Fausta Cialente: “Cortile a Cleopatra” (La Tartaruga), di Cristiana Buccarelli

Scrivere un secolo fa dall’altra parte del Mediterraneo: Cortile a Cleopatra  

Fausta Cialente è un’altra grande scrittrice che può collocarsi tra le autrici della letteratura femminile dell’esilio, come le stesse Elisa Chimenti di cui si è scritto qualche tempo fa, come Agotha Kristov e molte altre ancora. Infatti pur essendo italiana, nata a Cagliari nel 1898, anche nel destino della Cialente c’è lo spostamento, prima in varie città italiane, negli anni Venti in Egitto per seguire il marito, Enrico Terni, compositore e agente di cambio della colonia italiana di Alessandria d’Egitto e infine, dopo moltissimi anni, il ritorno in Italia a Roma. 

Da tempo mi ripromettevo di rileggere il suo prezioso romanzo Cortile a Cleopatrascritto nel 1931, il quale dopo il primo rifiuto di Mondadori fu pubblicato per la prima volta nel 1936 dall’editore Corticelli, e poi nel corso del tempo da differenti case editrici, quali Garzanti (1962), Mondadori (1973), Dalai Editore (2004), La Tartaruga (2022).     

Finalmente sono riuscita a rileggere questo romanzo dalla scrittura viva, fluida, originale; la capacità narrativa della Cialente sfida il tempo e la rende una scrittrice assolutamente moderna. Lei stessa scrive :<< Un libro che si apre è come un sipario che si alza. I personaggi entrano in scena. La rappresentazione comincia>>.

E proprio di una sorta di rappresentazione teatrale si può parlare in seguito alla lettura di Cortile a Cleopatra. Si tratta infatti della narrazione di una scena che può definirsi corale, con al centro un personaggio tragico e scanzonato al tempo stesso, allegro e triste un po’ come la vita stessa; il bel Marco, figlio di una greca e di un italiano, un giovane irrequieto, che ama solo leggere e camminare ed è molto amato dalle donne.

’Nessuno, nessuno poteva tenerlo quel ragazzo irrequieto e leggero come gli aquiloni di carta che i bambini mandano su ai primi venti d’aprile’’

Il punto centrale della scena nel romanzo è il cortile di questo sobborgo di Alessandria d’Egitto, chiamato Cleopatra. E così il sipario dell’opera si alza e la prima scena, di grande visibilità, racconta di Marco che sonnecchia sotto un fico del cortile con vicino la sua scimmietta.

‘’ Seduta sul ramo basso del fico la scimmia sorvegliava Marco che dormiva lì sotto sdraiato all’ombra festosa e ondeggiante delle foglie; dormiva con la bocca aperta e aveva sul petto la camicia sbottonata e macchie di sole…’’. 

Il cortile, su cui affacciano le varie abitazioni, è un coro di voci e di vite diverse, in cui tutti si danno da fare per sopravvivere; la prostituta, il pellicciaio, l’arrotino, la vecchia maga, una comunità multietnica e irrequieta. Laggiù abita anche la madre di Marco in una piccola casa ai confini di Alessandria d’Egitto; il ragazzo l’ha raggiunta dall’Italia, dove ha vissuto per molti anni con il padre pittore di appartamenti, morto da poco tempo e di cui ha subito disperso il poco danaro lasciato. In Marco appare indelebile il ricordo dell’infanzia e del padre:  

“…ma poi c’erano quegli altri ricordi, lontanissimi, ed egli vi s’attaccava
angosciosamente, ora come nei giorni della morte del padre, quando aveva sentito che il vivo dolore li respingeva e li sbandava, poi che urgevano soltanto lo sfogo del dolore presente e il problema dei giorni a venire. Ma già allora aveva deciso di non perderli, e nel cuore pieno di lacrime che la solitudine gli faceva ingoiare, erano rifioriti a stento: il sillabario, la tosse canina, un circo equestre fuori porta, l’apprendista ladro, la bottega chiusa per andare dal dottore e l’impressione che gli faceva la porta sprangata in un giorno di lavoro. Suo padre aveva quasi sempre due atteggiamenti che insistevano sugli altri: lo aiutava a compitare e gli teneva la mano che reggeva la penna, oppure, seduto vicino al letto, gli mutava una flanella, gli strofinava il petto, gli metteva un cataplasma sulla schiena. Durante le notti di febbre così lunghe e faticose il bambino si svegliava d’improvviso tutto in sudore e vedeva un gigante dormire in terra sopra i sacchi della calce, avvoltolato nella coperta.’’

