19 luglio, via D’Amelio: (In)giustizia, di Cristi Marcì

Bisogna strapparsi alla propria casa, al calcolo sicuro sul domani o sul dopodomani, e prendere il volo per sé, per un’esigenza interiore; volar via come vola solo un uomo che lavora, che conosce il ritmo delle possibilità (Sklovskij, V)

Ho sempre immaginato la città di Palermo come una donna anziana e sempre pronta a impuparsi per le grandi occasioni.

Ogni volta che ne percorro le arterie alberate i suoi polmoni intrisi di storia e cemento sembrano ringiovanire ad ogni mio passo, specialmente di giorno, quando gli antichi palazzi del barocco siciliano mi invitano a varcare la soglia di un’epoca splendente in cui tutto era perfetto.

Dove i sogni segnavano l’equivalenza di una realtà accessibile a chiunque volesse entrare a farne parte.

È una città dai mille volti che in una sola giornata chiunque faticherebbe a cogliere nella piena e totale essenza, perché le velate cromature che ne caratterizzano il corpo e il resto dei lineamenti sotto sotto celano una ruggine che perfino alla luce del sole pare brillare.

E proprio per questo ecco che un suo difetto diviene subito splendente e insostituibile.

Non si può non amarla, soprattutto non la si può né si deve rimpiazzare con nessun’altra metropoli italiana o estera che sia, altrimenti idda si offende, ti volta le spalle e inizia a vomitare quintali di rifiuti pronti a insozzare quei residui onirici che hai coltivato sin da piccolo nel suo caldo e corrotto grembo materno.

Spesse volte ho pensato di lasciarla ma una volta riuscitoci il suo richiamo mi ha sempre raggiunto ovunque io andassi e nonostante mi tappassi freneticamente le orecchie, il suo cuore antico batteva all’impazzata in ogni anfratto del mio corpo: sostituendo il lamento a una preghiera.

La sua melodia non conosce confini, il suo spartito è un groviglio di vicoli e colori dove i semi che ogni giorno tenti di piantare vengono puntualmente sostituiti dalla paura del cambiamento e dall’ottusa convinzione che le parole è meglio tacerle anziché sbandierarle ai quattro venti in mezzo alle piazze: urlando a gran voce una diversità che nemmeno i cavalli di piazza Massimo saranno mai disposti a trainare sui loro carretti piumati e abbelliti con estremo decoro.

Io so bene quale fu il mio errore, credere che il sogno e la veglia fossero figli della stessa madre: la nostalgia. Nostalgia di che? Di quello che deve venire (Cappuccio, R)

Dirigendomi verso via Mariano D’Amelio il sole si posa prima sui balconi di case sconosciute per poi illuminare quel groviglio di memorie che gelosamente custodisco a trent’anni di distanza da quel terribile millenovecento novantadue, che ho conosciuto attraverso i racconti di mio padre e mia madre.

“Sei nato durante l’anno delle stragi” mi diceva sempre mio padre Giovanni il pomeriggio del ventitré maggio prima che un lungo corteo partisse dall’aula bunker dell’Ucciardone dove una volta ha preso parte al Maxiprocesso in veste di uomo e poi di avvocato.

Tenetelo a mente giudice, lo Stato può fare il viaggio che vuole. Lo Stato può arrivare dove vuole. Lo Stato è sempre in regola. Lo Stato è una mafia munita di passaporto (Cappuccio., R)

Sin da piccolo il termine Mafia ha assunto per me un significato difficile da decifrare, in cui a volte i buoni perdono e i cattivi vincono e dove la lotta per la libertà può esplodere in tutta la sua possente imprevedibilità fino a dissolversi in numerosi puntini.

Una volta arrivato vedo subito dei teli con sopra dipinte le facce dei due giudici, alcuni sono di una bianchezza disarmante altri invece sono un po’ ingialliti dal tempo.

Eppure sono impregnati di un’invisibile sostanza perfino in questo caldo pomeriggio d’estate, profumano un po’ di gelsomino e un po’ di salsedine.

