura guidata perfino dei grandi classici; la riforma della scuola superiore, avviata nel 2008, ha rafforzato questo processo; la modifica della struttura e dei contenuti dei corsi di laurea, c.d. “riforma Berlinguer”, ha offerto gli strumenti e aperto la strada a una massa di lettori e di possibili scrittori. 

Scrittori in nuce, cui si provvede a garantire le competenze necessarie grazie alla istituzione di appositi corsi di laurea e di specializzazione a livello universitario, o corsi professionalizzanti privati. L’apertura della Scuola Holden, finalizzata alla formazione di narratori e guarda caso intitolata a un personaggio della letteratura statunitense contemporanea, segna un punto di non ritorno. 

Nel 1991, quando ho lasciato l’Italia, chi parlava di struttura e strutturalismo era comunista. Oggi, sul concetto di “struttura” si regge la didattica del romanzo.

La massa di clienti, che era fino ad allora mancata al mercato dei libri, si definisce grazie a uno sdoppiamento che viene immediatamente recepito dalle nuove generazioni di potenziali lettori/scrittori: se leggo posso scrivere, se voglio scrivere devo leggere.

Attenzione: se voglio essere letto, devo scrivere ció che richiede il mercato. 

Enunciazione, questa, solo apparentemente lapalissiana, giacché non sempre gli scrittori sono stati sottoposti alla necessità o all’obbligo di venire incontro ai desideri e agli interessi del lettore, quantomeno non fino al XVIII secolo dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese, e al XIX secolo delle letterature nazionali, secoli in cui davvero si scriveva per liberare e allargare l’area della coscienza. 

È nel ventesimo secolo che si ritorna a una produzione letteraria condizionata, dal fascismo e dall’antifascismo, ma anche da fenomeni che non hanno nulla a che fare con regimi e ideologie, ma rappresentano comunque una forma di penetrazione teorica, ideologica ed economica estremamente ben riuscita. Vale a dire l’ingresso in Italia della psicanalisi, databile più o meno al 1925, con la fondazione della Società Psicoanalitica: più ancora delle dottrine politiche, questa tecnica influenzerà profondamente la produzione letteraria italiana. 

Con questo lungo prologo arrivo a due riletture, che si situano alle estremità di un arco temporale che va dal 1963, anno in cui è stato pubblicato Un amore del poliedrico e ormai affermato Dino Buzzati, al 2014 quando un giovane Matteo Strukul, non ancora arrivato ai successi odierni, pubblica La giostra dei fiori spezzati.

Entrambi i libri sono definiti romanzi, entrambi ruotano intorno al mondo della prostituzione.

Nel 1963 non avevo più di otto anni, ma ricordo bene l’agitazione che provocó nella piccola comunità padovana che usava trascorrere le vacanze estive nel Bellunese, la pubblicazione di Un amore di Dino Buzzati. I libri proibiti, a casa mia, erano chiusi in una vetrinetta, sotto chiave: a ogni compleanno, più o meno, me ne veniva concesso uno ma Un amore da quella vetrinetta non uscì mai. Superata l’età dei divieti, gli interessi rivolti altrove, non mi vergogno di confessare che pur avendo letto e amato varie altre opere di Buzzati, la forza della censura genitoriale aveva espulso quel libro dai miei orizzonti di lettura. L’ho letto ora, quindi a voler essere precisi non si tratta di una rilettura ma della ripresa di un autore amato in nuova veste, diciamo così.

Ed  è stato un libro che non mi è piaciuto, come non mi sono piaciuti La coscienza di Zeno di Italo Svevo, Il male oscuro di Giuseppe Berto, Io e lui di Alberto Moravia, Le libere donne di Magliano di Mario Tobino. 

Forse l’esito sarebbe stato un altro se queste opere fossero state presentate come Memorie piuttosto che come Romanzi; forse avrei riconosciuto loro un diverso valore linguistico e letterario se fossero stati diversi i titoli: Buzzati: Io, io, io e Laide; Svevo: Io e il fumo; Berto: Io e il profondo me stesso; Moravia: Io io io e lui; Tobino: Io e le mie matte: ritratti.

Non so, forse la lettura sarebbe risultata comunque alquanto noiosa, come sempre lo è l’accostarsi a testi in cui all’autore non interessa comunicare ma semplicemente mostrarsi. D’altra parte, questi poveri autori non ne portano nemmeno tutta la responsabilità.

Di fatto, tra le molte strategie adottate dalla civiltà occidentale per contrastare la diffusione del collettivismo sovietico, l’adozione della psicoanalisi appare particolarmente significativa: formalmente definita sulla base del mito greco di Edipo, questa pratica geniale è tutt’ora impegnata a diffondere il principio secondo il quale se ti senti a disagio nella vita il problema é tuo, perché non hai ancora imparato a vivere nel modo giusto. 