Nel sobborgo di Cleopatra Marco viene accolto, oltre che dalla madre, una donna ormai logorata dalla vita, anche da una serie di personaggi da cui verrà a volte amato, a volte odiato e molto spesso giudicato e chiacchierato per la sua indolenza, per il fatto che non si cerchi un lavoro per vivere ma preferisca farsi mantenere dalla madre: in fondo il modo di concepire la vita di questo giovane straniero appare a loro incomprensibile. Tra i personaggi c’è Haiganush, piccola mangiatrice di pistacchi che spesso lo attacca e gli dà del vagabondo e del fannullone, c’è Abramino il pellicciaio che lavora sempre, aiutato da sua moglie Eva, c’è la loro figlia Dinah, da cui Marco è ammaliato, poi c’è anche Kikì (figlia di un caffettiere italiano e di un’araba), una creatura libera e deprivata, maltrattata dal padre, con cui Marco fa lunghe passeggiate sulle dune e che sente vicina a sé. Tuttavia Marco si fidanzerà con Dinah con il beneplacito del padre pellicciaio che gli proporrà di essere inserito nella ditta di famiglia, ma più il matrimonio si avvicinerà più il ragazzo non si sentirà felice, come qualcuno che deve adempiere a un obbligo, e infine sedurrà anche Eva, la madre di Dinah. Ad un certo punto il ragazzo deciderà di fuggire da tutti e tutto:

‘’Scese di corsa sulla spiaggia e quando fu in basso guardò su… ma fu abbagliato. (…) La luce non scendeva dalla luna ma balzava su dal cortile in un gran fascio tremolante, lanciata verso il cielo, e su, su, s’allargava, si divideva in altri raggi palpitanti di un rosa magico, liquido, di meraviglioso splendore, che poi ricadevano scivolando a ondate lungo la curva del cielo e gocciolavano bassi nel mare. (….)Era quello il centro del mondo, forse? Non l’aveva saputo lui.’’

In quello che può definirsi un romanzo di formazione, la scelta finale di Marco è di andare verso il mare, verso la libertà, in qualche modo di restare fedele a sé stesso: questo spirito irrequieto dall’identità irrisolta è in realtà un viandante nel mondo, che cerca sempre un altrove e in tal senso, potrebbe considerarsi, a mio avviso, un alter ego della stessa autrice, la quale riesce a esprimere attraverso il suo personaggio quel senso di sradicamento, di non appartenenza, quel suo sentirsi sempre una straniera che valica nuove terre. Il suo è un personaggio nuovo, ma che tuttavia appartiene ad ogni tempo e in cui forse molti di noi possono riconoscersi. C’è inoltre in questa narrazione la volontà, come scrive la stessa autrice, di raccontare anche quella terra d’Egitto in cui le era capitato di vivere per molti anni e che aveva conosciuto profondamente: <<La rappresentazione di Cortile a Cleopatra è quella in cui protagonisti sono anche i colori e le atmosfere di un mondo poco raccontato, l’Egitto che avvolge e coinvolge con i suoi odori e i suoi rumori>>.