Eh sì, perché la via D’Amelio non dista molto dal mare e come il resto della città il suo respiro si rinnova ogni qualvolta le onde si infrangono sugli ormeggi portuali oppure sugli scogli del Foro Italico vicino il quartiere della Kalsa, luogo di nascita di Paolo.

Non ricordo quanti anni avessi quando i miei genitori mi hanno fatto visitare per la prima volta il Tribunale di Palermo detto anche palazzo di Giustizia, ricordo solo un frenetico via vai di gente vestita per bene che saliva e scendeva dai piani di quella struttura risalente all’epoca fascista.

I corridoi e le varie aule erano fredde e anguste, non era un posto adatto per i bambini, lì era vietato correre, di scivoli e altalene nemmeno l’ombra.

Lì era vietato giocare.

Semplicemente perché come ebbero a spiegarmi mamma e papà, in quel luogo si era cercato negli anni di contrastare la lotta a chi vietava la libera circolazione delle idee e a chi sceglieva di stare nel giusto schierandosi dalla parte dello Stato.

“Per questo qui dentro non sorride mai nessuno”?

“Sì, perché la lotta alla mafia è una cosa seria e nessuno deve sostituire un pallone da calcio con una bomba”.

Mentre adagio il girasole acquistato poco prima dal fioraio di quartiere, sulla scalinata scorgo tanti disegni appoggiati sui gradini e distesi con perizia lungo il marciapiede mentre un vento leggero li anima con quell’invisibile soffio che dona loro un rinnovato movimento sotto questi tristi raggi di luglio.

Mi ritrovai allora un momento come davanti a due strade, l’una rivolta a rincasare nell’astrazione e sempre nella quiete, nella non speranza, l’altra rivolta alla Sicilia, e in qualcosa che poteva anche non essere una così sicura quiete e una così sorda non speranza (Vittorini, E)

La cognizione del tempo mi sfugge, il sole si fa bello e la città si imbelletta per il trentatreesimo anno di fila.

A volte col pensiero le ho perfino chiesto se non abbia mai avuto il coraggio di ribellarsi a chi ne ha invaso e calpestato la pelle rovinandole il trucco, a chi ne ha martoriato il volto trasformandola in una marionetta al servizio di burattinai corrotti pronti ad abusare della sua carne ogni qualvolta ne sentissero la spinta.

Lei però rimane in silenzio, mi guarda da ogni angolo delle sue viscere pulsanti dove un sordo dolore per i figli perduti si affianca alla sofferenza per quelli che ancora una volta la lasceranno in balia di ricordi lontani.

Questa è la pena che ogni anno le tocca scontare.

La sola (in)giustizia concessale da uno Stato che in nome di una legge straniera ha estirpato le radici di un sogno in cui molti credevano ma per il quale pochi si sono battuti davvero, anche a costo di perdere la vita.

In nome di una terra che per cambiare deve ogni giorno far brillare le proprie ferite.    

Facendo i conti con chi resta, con chi sceglie di andarsene

e con chi non c’è più.

Riferimenti bibliografici

Cappuccio., R, Paolo Borsellino, 2020, “Essendo Stato”, Feltrinelli Editore, Milano.

Sklovskij., V, 1984, “L’energia dell’errore”, Editori Riuniti, Roma

Vittorini., E, 2024, “Conversazione in Sicilia”, Bompiani Editore, Firenze.         