Da qui il proliferare di produzioni letterarie in cui l’Autore si presenta con determinate caratteristiche, e queste rimangono sostanzialmente invariate dall’inizio alla fine di una narrazione, che si muove totalmente al di fuori di quei meccanismi di mimesi/imitazione e catarsi/purificazione i quali, secondo Aristotele, generano nello spettatore piacere e sollievo.

Immaginate la raffigurazione del Buddha che si guarda l’ombelico: la comunicazione avviene tra lo scrittore e se stesso, il lettore é un accessorio utile all’ego di chi scrive ma non necessario. 

Se ne puó fare a meno – secondo gli scrittori di cui sopra – insieme a tutti gli elementi che contribuiscono a creare l’effetto mimesi: struttura, personaggi, ambiente, colore e suono delle parole. Leggendo Un amore, ad esempio, ci troviamo sommersi e oppressi da una sovrabbondanza di aggettivi distribuiti a pioggia, come si sparge a terra il sale per sciogliere il ghiaccio e il fango che produce ti sporca le scarpe. La sensazione è che non creino un mondo ma servano a riempire spazi vuoti.

Personaggi, invece, pochini pochini oltre a Buzzati/Dorigo: la Laide, come la vive l’autore, e la signora Emmelina in veste di maitresse o Caron-dimonio-traghettatore. I colleghi di lavoro, gli incontri casuali esistono in funzione di Dorigo, come scene fisse nella messa in scena di un monologo.

Buzzati, peró, ha scritto anche il Il deserto dei Tartari.

Ammettendo che il protagonista di Un amore (1963) non sia cambiato rispetto a Il deserto dei Tartari (1940) – Dorigo è Dogo? – la differenza tra le due opere è tanto semplice quanto smisurata: Il deserto è un romanzo, Un amore non lo è. A me appare così e ho cercato di capire perché, dando per certo che non mi si sarebbe posto alcun interrogativo se Un amore fosse stato scritto prima del deserto.

Scrive Graham Greene, ragionando su Il console onorario, che lui giudica il migliore dei suoi romanzi:«Quando scrivi un romanzo, non devi mai includervi qualcosa che è capitato a te senza modificarlo in qualche modo.» 

In effetti, anche ne Il console troviamo storie di uomini che non avrebbero bisogno di bordelli per innamorarsi ma inevitabilmente sviluppano una passione per una prostituta. Quanto ci ricorda la Laide di Dorigo, quella Clara amata dal console e dal dottore? Non molto: non ha la sua indipendenza, la sua strafottenza, la sua volgarità anche. Sembra che il suo maggior desiderio sia accontentare il console Fortnum e il dottor Psarr: loro – cioè la presenza di due innamorati – sono ció che fa di questa storia un romanzo. Loro sono il conflitto, Antagonista l’uno dell’altro. Quel conflitto che in Un amore  avviene tra il protagonista e se stesso e quindi non porta a nulla.

E Drogo, laggiù, di fronte al deserto? Drogo non è preso da amore, questo è sicuro. 

Nel momento in cui arriva alla fortezza Bastiani, il tenente Giovanni Drogo inizia la sua vita da adulto: da ragazzo che era, convinto di poter recedere da una decisione sbagliata solo dicendo «Non mi piace più», vede la vita scappargli davanti senza che lui riesca a raggiungerla. Come da sempre qualcosa appare e qualcosa scompare, una vita finisce, la neve cade e la primavera spunta e gli uomini attendono una vita migliore. Giovanni – come quanti di noi? – aspetta il momento di poter scegliere, di potersi provare. 

Di vincere, alla fine, come in effetti gli riesce di fare, solo e proprio di fronte all’Invincibile.

Il sorriso di Giovanni di fronte alla Morte è la cifra dell’umanità.

Lo sguardo di Dorigo che passa dalla Torre Nera alla piccola squillo, segna il passaggio dall’essere al possedere, quasi un biglietto d’ingresso per le feste di Villa Certosa.

segue 

Considerazioni di una lettrice fuori tempo/2

Un romanzo è una giostra

Francesca Chiesa

Francesca Chiesa, classe 1955, laureata in filosofia. 

Ha lavorato per il Ministero degli Affari Esteri in Iran, Russia, Grecia, Eritrea, Libia, Kenia. Dal 2019 vive col marito prevalentemente a Syros, nelle Cicladi. 

Pubblicazioni recenti:

Dalla Russia alla Persia – storia di un viaggiatore per caso: Peripezie di un marinaio olandese al tempo di Alessio I Romanov e Suleiman I Safavide, La Case Books, 2023

Una storia di donne persiane: Il romanzo di Humāy e Nahid, La Case Books, 2023.