Cristiana Buccarelli 

Cristiana Buccarelli è una scrittrice di Vibo Valentia e vive a Napoli.  È dottore di ricerca in Storia del diritto romano. Ha vinto nel 2012 la XXXVIII edizione del Premio internazionale di Poesia e letteratura ‘Nuove lettere’ presso l’Istituto italiano di cultura di Napoli. Ha pubblicato la raccolta di racconti Gli spazi invisibili (La Quercia editore) nel 2015, il romanzo Il punto Zenit (La Quercia editore) nel 2017 ed Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) nel 2019. Con Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) ha vinto per la narrativa edita la V edizione del Premio Melissa Cultura 2020 e la IV edizione Premio Internazionale Castrovillari Città Cultura 2020. Nel 2021 ha pubblicato il suo primo romanzo storico I falò nel bosco (IOD Edizioni), col quale ha vinto per la narrativa edita la XVI edizione del Concorso letterario Internazionale Città di Cosenza 2024. Nel 2023 ha pubblicato il romanzo Un tempo di mezzo secolo (IOD Edizioni), finalista per la narrativa all’XI edizione del Premio L’IGUANA- Anna Maria Ortese 2024. Nel 2025 ha pubblicato Taccuini di viaggio (Cervino Edizioni 2025). Collabora con la rivista letteraria Il Randagio.

Fausta Cialente: “Le quattro ragazze Wieselberger” – uno Strega dimenticato, di Sonia Di Furia

Questo meraviglioso romanzo, in cui l’autrice coinvolge il lettore attraverso la forza evocatrice delle parole, narra la storia delle sorelle Wieselberger e le vicende della loro famiglia, in un arco temporale che va dal 1860, anno dell’unificazione dell’Italia, alle due guerre mondiali. Si prende in considerazione l’edizione Mondadori-De Agostini nella collana “Grandi premi della letteratura italiana” del 1996. Il romanzo è vincitore del Premio Strega 1975.

Angelo Vivante l’8 dicembre del 1910 scrive su La voce: “che nella Giulia vivono da secoli due popoli; che l’uno (l’italiano) si è nutrito fin d’ora dell’altro (lo slavo) perché questo dormiva, ma ora lo slavo si è svegliato e non si riaddormenterà, mentre l’irredentismo parolaio, regnicolo e giuliano pare pagato apposta per strappare il ridesto dal letto e sospingerlo nel suo cammino. Occorre che chi parla e scrive d’irredentismo, anche professandosi tale, rinunzi a tutto il corredo delle frasi fatte. Dopo di che potrebbe anche darsi che di questo irredentismo, ritemprato in un bagno di realtà, rimanga ancora qualche cosa almen di sincero!” Questo a prefazione del libro.

 Scrive Cavour nel 1860, in una lettera a Lorenzo Valerio, regio commissario in Ancona, che aveva fatto nascere un incidente diplomatico con la Prussia, chiamando in un documento ufficiale Trieste città italiana: “Debbo pregare la S.V. di evitare ogni espressione dalla quale possa risultare che il nuovo regno italiano aspira a conquistare non solo il Veneto, ma anche Trieste con l’Istria e la Dalmazia. Io non ignoro che nelle città lungo la costa vi hanno centri di popolazione italiana. Ma nelle campagne gli abitanti sono tutti di razza slava, e sarebbe inimicarsi gratuitamente i croati, i serbi, i magiari e tutte le popolazioni germaniche, il dimostrare di volere togliere a così vasta parte dell’Europa centrale ogni sbocco sul Mediterraneo. Ogni frase avventata in questo senso è un’arma terribile nelle mani dei nostri nemici che ne approfittano per tentar d’inimicarci l’Inghilterra stessa, la quale vedrebbe essa pure di malocchio che l’Adriatico ridivenisse com’era ai tempi della repubblica veneta, un lago italiano. (Tratto da <<Irredentismo Adriatico>> di Angelo Vivante ed. Parenti). Ancora a  prefazione al libro.