Cristi Marcì*

* Cristi Marcì è uno psicoterapeuta psicosomatico junghiano. Grazie ai libri ha scoperto la possibilità di viaggiare con l’unica compagnia gratuita: la fantasia. Adora i gialli, la saggistica e i romanzi storici. Ad oggi ha pubblicato racconti brevi sulle riviste «Topsy Kretts», «Morel, voci dall’Isola», «Smezziamo», «Offline» «Kairos» e altre ancora. Scrive articoli per il periodico scientifico «Ricerca Psicoanalitica», «Arghia» e «Mortuary Street». Trovate una sua traccia anche su «Quaerere»

Isabel Allende: “Il mio nome è Emilia del Valle” (Feltrinelli, 2025 – trad. Elena Liverani), di Cristi Marcì

Il potere della parola quale strumento per salvarci di fronte al silenzio

Ambientato agli albori della prima guerra civile cilena scoppiata nel lontano 1891, la protagonista di questo splendido romanzo si fa portavoce di una delle pagine più cruente della storia sudamericana, dove il rispetto per la vita e l’amore nei confronti della propria terra segnano un profondo divario non solo all’interno del popolo cileno bensì fra gli alti esponenti di una politica sempre più corrotta.

Disposta a reprimere la voce della nazione in nome di un folle e assurdo amore: quello per la guerra.

Attraverso l’indomito coraggio della fiorente scrittrice Emilia del Valle il Cile assume negli articoli della giovane ed emergente reporter la forma di una lingua di terra violentata dalla cupidigia dell’Io e deturpata dalla brutalità dell’essere umano.

Rispetto ai quali sia il profumo del mare che le immense catene montuose possono soltanto piegarsi dinanzi alla logica di un’indicibile e inaudita violenza.

Impregnate di storia ma soprattutto di un florido desiderio di riscatto, ciascuna di queste pagine assume pian piano i contorni di una mappa dove la geometria dei sogni rivela le nebulose costellazioni di un viaggio pronto a rinnovarsi capitolo dopo capitolo.

La scrittura e ancor più le parole acquisiscono via via le sembianze di una creatura in grado tanto di raccontare quanto di imprimere quelle emozioni e quelle speranze che soltanto la guerra tenta spesso di dissolvere nella polvere da sparo, denunciando oltremodo le barbarie perpetrate dalle forze del Congresso cileno contro il governo dittatoriale dell’allora presidente Josè Manuel Balmaceda.

La nota autrice e giornalista cilena Isabel Allende offre dunque ai suoi lettori uno spaccato della propria terra d’origine dove la curiosità e il forte richiamo all’indipendenza di Emilia si traducono in un viaggio degno di essere vissuto, dove l’amore e la scoperta delle rispettive origini la porteranno in un luogo ricolmo di mistero: inaccessibile finanche alla cupidigia dell’uomo e ai suoi futili strumenti di morte.

Quello che maggiormente contraddistingue questo meraviglioso romanzo non è soltanto quel terribile amore per la guerra di cui parlava il noto psicoanalista americano James Hillman bensì la crescente presenza di un conflitto che sulle labbra e ancor più tra le mani dell’uomo si tramuta in legge assoluta: in una nuova norma.

Nondimeno quanto viene proposto lungo queste pagine è la descrizione di quello che purtroppo al giorno d’oggi siamo ormai abituati a vedere, a leggere e a sentire: rendendo il conflitto con il proprio simile l’unica legge vigente rispetto alla quale, per assurdo, l’essere umano rischia di identificare sempre più il valore della propria esistenza.

Se da un lato i governi dittatoriali hanno da sempre macchiato di sangue interi capitoli della storia dell’uomo dall’altro quest’ultimo, proprio attraverso le parole può gradualmente tornare a fiorire, facendo della scrittura nonché della narrazione il solo strumento con cui restituire alla vita di ogni giorno una dignità di fronte alla quale l’odio e il conflitto prima o poi esauriranno le proprie cartucce.

Il Cile quale terra ricca di analogie e preziose radici da riscoprire 

Il linguaggio analogico riflette quella dimensione simbolica grazie alla quale prendere le distanze da ciò che è ormai razionale e carico di significati ormai collaudati. 

Un vero e proprio strumento che garantisce l’accesso presso quell’apparato immaginativo e metaforico con cui riscoprire uno o finanche più dialoghi. 