Il suo ultimo lavoro è Diversamente sole, Edizioni Open, 2025.

Francesca Chiesa: “Diversamente sole” (Edizioni Open), di Francesca Chiesa

Abbiamo chiesto alla nostra amica Francesca Chiesa, veneta da Syros nelle Cicladi, di parlarci del suo ultimo libro “Diversamente sole” (Edizioni Open) da qualche giorno in libreria.

LA QUINTA STORIA

Borges individua, in El oro de los tigres, quattro racconti che percorrono la storia dell’umanità, Los cuatros ciclos.

  • L’inutile difesa di una città assediata. Achille sa che il suo destino è morire prima della vittoria. Omero e Yeats la canteranno.
  • La storia di un ritorno. Quella di Ulisse; e quella degli dei del Nord.
  • La storia di una ricerca. In passato, fortunata – Giasone e il Vello. Nella modernità, sconfitta – l’Achab di Melville, il K. di Kafka.
  • La storia del sacrificio di un dio. Attis, Odino, Cristo.                                        

Inevitabilmente, ne manca una: l’innamorato di Maria Kodama forse l’ha dimenticata, forse non la conosceva. Anche noi vorremmo dimenticarla e invece va trasformata in racconti, in una quantità di racconti, nella maggiore quantità di racconti possibile: tutte le storie di tutte le solitudini di tutte le donne.

Per raccontare si possono usare romanzi o racconti. Anche poesie, che sono tuttavia racconti per immagini. Io ho scelto i racconti. Un racconto non è un romanzo breve, un racconto quando riesce proprio bene è un pugno allo stomaco, un lampo che ti lascia il segno sul fondo della retina. Un romanzo è progettato per un ambiente, un racconto è prodotto da un ambiente.

L’ambiente che produce le mie storie è un’ampia area che comprende il mondo indoiranico, la Russia a nord, a sud e ovest la penisola araba e l’Africa orientale, e in parte l’area mediterranea. Le terre in cui ho trascorso la mia vita, ma anche il mondo dove il racconto è nato, in forma di novella.

Il romanzo, che in un tempo assai lontano fu poema epico e successivamente romanzo alessandrino o greco-romano che dir si voglia, poi da roman cortese divenne romanzo borghese e tutto questo percorso fece senza che mutassero gli elementi che lo caratterizzano: essere un concatenarsi di eventi in forma causale e svolgimento temporale; essere l’espressione degli strati dominanti della società di una determinata epoca.

La novella/racconto è il memorandum della vita quotidiana, ciò che si annota per fissare la memoria, per conservare il ricordo. Il racconto mi ė sempre apparso lo strumento ideale per narrare un mondo in cui il reale ė ciò che accade.[1]

I miei racconti sono prodotti dai luoghi in cui sono vissuta. Dal tentativo di cogliere le forme di vita che fanno di ogni luogo ciò che ē.

Se fossi stata brava a usare matita e pennello, avrei disegnato l’eleganza delle euforbie in Eritrea, la fioritura degli Alberi di Giuda che tinge di sangue le strade del centro di Teheran, l’oro del brevissimo autunno di Mosca, l’azzurro del crudele mare di Libya.

Se fossi stata metodica, avrei annotato le ricette della cucina greca che amalgama oriente e occidente; le tradizioni della nostra cucina di campagna, arte di nonne che custodivano il segreto del soffritto; la chiave dello zafferano persiano che profuma e del colchico che uccide; il mosaico di colori del fattush libanese che fa dimenticare e si prepara insieme, sedute intorno a un tavolo a tagliuzzare.

Invece mi piace scrivere e così racconto quello che conosco meglio: le donne, perché sono donna, e la solitudine, sostantivo di genere femminile. Cercando di capire, donna dopo donna, chi davvero sostiene il peso di questa solitudine.

Dalla presentazione di Diversamente sole:

“Diversi sono i modi di essere donna che puoi incontrare sulle strade del mondo, ma c’è un aspetto dell’esistenza che ci accomuna tutte e appartiene solo a noi: la solitudine.

Questo è un libro scomodo, non racconta storie a lieto fine, anzi, le storie che racconta appartengono al genere di quelle che non finiscono mai.

Di tutte una soltanto, a mio giudizio, si risolve in una speranza di serenità: potrebbe essere definita fiaba di una nipotina che trova un nonno, ma questa è solo la seconda parte di La vergine di Malindi e La figlia della vergine.

Delle altre posso dire che offrono un’unica rassicurazione, si svolgono in una realtà molto lontana dalla nostra. Tranne l’ultima, che appartiene al passato povero della mia terra, il Veneto, al tempo in cui la solitudine si mescolava con la povertà e generava mostri: Tre + due ragazze belle, vendono il poco che hanno.