Le prime tre sorelle si chiamavano Alice, Alba e Adele, la quarta Elsa. Adele era bellissima, la più bella fra tutte, non solo in famiglia. Una bionda con grandi occhi neri, alta e snella, e nessuno poté mai sapere quanti cuori palpitarono al suo passaggio mentre in cima alla torre Mìkeze e Jàkeze battevano le ore.  Era il 1872 e, nonostante non fosse lei l’ultima depositaria dell’iniziale che era toccata alle altre, fu quella che, all’incirca diciottenne, ebbe l’occasione di danzare più volte, durante i balli della famosa Società Filarmonica triestina, con quel signor Ettore Schmitz che si rivelerà essere Italo Svevo.

Quando, nei primi decenni del 1800, Vienna aveva preso la decisione di far ampliare il porto di Trieste, che godeva del privilegio di essere porto franco dal 1719, per merito di Carlo VI, padre di Maria Teresa, e poiché ciò causava l’inevitabile progredire dell’edilizia, il governo austriaco aveva mandato in città i suoi più celebri architetti e i suoi più rinomati costruttori. Questo spiegava il carattere viennese che era rimasto ai vecchi quartieri nobili della città, ma come lo stile si fosse mantenuto anche dopo; difatti, assai più tardi la piazza della Posta veniva rifatta, tale da sembrare una piazza di Vienna. Anche il Lloyd triestino, sede della compagnia di navigazione, stava per nascere.

 Nella casa della famiglia Wieselberger il tempo passava e scorreva a un ritmo idilliaco di musica, dolci affetti, vivere cauto ma sereno. Erano anni violenti, in cui la storia non aveva insegnato veramente nulla: l’ombra del Grande Impiccato sarebbe tristemente caduta dal capestro sulla terra (Guglielmo Oberdan, patriota irredentista italiano, impiccato il 20 dicembre 1882 dalla giustizia austriaca per alto tradimento e diserzione in tempo di pace, avendo confessato le intenzioni di attentare alla vita dell’imperatore Francesco Giuseppe); e il re, cosiddetto buono, sarebbe caduto sotto i colpi dell’anarchico Bresci (per vendicare le vittime di Milano, uccise durante le 4 giornate, conosciute come i moti del pane, e punire il comportamento tenuto dal sovrano, l’anarchico italiano, Gaetano Bresci, che viveva in America, tornò in Italia per uccidere re Umberto I di Savoia. I moti iniziarono il 6 maggio 1898 fra gli operai della Pirelli, che accusavano il governo di essere responsabile della carestia che subiva il popolo). Nel frattempo, nella loro villa di campagna, le ragazze continuavano a fare musica, avendo tutte studiato fin da bambine pianoforte con maggiore o minore disposizione. Elsa era anche brava nel canto; la Bella leggeva poesie in lingua italiana e tedesca; Alba, la scorbutica, considerata da tutti l’intellettuale della famiglia, l’ascoltava con passione. 

La villa confinava con un possedimento ancora più ricco e vasto che apparteneva a una famiglia ebrea, i cui discendenti avevano cominciato ad arricchirsi mezzo secolo prima in Somalia ed Eritrea. Molti anni dopo, gli eredi sarebbero andati tutti in rovina, quando le generazioni fortunate erano già scomparse. Uno degli avvenimenti più elettrizzanti che aveva luogo durante la villeggiatura era la vendemmia. Quelle erano giornate quasi sempre bellissime. I vendemmiatori erano in maggioranza sloveni, amici o parenti di Ursula e suo marito Giacomo, i contadini- guardiani della tenuta, anch’essi sloveni. I rapporti con i due coloni erano sempre stati buoni e cordiali e la famiglia non si sarebbe mai permessa in loro presenza e nei loro riguardi un linguaggio men che rispettoso. Nel privato, invece, avevano anch’essi la deprecabile abitudine di chiamarli in dialetto “s’ciavi” o, meglio, “sti maledeti s’ciavi”, incapaci com’erano di interpretare la realtà e capire la situazione nella quale la lunga e abile mano dell’impero austriaco apponeva e aizzava gli uni contro gli altri, in modo che tutti si sentissero offesi e provocati. 

