Eduardo Savarese: “Una piccola luce” (Alter Ego, 2025), di Maurizia Maiano

C’è sempre, in ogni parola scritta, una piccola luce che tenta di fendere il buio. Il libro è un luogo dove il pensiero diventa casa, dove realtà e simbolo si confondono. Nel romanzo, che ci accompagna, il Castello e le Città dei Sensi Ottusi sono più che luoghi: sono metafore dell’animo umano e del nostro presente, un invito a ritrovare i sensi perduti a cui il mondo digitale sembra condannarci e a “abitare la distanza” che separa l’uomo dal mondo.

C’era una volta un bimbo orfano e senza memoria chiamato Bibo. Doveva intraprendere un viaggio con la sua gatta nera Susan, il suo violino e una piccola lampada di bronzo. Era stato dato loro il compito di  attraversare le Cinque Città dei Sensi Ottusi, dove ciascuna città aveva proibito l’uso di uno dei sensi, costringendo i cittadini a vivere nell’oblio della bellezza. Col violino Bibo avrebbe risvegliato il coraggio di città in città, con la lampada illuminato il mondo che giaceva nelle tenebre dell’incoscienza e della paura. Erano tempi  drammatici quelli che seguirono la Seconda venuta del Cristo. Cristo, constatando condizioni così disperate, aveva deciso di rimandare l’Apocalisse, e le città, per la paura della morte, si chiusero in se stesse.

Gli stili di vita si capovolsero e luoghi ricchi furono ridotti in miseria. La chiara distinzione tra realtà e irrealtà sbiadì. Centri di potere nuovi emersero, imponendo regole rigide e soffocando ogni libera espressione del sentimenti. Drammatici avvenimenti avevano lasciato Bibo orfano di entrambi i genitori. Ora egli appartiene ai figli della Grande Adozione, un’istituzione che si era insediata in un’isola antichissima fatta di terra rossa, altissime montagne e mari burrascosi, ora caldi ora gelidi. Agli occhi delle città, l’isola della Grande Adozione era un luogo perverso e inaccessibile. Il Consiglio dei Maestri e delle Maestre era considerato il male, e gli orfani venivano reputati portatori di disgrazia e sventura. A Bibo toccò come maestra una donna severa chiamata Pazienza, una donna minuta dai riccioli neri e guizzanti. La pazienza aiuta a comprendere gli altri, diceva. Soccorre nelle prove difficili, nelle privazioni, quando al corpo e ai sensi manca qualcosa d’essenziale. La realtà stessa era falsificata, diffondendo ovunque informazioni le cui origini restavano sconosciute.  

Gli esseri umani, presi dall’angoscia della fine, reagirono con un rigore che mascherava un odio profondo per la libertà di coscienza.

Giunse così il giorno precedente la partenza per le Città dei Sensi OttusiPazienza aveva preparato il piccolo bagaglio: la custodia col violino, due ricambi, la lampada e tre vasetti d’olio. Bibo e Susanna sarebbero stati invulnerabili, purché avessero mantenuto integri il violino e la lampada. Il violino è la Musica e la luce la coscienza e la speranza? Pazienza chiese: Vuoi portare le tue perle?

Bibo e Susanna viaggiano attraverso le cinque città, il cui nome richiama un senso:

Nontoccarmi: qui gli abitanti rinunciano al tatto a causa di una malattia della pelle sconosciuta e letale che li ha resi incapaci di sfiorare chiunque. si allontanano cosi l’uno dall’altro.

 Naricispente: l’aria è costantemente sanificata. L’unico odore è quello di alcol e sostanze chimiche, un vuoto olfattivo che domina ogni angolo.

Scontrosa: è una città che ha rinunciato all’udito perché sconvolta da gente chiassosa. Tale mancanza isola gli abitanti l’uno dall’altro e tutti hanno un’aria sdegnata, furtiva e supponente.  

Salsi: è la città dove il senso del gusto è stato annientato, è governata da un gruppo di fanatici, gli Apostoli dell’Igiene Alimentare.

Ombrina: qui una bruma  avvolge cose e persone e la luce non ha potere, nessun meccanismo di percezione. Gli abitanti quando si incontrano avvertono solo una presenza sfuggente l’uno dell’altro e affrettando il passo ripetono: Umbra et pulvis sumus. Ottenebrato I è il governatore che ha commissionato un sistema di filtraggio della luce. 