La trovi ovunque, la solitudine, negli interstizi della vita altrui e ovunque ci sia da portare pesi, nascoste agli occhi del mondo o appena appena sogguardate, come la donna che sputa quasi di nascosto sui dittatori (Ma i dittatori sognano isole sbagliate?) e le ragazze di Tripoli che rifiutano quelle di un altro colore.

Il mare che divide la Libia dalla Sicilia ne sa qualcosa, di solitudine: dentro uno di quei gusci di noce che ballonzolano disperatamente sulle onde, ho lanciato uno sguardo e ho trovato una novella Sherazade, il suo nome è Haben e rappresenta tutte le mie allieve eritree, e ricorda Tutte quelle in fondo al mare.

Ogni donna vive con la sua peculiare solitudine: non fa molta differenza che gliel’abbia regalata il mondo o se la sia ella stessa confezionata, come accade ad esempio a Sikina, la protagonista del racconto Di corsa, che ha sposato un uomo speciale ma se n’è accorta troppo tardi.

Ci sono le solitudini coraggiose, nobili, fiere e c’è la solitudine delle donne che vivono in mondi meschini che le hanno plasmate ma di loro non sanno che farsene: sono Quelle del Waddan, appendici di un mondo che si sente privilegiato

La solitudine ti guarda sempre con lo stesso volto, ma non tutte le storie di solitudine si assomigliano. Ci sono quelle che ti lacerano dentro e ti fanno sentire corresponsabile di quanto accade: ad Afra di Tawergha e alla figlia di Rosa, a Ghinda, cui è stato fatto assaggiare l’amaro Frutto di passione. Alle donne che mangiano insieme Fattush a Beiruth: sono amiche, in compagnia, allegre e felici: non dura.

C’è la gioia di Azadeh, che significa libertà in persiano: libera di vagare sola tra i misteri e gli incantamenti del Gran Bazar di Teheran. La mia gioiosa e stordita euforia – sì, la protagonista di Acido lisergico sono io – che sogna donne colorate, danzanti intorno al mio letto d’ospedale. E ancora Federica e Tahereh, senza uomini e senza soldi, che ubriacano di Uova sode la loro solitudine e lanciano le bucce giù dal ponte che congiunge Massawa e Taulud.

Ci sono anime rinsecchite, come quell’anziana ricca e colta persiana che non ha più nulla per cui vivere se non l’organizzazione del più perfido Matrimonio d’amore. C’è La solita vecchia storia degli uomini che inventano malignità sulle donne, e quella più lontana che racconta Come muoiono le regine. Sole, come volete che muoiano: all’ora sesta, quando tutti muoiono.

E poi vi racconto di una madre che non capisce, in Quelle della Qabila, e di una che s’innamora di Alex/Iskandar detto Alessandro Magno

C’è una sola storia, in questa raccolta, che narra di una solitudine condivisa, tra un pirata e una principessa: l’Isola Verde esiste, potete cercarla in Eritrea, loro due li ho solo sognati”.


[1] Ludwig Wittgenstein, Tractatus logicus-philosophicus 1.1, 1922.

Francesca Chiesa

Francesca Chiesa, classe 1955, laureata in filosofia. 

Ha lavorato per il Ministero degli Affari Esteri in Iran, Russia, Grecia, Eritrea, Libia, Kenia. Dal 2019 vive col marito prevalentemente a Syros, nelle Cicladi. 

Pubblicazioni recenti:

Dalla Russia alla Persia – storia di un viaggiatore per caso: Peripezie di un marinaio olandese al tempo di Alessio I Romanov e Suleiman I Safavide, La Case Books, 2023

Una storia di donne persiane: Il romanzo di Humāy e Nahid, La Case Books, 2023

Il conte di Montecristo, opera aperta? di Francesca Chiesa

Lunedi 13 gennaio RAI Uno trasmetterà la prima puntata di una nuova  miniserie dedicata a Il Conte di Montecristo.

Siamo a 180 anni esatti dalla pubblicazione in feuilleton dell’ultimo capitolo del capolavoro di Alexandre Dumàs: a quell’epoca, 1845, il romanzo aveva già richiesto al suo autore un anno e mezzo di fatiche.

L’ultima puntata della fiction televisiva andrà in onda il tre febbraio e la fine della storia sarà quella che tutti conosciamo.

Un mese da trascorrere con Edmond Dantès, dunque, il che mi sembra un’ ottima occasione per accennare a un interrogativo rimasto fino a ora senza risposta: Alexandre Dumàs ha mai ideato un seguito a Montecristo

Secondo Claude Schopp – massimo esperto dell’opera di Dumàs – anche nel caso di quest’opera pare che Alex (come lui amava firmarsi)  abbia durato gran fatica a separarsi dal personaggio con cui aveva convissuto per lungo tempo, …a lasciarlo scomparire dietro la linea dell’orizzonte mediterraneo.