Pertanto proprio attraverso questo graduale distacco si ha la possibilità di prendere coscienza circa l’esistenza di ulteriori forme di espressione, nuove modalità comunicative e soprattutto di un mondo inconscio che a nostra insaputa fiorisce dentro di noi. 

Quest’ultimo infatti sembra custodire al suo interno non tanto semplici contenuti quanto una vera e propria sequenza di materiali che se sotto il profilo onirico non tardano a presentarsi viceversa dal punto di vista linguistico sono pronti a tradursi in una trama, a volte indefinita e per questo del tutto originale.

Le parole dunque possono acquisire quella incerta fisionomia che alla stregua dei sogni altro non attendono se non di guidarci verso orizzonti lontani; pronte a comunicarci non solo qualcosa di nuovo bensì a mostrarci quella via grazie alla quale oltrepassare quei significati che spesso e volentieri rischiano di restringere il campo della nostra simbologia inconscia.

Nel corso dei secoli la letteratura si è sempre fatta portavoce di un qualcosa di nuovo, di inaspettato e spesso e volentieri di scomodo per la ragione ordinaria e abitudinaria. 

Nondimeno la struttura e gli stili che adornavano il contenuto di quanto riportato in forma scritta riflettevano il ponte di unione tra la dimensione cosciente e quella all’apparenza invisibile. 

Se le parole permettevano un trampolino di lancio verso la nostra interiorità ad oggi questa possibilità non sempre la si riscontra facilmente. 

In quanto difficilmente si è disposti a lasciarsi guidare da quanto di più misterioso e indecifrabile risiede entro gli anfratti della nostra anima. 

Tuttavia la lettura di questo romanzo riflette proprio l’invito a prendere contatto, nonché a riscoprire, quelle radici che se accolte sono in grado di svelare i volti di un percorso grazie al quale raggiungere mete lontane e che tuttavia non sapevamo di custodire nel nostro più intimo bagaglio.

Tantomeno di raccontare con la sola parola possibile: Viaggio.

Cristi Marcì*

* Cristi Marcì è uno psicoterapeuta psicosomatico junghiano. Grazie ai libri ha scoperto la possibilità di viaggiare con l’unica compagnia gratuita: la fantasia. Adora i gialli, la saggistica e i romanzi storici. Ad oggi ha pubblicato racconti brevi sulle riviste «Topsy Kretts», «Morel, voci dall’Isola», «Smezziamo», «Offline» «Kairos» e altre ancora. Scrive articoli per il periodico scientifico «Ricerca Psicoanalitica», «Arghia» e «Mortuary Street». Trovate una sua traccia anche su «Quaerere»

Ruggero Cappuccio: “La prima luce di Neruda” (Feltrinelli), di Cristi Marcì

Il dono della poesia quale culla di antiche creature

Impregnate di mistero e salsedine d’oltreoceano, le pagine di questo romanzo svelano il legame antico tra il noto poeta cileno Pablo Neruda e la cantante Matilde Urrutia.

Il loro è un amore proibito ma al contempo privo di quei confini geografici e spaziali che attraverso le righe di questa storia delineano i binari dove il passato e il presente si congiungono tramite il dono del ricordo e di quella sola parola in grado di far germogliare l’imprevedibile: la fantasia.

Perché se ad occhi aperti ciò che è lontano appare drammaticamente irraggiungibile, viceversa, una volta abbassate le palpebre, la galassia dei ricordi traccia finanche le costellazioni ancora in procinto di brillare.

Per mezzo di questa fiaba, che attraversa la storia e la cultura della società cilena ai tempi di Pinochet, Ruggero Cappuccio disegna un labile confine tra sogno e realtà, oltre il quale il verbo della poesia incontra quell’indecifrabile logica dell’anima in grado di tramutare le emozioni in eterne creature viventi.

Tra un Cile prerivoluzionario e un’Italia costretta a risollevarsi dalle macerie del periodo bellico i versi del poeta si scontrano con quello che in quel medesimo periodo storico e socio culturale James Hillman aveva definito “un terribile amore per la guerra”: così immortale da far percepire a chiunque sceglierà di perdersi tra le sue pagine, come il passato non sia in fin dei conti “una terra straniera”.