Ci muoviamo guardinghi tra queste città in cui anche i nostri sensi si sono come addormentati, mentre Bibo e Susanna hanno l’arduo compito di risvegliarli e indurre gli abitanti a immergersi nelle sensazioni perdute. Bibo non sempre ci riesce. Egli cerca di riportare attraverso le note del violino frammenti di memoria. Ricrea situazioni felici, ma a questi segue la sofferenza. Il bene e il male sono nettamente distinti o inestricabilmente intrecciati? Forse l’uno non esiste senza l’altro e per usare un riferimento a me caro, richiamo alla memoria Il contadino della Boemia di Johannes von Tepl,  a cui la morte strappandogli in giovane età la moglie lo spinse a concludere che non avrebbe potuto conoscere il bene senza conoscere il male. Dovremmo essere grati alla morte, è lei che riveste i momenti lieti della vita di una veste preziosa intessuta di sole e luna, valli e stelle. E parte subito un’eco verso le Intermittenze della morte di José Saramago. Senza la morte tutto avrebbe avuto un gusto insipido, ci saremmo schiantati contro la monotonia di giorni tutti uguali. 

Il romanzo funziona come un ipertesto, riporta ad altre storie, solleva interrogativi vecchi e nuovi. Riflessioni e combinazioni che richiamano ad un altrove nell’arte che già conosciamo.  Ripenso alla Leggenda del Grande Inquisitore, gli esseri umani sanno godere della libertà, la vogliono veramente? O di fronte all’angoscia della  fine reagiscono creando un rigore che maschera l’odio per la libertà di coscienza? Immagini letterarie, pittoriche e musicali si mescolano al raccontare. L’Isola  dei morti di Böcklin appare davanti ai suoi occhi confondendosi con il paesaggio nella città di Ombrina. Non c’era più quella immagine ma sapeva di averla vista quell’immagine in tempi passati in un museo. Ed ancora musiche di Beethoven e i Gurre Lieder di  Schönberg. Si incontrano  i personaggi delle fiabe e Barbablù racconta la sua ultima storia. E’ quello che succede nelle città dei sensi ottusi, un romanzo definito allegorico e onirico in un mondo postumo. Lo leggo invece come allegorico e reale del nostro presente. Il sogno, l’andamento fiabesco, che il raccontare assume, li colgo come elemento di straniamento che ci aiuta nella presa di consapevolezza del nostro esistere.  Una umanità che cambia prospettiva in cui le tecnologie ampliano i nostri spazi, ma riducono l’uso dei nostri sensi, romanzo che imita la tecnologia usando immagini di arte che abbiamo ammirato e interferiscono nel nostro vissuto sfumando il limes tra realtà ed illusione, artificio artistico che apre alle molteplici possibilità del reale che possiamo concepire.

Il compito di Bibo, qui temuto come portatore di disordine e morte, era  quello di portare una nuova piccola luce nel mondo dopo la Parusia. Tante sono le difficoltà! Al lettore la scoperta della complessità dell’essere umano spesso incapace di crearsi rapporti e situazioni semplici fondate su sentimenti di fiducia, rispetto, comprensione ed interagire ascoltando l’altra parte, audi alteram partem.

Eduardo Savarese è scrittore ed è stato magistrato dal 2004 al 2024. Dal 2025 è Professore ordinario di Diritto intenazionale presso l’Università Federico II di Napoli. Accompagna il suo intenso lavoro curando quelle che sono le sue passioni, amore per la Musica lirica e la scrittura e non trascura il suo impegno sociale: tiene corsi di scrittura creativa per persone con disabilità presso l’associazione A ruota libera. Un percorso che ne evidenzia la formazione culturale ecclettica, tutta la ricchezza interiore e sensibilità. Ogni aspetto della sua grande umanità, del suo amore per la scrittura e la Musica è racchiusa in questo romanzo. Nasce a Napoli nel 1979 e tiene a sollineare di essere per un quarto greco da parte di nonna paterna.