Schopp ci presenta tre fatti e nessuna risposta: 

– l’ultima nota dell’ultimo capitolo della edizione originale del romanzo: L’editore si ripropone di pubblicare prossimamente un epilogo che l’autore sta attualmente rifinendo. Siamo nel 1845, gennaio come abbiamo detto;

–  successivamente, nel marzo del 1851, il nostro romanziere scrive ad Auguste Maquet – il suo principale collaboratore – esortandolo a pensare a un possibile finale alternativo per Montecristo.: per Claude Schopp Dumas si riferirebbe qui a un adattamento teatrale del romanzo, dal titolo Villefort : drame en cinq actes et dix tableaux;

–  il 16 dicembre del 1853, quasi una decina di anni dopo la pubblicazione dell’ultimo capitolo del suo capolavoro,  Alex Dumàs e l’editore Alexandre Cadot firmano un contratto dal quale risulta chiara la volontà di dare un seguito a Il conte di Montecristo. Vediamo l’articolo 2: “Le parti si riservano di stabilire un contratto speciale per il seguito di Montecristo, che non è compreso nei presenti e di cui, al rifiuto di monsieur Cadot, monsieur Dumas potrà trattare con altri etc…”

Dopo di che il silenzio sembra calare sull’ipotesi di una diversa conclusione, o addirittura di un seguito, per Il Conte di Montecristo. 

Emersioni

La sezione Libri del motore di ricerca Google è un ricettacolo di meraviglie. 

L’altro giorno ne stavo scorrendo i titoli in cerca di qualche periodico del 1859 che desse notizia del passaggio di Alexandre Dumàs a Hermoupolis, capoluogo di Syros, isola delle Cicladi dove vivo da circa cinque anni.

Durante la ricerca mi è passato sotto gli occhi il frontespizio di una pubblicazioncina ottocentesca: “Il conte di Villefort ed il conte di Montecristo dramma in cinque atti e nove quadri di A. Dumas ed A. Maquet”.

Se non fosse stato per quei due nomi che attiravano l’attenzione, vale a dire il Maestro e il suo principale ghostwriter, l’insieme non attirava certo alla lettura ma me la sono ugualmente sobbarcata.

Ricevendo alla fine la mia ricompensa che riporto così com’è, di poche parole.

SCENA ULTIMA,

Massimiliano, Monte Cristo e Valentina.

(Una figura coperta da un velo scende dalle rocce e s’ avvicina lentamente alzando il velo. È Valentina coronata di bianche rose).

Mas. Dio! il cielo s’ apre per me e ne discende un angelo …. esso assomiglia a quello che io ho perduto.”

Val. Massimiliano! Massimiliano! 

Mas. Valentina! Valentina! 

Val. Mio adorato Massimiliano! 

Mon. Valentina, ora più non avete il diritto di separarvi da colui che vi ama ….. da colui che se io non era si sarebbe ucciso sul vostro cadavere. lo bo reso l’uno all’ altra: la mia missione è compiuta: ho punito i colpevoli, ho ricompensato i buoni. Dio mio! se mi sono ingannato abbiate misericordia di me! e nel giorno finale ponete sull’infallibile vostra bilancia tutto quel poco di bene che avrò operato.

Fine”

Confrontando questa scena con il capitolo CXVII/Il 5 ottobre che conclude Il conte di  Montecristo, risulta evidente che non c’è corrispondenza: niente di male, salvo che gli autori di questa ultima scena sono gli stessi di quell’ultimo capitolo, che la precede di circa sei anni.

Il dato più eclatante è che nella pièce teatrale, più recente rispetto al romanzo, non troviamo traccia della dolce schiava greca Haydée, innamorata da sempre di Montecristo. 

Potrebbe trattarsi di un primo abbozzo per una conclusione diversa da quella consegnata? Quella che evidentemente non soddisfaceva l’autore anche perché, a voler dire le cose come stanno, non sembra essere stata frutto di una scelta meditata e consapevole. 

Ce lo racconta lo stesso Dumas che, da istrione qual era, nel suo Grande dizionario di cucina, ci presenta il bozzetto di una festa di matrimonio in cui il testimone della sposa, che è poi il grande scrittore in persona, circondato da convitati allegri e ridanciani afferra una penna e in pochi minuti consegna ai presenti in festa le pagine finali  di Montecristo

Fosse stato presente Rossini, suo grande ex-amico per questione di maccheroni, avrebbe sicuramente ammirato la scarsa serietà professionale con cui Alex abbinava i piaceri della scrittura a quelli della gola. Chissà, com’è andata davvero! 