Trieste non decadeva, ma questo non dipendeva dal buon volere o la generosità degli Asburgo ai quali si era affidata completamente, ma per l’inarrestabile decadenza di Venezia. Ciò le permetteva di sviluppare i suoi commerci, ma la incorporava sempre di più nell’impero austriaco, rendendola la porta occidentale dell’immenso retroterra orientale, un destino al quale sembrava naturalmente e geograficamente legata. Gli orrori del razzismo erano ancora lontani; un paio di generazioni sarebbero nel frattempo maturate, invecchiate e morte, ma certi discorsi e toni erano già l’alba dell’orrore. 

Gli avvenimenti che suscitarono nuove memorabili emozioni nella famiglia, al di fuori della permanente ossessione irredentista che ogni tanto saltava fuori nelle discussioni, furono le nozze della primogenita Alice e, qualche anno dopo, la partenza per l’Italia della giovane Elsa, che si recava a Bologna a studiare canto. Il matrimonio di Alice aveva introdotto l’elemento ebraico nella famiglia, che era conosciuta anche per non essere particolarmente osservante del proprio cattolicesimo. Negli anni però il padre aveva preso l’abitudine di dire con ironico disprezzo “quell’ebreo” riferendosi al genero, non particolarmente stimato. In realtà, in mezzo a tante questioni politiche che esacerbavano gli animi e agitavano la città e le campagne, a Trieste l’antisemitismo non era particolarmente diffuso a quei tempi o, perlomeno, non era ostentato, forse perché la comunità ebraica era una delle più ricche e potenti fra gli alti ceti sociali e una simile avversione non si era palesata. 

I sentimenti familiari verso i parenti erano ondeggianti, insicuri, ostacolati dalle vicende storiche, quindi poco inclini all’affetto; nonostante ciò, le ragazze non riuscivano a capire perché un ebreo dovesse valere meno d’un cristiano, anzi non sapevano addirittura dove fosse la differenza. Loro, d’altronde, erano state tenute fuori da qualsiasi pratica religiosa, a scuola erano perfino esenti dalle lezioni di catechismo, che del resto non sempre faceva parte del programma scolastico nell’Italia laica di quei tempi. Pensavano che, quando si è messi difronte a un tempio e invitati ad ammirarne l’architettura, che il tempio dove la gente usa raccogliersi e pregare sia cattolico o ortodosso, sia una sinagoga o una moschea, sono dettagli puramente formali. Ciò che esse guardavano era la pura bellezza.

Da tempo, Lidia, la cugina maggiore, amoreggiava con Felice, nipote del famoso Giacomo Venezian, morto nella difesa della Repubblica Romana nel 1849, in pieno Risorgimento. Anch’esso ebreo, giovane intriso dell’irredentismo familiare, era diventato gran capo del partito nazionalista triestino e della Lega Nazionale. Nel 1908 l’uomo morì e la numerosa comunità irredentista gli riconobbe il merito di aver voluto creare a Trieste le condizioni politiche necessarie a denunciare la Triplice alleanza (Germania, Austria-Ungheria, Regno d’Italia), cosa che puntualmente accadde sette anni dopo allo scoppio della guerra con l’Austria.

In realtà, già allora gli avversari non erano più gli “austricanti”, coloro che alla fine dei conti avevano rappresentato e difeso i grossi interessi di una città tanto ricca, dipendente da uno Stato ancora ricchissimo e potente, e non avevano mai voluto compromettersi con un irredentismo troppo acceso. Gli avversari erano fatalmente diventati i socialisti insieme agli sloveni, una minoranza, indubbiamente, ma la cui nascente solidarietà dava fastidio e forse preoccupava. Questo spiega la trionfale votazione che ebbero gli irredentisti nel 1897.