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

Strega 2024 – Intervista a Eduardo Savarese, di Daniela Marra

Le Madri della Sapienza di Eduardo Savarese, Wojtek edizioni, proposto allo Strega 2024 da Riccardo Cavallero, è stato spesso definito un romanzo distopico. Eppure appare evidente già dalle prime pagine che qualsiasi vestito risulta imperfetto. Troppo corto, troppo stretto, troppo alla moda o troppo largo, questo accade perché il romanzo di Savarese che ha la forma di vero romanzo tradizionale otto-novecentesco, in particolare ricorda per alcuni versi la produzione russa, è un’opera trasformista, che attinge a una moltitudine di registri diversi ma sapientemente armonizzati.
Visionario, surreale, imprevedibile, racconta una storia-mondo, attraverso un ricchissimo sottobosco di personaggi e trame. Un inno sacro e provocatorio alla potenza dell’amore non come sentimento ma come forza trasformativa, come silenzioso sacrifico, nel senso più classico della parola: Sacer Facio, fare sacro, rendere sacro.

Abstract romanzo:
Il primo ministro Anselmo Riccardi ha l’ossessione di rifondare la famiglia tradizionale. Dietro di lui, dentro di lui, agisce Ulrica Neumond, maga e fondatrice della Casa Europea dei Nuovi Ariani.
Il loro famelico disegno di conquista si abbatte sul monastero delle Madri della Sapienza, ordine laico fondato da tre maturi omosessuali: Luciano (Cinzia), Giorgio (Olimpia) e Fernando (Gridonia).
Le Madri non sono sole: al loro fianco si schierano Licia, undicenne e mistica figlia del premier, e Barbara, moglie combattiva che, da alleata, si trasforma in antagonista di Anselmo.
Aleggia su di loro Fosco Nunziante, intellettuale morto da tempo, come l’ombra del demonio sul destino dei vivi.
Dramma wagneriano, racconto esoterico e commedia fantastica, Le Madri della Sapienza oppone, alla paura indotta da un potere politico magico-autoritario, un neo-monachesimo libertario e umanista, antidoto allo sradicamento della vita interiore.

Nell’introduzione all’ intervista ho parlato di vestito, ma l’obiettivo di rintracciare una categoria di appartenenza per il tuo romanzo, malgrado lo sforzo, è stato vano. Non sono riuscita a trovare un abito appropriato. E allora ho deciso di procedere per sottrazione. È solo spogliandolo che il lettore può osservarlo, trovandosi davanti a una complessa stratificazione. La forma romanzo si colorisce di tante sfumature, si forma, trasformandosi continuamente. Perciò sarebbe interessante raccontarci quando è stato concepito Le Madri della Sapienza e qual è stata la sua gestazione.

Questa tua considerazione, così appropriata, circa la natura sfuggente delle Madri a una
categorizzazione mi fa molto piacere. I mezzi di costruzione del racconto, in questo romanzo, sono, all’apparenza, molto classici. E d’altra parte, nella mia formazione e nella mia ‘pratica’ artistica, ricerco, nell’articolare il pensiero, nello scegliere le parole, nel comporre le figure e le scene, quel che generalmente diciamo il ‘classico’. In altri termini, tutto qui sembra molto convenzionale (nel senso letterale di aderenza a certe convenzioni consolidate del romanzo), però poi il punto di arrivo spiazza (o i vari punti di arrivo, parziali e finali). Posso dire questo: la gestazione nasce da un input molto chiaro dato a me stesso. Sentiti libero di osare, di complicare, di immaginare rispettando profondamente la dignità del tuo immaginario. Sentiti libero di divertirti. Non preoccuparti di esaudire un’aspettativa esterna al tuo processo creativo.

Ci sono alcune categorie che attraversano tutto il romanzo. Una di queste è il potere. Il potere che distrugge e crea assuefazione, illusione, menzogne. Il potere per il potere ricorda per alcuni versi il Macbeth. Quanto la coppia Anselmo-Barbara è ispirata alla tragedia shakespeariana?

Moltissimo, ed in modo evidente, anche mediante riferimenti espressi, variazioni su citazioni quasi letterali (anche dalla versione operistica di Macbeth, quella di Verdi). Il potere è uno dei pilastri del romanzo: ed il potere in coppia mi ha sempre solleticato la fantasia e la meditazione. Per cui Anselmo e Barbara non potevano non avere quel referente.