Strutture

Non si può negare che il veliero lontano sulla linea dell’orizzonte, che scompare portando con sé il Vendicatore placato e la sua giovane pupilla, sia e sia stato per molti l’immagine-simbolo della vicenda di Edmond Dantès, emblema di  un certo tipo di successo che sicuramente ha affascinato anche Dumàs, uomo dalle mille concubine come lo definisce Schopp. Potere, ricchezza, fascino e la donna ideale al proprio fianco: giovane, bella, esotica e soprattutto schiava. 

Ma Alexandres Dumàs – figlio di Thomas Alexandre Davy de la Pailleterie detto “il Generale Dumas” e nipote di Alexandre Antoine Davy, marquis de La Pailleterie – è un’ altra cosa, è uno scrittore di rango.

Ovvero, uno scrittore che conosce gli schemi classici e li applica a contenuti fortemente innovativi, come nel caso di Montecristo, la cui vicenda può essere parzialmente sovrapposta a quella dell’Ulisse omerico. 

In sintesi: Ulisse, perseguitato da un dio che gli impedisce di tornare in patria a causa di un peccato di hybris/orgoglio, non può ribellarsi ma solo cercare di resistere e superare le difficoltà; diventa eroe quando distrugge gli uomini che si sono impadroniti della sua casa e della sua donna e riconquista il suo stato di re.

Montecristo si presenta ugualmente colpevole, peccando d’orgoglio nel momento in cui si sente invulnerabile e non riconosce i nemici da cui è circondato.

Per punizione gli viene tolto tutto quello che ama – padre, donna, famiglia – ma lui dimostra di essere ingrado di resistere alle prove che deve affrontare: carcere, auto-formazione, fuga. 

Tornato nel mondo, distrugge – come Ulisse – coloro che lo avevano privato della sua vita. 

A questo punto le storie divergono, apparentemente a causa del diverso comportamento delle due donne in attesa, Penelope e Mercedes. Ma è proprio così?

Si tende spesso a dimenticare, quando si parla della fedelissima Penelope, che Ulisse si ripresenta a corte proprio nel momento in cui la sua sposa si è convinta ormai di essere la sua vedova e ha indetto una gara di tiro con l’arco tra i suoi pretendenti: il vincitore otterrà la regina in moglie.

Non molto diversa è la situazione della catalana: sfiancata dall’inutile attesa e dalla povertà, si rivolge allo spasimante che le sta da sempre accanto. Quello che a Dantes appare come tradimento è un cedimento, riprovevole ma non colpevole: soprattutto e prima di tutto, Mercedes non smette mai di amare Edmond. 

Amor, che traverso fortune, non intermette dall’essere eterno.

L’abbiamo provato in molti.

La ricerca continua

Se le cose stanno così, se Alex Dumas ha infisso nel cuore del personaggio Mercedes l’ amore per Edmond, se non ha cancellato dal cuore di Dantes il volto di colei che era stata la sua promessa sposa, perché non li riunisce? Perché non lo fa finalmente celebrare, questo matrimonio mancato?

Forse perché non è un cantore errante ma un uomo dai gusti dispendiosi, amante della buona cucina e delle belle donne?

Perchè Haydée la greca rappresenta l’ideale esotico del suo tempo?

Perché la fuga dell’uomo maturo con la giovane innamorata è tema più attraente, e quindi far vendere di più rispetto a un ritorno al vecchio amore che è quasi una moglie?

Eppure abbiamo visto che, in fin dei conti, Dumàs non era soddisfatto: forse perché quella scelta gli appare per quello che di fatto è, un ripiego. 

Un eroe non si rassegna a perdere la donna amata, perbacco!

Allora?

Mercedes è a Marsiglia, non spera nulla ma c’è.

Francesca Chiesa

Francesca Chiesa, classe 1955, laureata in filosofia. 

Ha lavorato per il Ministero degli Affari Esteri in Iran, Russia, Grecia, Eritrea, Libia, Kenia. Dal 2019 vive col marito prevalentemente a Syros, nelle Cicladi. 

Pubblicazioni recenti:

Dalla Russia alla Persia – storia di un viaggiatore per caso: Peripezie di un marinaio olandese al tempo di Alessio I Romanov e Suleiman I Safavide, La Case Books, 2023

Una storia di donne persiane: Il romanzo di Humāy e Nahid, La Case Books, 2023

Massawa e il Regno delle Isole, di Francesca Chiesa

A un anno dall’arrivo in Eritrea, ero diffidente verso Massawa, cittadina che mi appariva come una meta troppo abituale per i fine settimana di stranieri d’ogni genere. Mi sono decisa solo in un giorno di maggio, già caldo ma non soffocante di umidità.
Appena arrivata ho ignorato l’albergo e mi sono diretta verso il vecchio centro turco-italiano, accolta dalle strade deserte del mezzogiorno, prima incantata e poi abbacinata. Fu il momento, quello, in cui il fiume del mio tempo deviò per sempre dal suo alveo e si avvolse su stesso, come si avvolge il drago intorno alla perla che custodisce sul fondo dell’oceano.
Ho attraversato vari mondi da allora, fino a quest’ultima isola da cui ora scrivo, ma non ho mai lasciato Massawa, l’antica Ba’di, persiana prima di essere turca e italiana.