Dieci anni dopo, la situazione era capovolta e la ricca e ottusa borghesia, nei suoi discorsi, non lasciava mai entrare le questioni dei lavoratori, sembrava anzi volerle ignorare. Nella forma di governo che essa auspicava per la città, quando fosse “divenuta italiana”, la voce dei lavoratori era esclusa. Respingeva la massa condannandola all’emarginazione per antica miseria. Al razzismo, che stava alla base dell’annosa e insoluta questione slovena, si aggiungeva, quindi, l’incomprensione o addirittura l’indifferenza, quando non la sprezzante ostilità nei riguardi dei lavoratori; ma il peso degli enormi sbagli commessi nell’Ottocento, che non furono solamente triestino- irredenti, ma italiani, avrebbero finito, dopo una disastrosa Prima guerra mondiale, per trascinare la nazione italiana nel fascismo, e Trieste con essa. 

Non si dovette aspettare molto, perché le roventi trattative dell’Austria con la Serbia e la Russia, la tracotanza della Germania, le faticose diplomazie della Francia e della Gran Bretagna, che erano durate tutto il mese di luglio, non servirono a nulla: il primo giorno di agosto l’Austria dichiarava guerra alla Serbia e, pochi giorni dopo, la Germania invadeva il Belgio, mentre l’Italia rimaneva neutrale poiché, ufficialmente, la guerra di aggressione dell’Austria era contro il carattere difensivo della Triplice. 

Per quello che riguardava i Wieselberger, erano in quel momento soltanto una famiglia allo sbaraglio costretta a trasferirsi a Firenze. Gli stolti ottimisti che l’estate precedente avevano annunciato il “Tutto finito” per Natale, cioè tutti a casa per il Natale 1914, erano stati tragicamente smentiti dall’autunno e dall’inverno appena trascorsi. La guerra si era svolta soprattutto nelle trincee e si era abbattuta in maniera talmente nefasta e mortale sulle milizie, da portare il soldato Giuseppe Ungaretti ad esprimersi attraverso la parola poetica che interagiva con la storia, quella privata del poeta e quella collettiva dell’umanità.

 Trascorreva intanto quel terribile 1916 e iniziava l’anno più drammatico, il 1917. Gli Stati Uniti erano entrati in guerra al fianco degli Alleati, grosso smacco per gli Imperi Centrali; lo zarismo era crollato in Russia e la parola bolscevismo spaventava tutti. La massa dei combattenti, ormai stremata, non era più formata dagli “eroici soldati che si sacrificavano per l’onore e la grandezza della patria”, ma da “ignobili simulatori” che fingevano di combattere e invece se la squagliavano appena potevano, preoccupati soltanto di riportare “la pancia a casa, la pancia per i fichi”. C’era, insomma, già la puzza di Caporetto che il 24 ottobre sarebbe caduta, seguita dal cedimento del pilastro difensivo del Monte Maggiore.

Qualche anno dopo la fine della guerra, il fascismo si era messo al servizio di una miope politica di conservazione e andava facendosi le ossa. La borghesia, sia gli industriali del nord che gli imprenditori agrari del sud, finalmente si vendicava sulla massa di tutte le paure sofferte dopo Caporetto, le rivolte, gli scioperi, le settimane rosse, e si proponeva di agguantare il potere. Da Milano, una sparuta e scarsa marmaglia in camicia nera e nappe ballonzolanti si radunava in piazza del Duomo per la Marcia su Roma. Seguivano l’assassinio di Matteotti, la morte di Gobetti e di Gramsci e più tardi la guerra d’Etiopia e la Seconda guerra mondiale. Dopo di essa, finisce un’epoca maledetta, durante la quale, ad una ad una se n’erano andate le protagoniste Wieselberger, ormai anziane ma sempre vive nel tragitto della storia.

L’autrice, nel consegnare alle stampe le “sue quattro ragazze”, si libera della dolorosa fatica di chi tornando con la mente indietro nel tempo, negli anni e nei decenni, non può rimanere distaccato dalla storia che non è, come afferma Pasolini, unica e unilineare, ma ha un suo spessore fatto di persone, luoghi e vicende, gioie e sofferenze. In questo libro, Fausta Cialente ci ha raccontato la sua storia per come l’ha vissuta e si è svolta, a cominciare dalle sue antenate.

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.