Chiaramente l’autore di questo romanzo è un nuovo Eduardo, o meglio un Eduardo più completo, forse anche più vero, che mette in luce per la prima volta nella scrittura ogni sua sfaccettatura. Memoria emotiva, memoria intellettiva e realtà quotidiana si fondono e si confondono, ma sono sempre raccontate attraverso la lente dell’ironia, un’ironia garbata che rende ogni provocazione delicata. Che cosa consente questa chiave di scrittura ironica e oserei anche autoironica?

Che bella domanda… l’ironia (e soprattutto l’autoironia, anche del narratore circa i processi narrativi attuati: vedi la citazione schizofrenica che oscilla da Borges ad Angela da Foligno) nasce dallo sguardo compassionevole sul mondo. Lo sguardo che, da tempo, mi interessa di più è quello. Lo sguardo che può lenire la crescente violenza del mondo.

Realtà inquiete, sante, maghe e visioni profetiche, la sensazione spesso è di trovarsi catapultati in un’opera lirica, dove l’irrazionale e il fantastico sono dimensioni che conferiscono potenza alla realtà, ancora più del realismo puro. Quanto ha influito l’amore per l’Opera nella tua scrittura?

Enormemente. Ma me ne sono accorto in una fase avanzata della prima stesura (le stesure sono state tre, in tre anni). E me ne sono accorto precisamente nel punto in cui decidevo di superare
l’autocensura sull’irruzione della presenza fantastica nel monastero delle Madri. Il teatro lirico ha rilasciato il salvacondotto all’espressione del mio immaginario, in termini di possibilità del racconto… poi ci sono le incursioni più decifrabili (il nome verdiano della maga Ulrica, o la presenza, in un sogno, delle fanciulle fiore wagneriane…).

Le Madri della sapienza insegnano senza essere didascaliche. Con la riscoperta del monachesimo ci ricordano l’importanza della dimensione comunitaria, che oggi è sempre più infranta e dimenticata. Quanto è importante recuperare questa dimensione?

Mi pare sia vitale. Disintegrati a questo modo possiamo solo continuare a disintegrarci fino
all’estinzione nell’ignominia. La dimensione comunitaria, fondata su valori altamente spirituali, e su forme di disciplina condivise, oggi avrebbe molto da darci: certo, va reinventata, ma è una bellissima sfida del pensiero e dell’azione.

Parliamo di Amore, sembrerebbe una grande categoria universale e sentimentale, eppure nelle
Madri della Sapienza l’amore è sapienza. Un ritorno all’ordine nel disordine quotidiano dove
sembra sparita ogni bussola. Amare nella verità è un ritorno all’essenziale. Quanto e come risulta salvifico l’amore nel tuo romanzo?

L’amore è sempre stato al centro di tutto quello che ho scritto finora, anche nel saggio-racconto sul fine vita, Il tempo di morire. L’amore che dà salvezza, nelle Madri, deriva dalla combinazione tra verità e misericordia: è l’amore di Cristo. Io ho fame e sete di occasioni per parlarne con libertà, consapevolezza, passione e ironia. In questo romanzo ho provato a ritagliarmi una piccola, grande occasione.

Dimensione onirica, ironia, favola nera e surrealismo, solo alcuni ingredienti dell’alchimia delle
Madri della Sapienza. Sul grande schermo immaginerei una regia di Terry Gilliam e tu?

Terrence Malick. Magari… E, forse ancor più: Alice Rorhwacher.

Con quale personaggio del tuo romanzo andresti all’Opera e a cena e quale Opera andresti a
vedere?

Nessun dubbio: andrei con Ulrica Neumond e andremmo a vedere I maestri cantori di Norimberga di Wagner. Forse Ulrica però non cenerebbe, berrebbe soltanto, quello sì, ma in niente di meno che nel calice del Graal…

Daniela Marra

Eduardo Savarese (1979) vive e lavora a Napoli. Ha pubblicato i romanzi “Non passare per il sangue” (2012) e “Le inutili vergogne” (2014) per e/o, “Le cose di prima” (2018, minimum fax) e il racconto “La camera di Ondino” (Tetra, 2022). È autore anche di ibridazioni tra saggio e narrativa, su temi etico-giuridici (“Lettera di un omosessuale alla Chiesa di Roma”, e/o, 2015; “Il tempo di morire”, Wojtek, 2019), o intorno alla propria melomania (“È tardi!”, Wojtek, 2021). Scrive per «Il Riformista» e «L’Indice dei Libri del Mese».