L’isola è la forma della solitudine voluttuosa. Un insieme d’isole non costituisce di per sé un arcipelago. In ogni isola qualcosa accade. Le isole differiscono fra loro in passato e futuro, parole e pensieri.

L’isola è la forma e Massawa il nome. Circondata dal mare, compiuta in sé. Sull’isola sorge una città che porta il suo stesso nome. L’isola ha forma di parallelepipedo, con una sorta di coda che si allunga a un angolo. È collegata per mezzo di un terrapieno a un’altra isola di forma più irregolare, a sua volta unita alla terraferma da un lungo ponte. La Città medievale, in arabo Madina al-Qadīma, occupa meno di metà della superficie dell’isola ed è circondata da mura che risalgono al periodo della dominazione turca. Sono quindi più recenti dell’abitato, che si è sviluppato a partire dalla occupazione fenicia. Nella parte restante dell’isola si è sviluppata la città nuova, un armonico agglomerato di case e piazze e chiese sorte in epoca relativamente recente, al tempo degli ultimi colonizzatori. Quando sorse la Città, il Regno delle Isole era ormai in piena decadenza. A nulla erano valsi gli sforzi che gli ultimi sultani avevano moltiplicato per assicurarsi il controllo della terraferma. Il Regno delle Isole si era sviluppato nel settimo secolo dell’era cristiana, primo dell’Egira, popolando di giardini e mercati isole madreporiche dai nomi incerti e fluttuanti. Fu inizialmente punto di approdo e stazione di rifornimento per i mercanti di schiavi ed ebano, rifugio di schiavi ribelli e principi in fuga, terra di confino e carcere imperiale. Si trasformò ben presto nel primo trampolino di lancio della fede islamica in terra d’Africa. Tutto ciò che era lusso vi era commerciato, tutte le navi che transitavano vi depositavano tasse ingenti. Tutte le duecento nove isole di cui era composto vantavano almeno un palazzo, una moschea e un bazar, ad eccezione dell’Isola delle Punizioni, dove infelici di ogni razza e paese morivano affannosamente nel tentativo di uscire da pozzi adibiti a prigione. Solo pochissimi riuscivano a salvarsi. Il Regno delle Isole raggiunse il suo massimo splendore dopo l’anno Mille, decadde dopo mezzo secolo, insieme a Venezia ma più velocemente.


Gli esseri viventi cui le isole danno ospitalità e rifugio appartengono per lo più al genere femminile. Proprio al centro di una di queste isole, la più grande, si apre una radura costellata di pozzi. C’è chi sostiene che siano stati scavati al tempo dei Persiani. Il numero dei pozzi è uguale al numerodelle isole. Ogni settimana, dopo il giorno del riposo, gli abitanti delle altre isole attraversano i bracci di mare che li separano dall’Isola dei Pozzi per fare provvista d’acqua. Si muovono su imbarcazioni che sembrano fatte di paglia e fango. L’isola dei pozzi è custodita dalle pari, bellissime fanciulle. Tutti gli uomini dell’arcipelago s’innamorano di una pari almeno una volta nella vita, senza essere mai ricambiati. Perché loro sono fate. 
C’è un’isola, nel Mare d’Africa, di cui nessuno conosce il nome. Quando vi sbarcai la prima volta, era tutta sabbia e palme e oro e verde e azzurro. Gli abitanti vivevano di commerci e favole, di cui erano ghiotti. Usavano ospitare, con grande piacere, i corsari di tutti i mari. Quelli che viaggiano trascinandosi appresso enormi carichi di racconti che non vedono l’ora di depositare in qualche taverna o in qualche isola. Sull’isola s’insediò, un giorno, un predone. Quando vi ritornai, la trovai circondata da un muro di cemento. Ho incorniciato la mia isola, si vantava il predone. Nessuno più, tra gli isolani, ricordava il profumo e il colore del mare.
Gli armatori di navi, arabi e persiani, sanno quando è il momento di salpare, lasciandosi alle spalle la costa dei banadīr. Non ignorano che l’Oceano Indiano – violento e tenebroso tra i due equinozi – si rischiara e si calma quando il sole arriva al segno del Sagittario. Quanto è profonda la loro conoscenza dei movimenti del mare, tanto è inesplicabile il fatto che tutto ignorino della configurazione di quella vasta distesa d’acqua. Spendono lunghe ore a immaginarne i contorni, nelle notti di bonaccia, e la paragonano ora a un uccello ora a una foglia ora al profilo di una giara. Tratteggiano linee sulla carta, sulla seta, sul legno e il tracciato non è mai lo stesso. A eccezione dell’Isola dei Tre Desideri: non c’è chi non ne abbia una conoscenza particolareggiata e tutti disegnano con accuratezza il profilo delle sue coste. Completo di golfi e seni e rientranze, corsi d’acqua e pozzi e villaggi, rilievi e macchie di vegetazione. Una croce cremisi sta a indicare la pietra su cui si deve posare il capo per dormire e sognare l’avverarsi di tre desideri.