Tra le pagine di questo meraviglioso romanzo si avrà il piacere di incontrare finanche i personaggi più illustri della letteratura e di ogni altra espressione artistica di quel tempo tra i quali: Alberto Moravia, Elsa Morante, Renato Guttuso e tanti altri ancora.

I quali alla stazione Termini di Roma non aspetteranno altro che di congiungere la propria voce con quella del maestro, colpevole di diffondere versi abietti e velenosi che a detta di molti, solo il comunismo poteva partorire a quei tempi: corrodendo lo spirito del popolo.

Eppure grazie alla forza prorompente della poesia si profila pagina dopo pagina la possibilità di rendere l’ignoto una dimensione in grado di restituire parole che non credevamo potessero ancora prendere vita né tantomeno fare proprie.

Quanto emerge dunque non è una semplice trama bensì un insieme di ramificazioni lungo le quali germogliano i semi di un presente e di un futuro ancora possibili e tuttavia ancora ignoti all’occhio della ragione.

Per una psicologia poetica a favore del mondo immaginale

Nel campo dell’alchimia con il termine albedo ci si riferisce ad una fase di transizione del materiale psichico che ciascuno individuo custodisce al proprio interno.

In accordo con il simbolismo cromatico questa variazione riflette in maniera sottile quelle alterazioni del substrato animico entro il quale si sviluppano tanto gli umori quanto le costellazioni oniriche.

In qualità di coscienza improntata ad Anima, l’albedo alchemico favorisce una rinnovata modalità di percezione rispetto alla quale lo sguardo e l’attenzione vanno oltre quegli attaccamenti obsoleti alla ricerca di un altrove, dove l’assenza di un luogo e uno spazio prestabiliti favoriscono una nuova ispirazione

La fase propriamente detta dell’imbiancamento rispecchia l’emergere di una coscienza psicologica dove la percezione e l’ascolto si tramutano gradualmente in quella fantasia creativa in grado di promuovere un distacco tanto dal passato quanto da ciò che non ne garantiva una possibile evoluzione.

Difatti, fino a quando la psiche continuerà a dibattersi nella nigredo, ossia quei pensieri e comportamenti ormai obsoleti, sarà emotivamente legata ai suoi attaccamenti passati e circoscritta così in materializzazioni che rischiano di bloccarne l’evoluzione.

Pertanto il processo di unione della mente con un terreno fertile e imbiancato prende spesso il nome di base poetica della mente, dove la coscienza non sarà più il prodotto di una grossolana materia cerebrale o peggio ancora il gretto risultato della società, ma al contrario un rispecchiamento, nonché un tripudio di immagini atto a generare e fecondare in una perpetua poiesi fantasie lontane da futili dittature.

Per addentrarci più in profondità verso una maggiore comprensione della mente è necessario volgere lo sguardo alla poesia e alla sua inafferrabile simbologia.

Bisogna dunque interpellare coloro i quali abitano la luna, ossia quei poeti che instancabilmente sottolineano come la poesia “offra manciate di terra imbiancata e pietre lunari”, le quali se maneggiate con fare immaginativo partoriscono sogni, idee, canzoni e storie ancora non scritte: veri e propri minerali lunari dal valore mitopoietico.

Cristi Marcì*

* Cristi Marcì è uno psicoterapeuta psicosomatico junghiano. Grazie ai libri ha scoperto la possibilità di viaggiare con l’unica compagnia gratuita: la fantasia. Adora i gialli, la saggistica e i romanzi storici. Ad oggi ha pubblicato racconti brevi sulle riviste «Topsy Kretts», «Morel, voci dall’Isola», «Smezziamo», «Offline» «Kairos» e altre ancora. Scrive articoli per il periodico scientifico «Ricerca Psicoanalitica», «Arghia» e «Mortuary Street». Trovate una sua traccia anche su «Quaerere»