Tra le tante isole binarie che affollano il Gran Mare, l’Isola degli Haiku e quella dei Poemi attirano sovente la mia attenzione. Mi perdo tra le due, non sapendo quale preferire.
Nell’isola dove sostano a novembre i marinai di Rum, di ritorno dall’India; dove scambiano con eccelsi profumi i loro abiti usati e qualche vetro colorato. Qui vive una donna. Coperta malamente da una stola di tela di sacco, trascina i lunghi capelli nella sabbia. Passa la maggior parte del suo tempo in faccia al mare, sdraiata sopra un mucchio di rifiuti. Ha gli occhi persi e quelli che sembrano rifiuti sono in realtà balle di merce, invenduta e dimenticata. Il lino finissimo di cui è intessuta la stola che porta è tutto incrostato di sabbia. Molte cose vengono scordate nei porti e lei su questo contava, quando è rimasta indietro al momento di reimbarcarsi.
Nell’Isola delle Sottili Scaltrezze vivono una cortigiana e la sua pupilla. La cortigiana è una donna molto magra. Si copre con vestiti ampi per celare la sua magrezza e sorride sempre. Si dice che un tempo questa fosse l’isola dove un ghul opprimeva gli abitanti con il pretesto di proteggerli. Un ghul dal volto bruciato, il cui padre si era impadronito dell’isola arrivando dal paese degli obelischi, quel paese che non ha sbocco al mare.
Nell’Isola dei sessantasette scalini si preparano al combattimento in boschetti ariosteschi, e così le loro donne; si lanciano insulti e provocazioni e così le loro donne. Il Bianco e il Nero combattono: il Nero è alto e possente, il Bianco di fronte a lui è una sottile verga d’acciaio. Nessuno dei due vince ma entrambi muoiono oppure se ne vanno. Rimangono le donne, vestita una di rosso e una di azzurro e non si sa chi amava chi.
So per certo che l’Isola di Shajara un tempo era un albero e mutava di colore con il succedersi delle stagioni. D’autunno, al tramonto, s’infuocava d’oro rosso e i naviganti costruivano leggende su di lei. Anche Shajara è scomparsa, com’è scomparso il mare insieme al profumo del fuoco.
C’è un’isola di cui non ricordo nome e posizione ma solo che è cinta da un quadruplice ordine di colonne di marmo antico, coperte da venature azzurre e verdi. Di antica umidità. È abitata da un jinn di nome Jamīl. Questo so di lui: se c’è chi lo guarda immediatamente sparisce, lasciando dietro di sé un piccolo gorgo di luce. Molti pensano di averlo visto, in molti luoghi diversi. A tirare un carretto nel bazar di Tehrān, per esempio. È anche raffigurato tra i dignitari che salgono, a passi lenti, la scalinata ormai inutile dell’Apadana.
L’Isola delle Trasparenti Presenze deve il suo nome a una diafana specie di granchio, del colore che hanno le perle prima di essere tali. Ieri sera c’è stata una festa sull’Isola delle Perle che hanno il colore delle rose. Della festa questa mattina rimane soltanto un tavolo coperto da una tovaglia bianca. A lato del tavolo, due bottiglie e un calice. Nessun ricordo, invece, della luna gigantesca e rossa che si è levata all’improvviso nella notte. Come sempre accade in quella parte di mare che alcuni chiamano Golfo Arabo, altri Oceano Indiano, altri ancora Mare Eritreo.

Francesca Chiesa

Francesca Chiesa, classe 1955, laureata in filosofia. 

Ha lavorato per il Ministero degli Affari Esteri in Iran, Russia, Grecia, Eritrea, Libia, Kenia. Dal 2019 vive col marito prevalentemente a Syros, nelle Cicladi. 

Pubblicazioni recenti:

Dalla Russia alla Persia – storia di un viaggiatore per caso: Peripezie di un marinaio olandese al tempo di Alessio I Romanov e Suleiman I Safavide, La Case Books, 2023

Una storia di donne persiane: Il romanzo di Humāy e Nahid, La Case Books, 2023