Dejan Atanacković: “Lusitania” (Bottega Errante Edizioni, trad. Valentina Marconi, 2025), di Valeria Jacobacci

“Cos’è Lusitania? È la storia di uno Stato utopico fondato dai membri di un gruppo dimenticato e marginalizzato di persone che, nel contesto serbo attuale – e non solo – si potrebbero chiamare: cittadini liberi. Persone che, in realtà, non hanno uno Stato e sono costrette a crearne uno nuovo. Persone nelle quali la società maggioritaria, che produce le proprie immagini e i propri valori, vedeva, come in uno specchio, il proprio terrore di fronte alla verità. Persone che restano e resistono, circondate dalla stupidità dominante, studiandone le strane correnti, come una fragile nave circondata da un mare in tempesta, determinate a sopravvivere. Se fosse esistito, lo Stato di Lusitania rappresenterebbe oggi, credo, il ricordo di un progetto raramente riuscito di democrazia e di confronto con la verità, in questa parte del mondo. Belgrado, agosto 2025”

Affermazioni, queste, dell’autore serbo, Dejan Atanacković, in conclusione di quella che era cominciata come una serie di appunti in vista di una Mostra, ed è poi diventato un romanzo: “Lusitania“. La trama è un intrico letterario pieno di visitazioni storiche, filosofiche, psicanalitiche, letterarie, come se tutto il passato si mescolasse di continuo. Un secolo è sullo sfondo ed è il Novecento, difficilissimo e cruento. 

Atanacković è un artista che ha una scrittura estremamente ricca, piena di suggestioni, colori, fantasie, è onirica, immaginosa e fervida. E’ evidente l’occhio del fotografo, del pittore, dell’installatore di opere, in queste descrizioni. Sembra, a volte, di leggere un copione teatrale: i tanti personaggi si affacciano sulla scena, ammiccano, alludono, si profondono in dialoghi e soliloqui, ricordano Čechov e talora Shakespeare, si nascondono dietro tende e sipari e si descrivono a vicenda.                              

Il racconto inizia con il preludio ad una guerra: un transatlantico britannico affonda, colpito da un sottomarino tedesco, il 17 maggio 1915, durante la Prima Guerra Mondiale. L’affondamento causa la morte di 1980 persone, fu un evento chiave che spinse gli USA a entrare in guerra nel 1917. Il  transatlantico si chiama Lusitania.                                                                              

E’ qui che simbolismo e realismo si innestano, la nave affondata si lega curiosamente alle vicende dell’ospedale psichiatrico di Belgrado, la Casa del senno perduto, diretto dal dottor Dusan Stojimirovic. Il dottore applica sui pazienti cure diametralmente opposte a quelle praticate all’epoca: i malati  sono accettati e trattati cordialmente, sono liberi di esprimersi, nel rispetto per la loro diversità, non ci sono differenze fra curatori e curati, tutto si svolge in armonia. Durante l’assedio di Belgrado da parte delle forze austro-ungariche, l’istituto è lasciato a godere di una speciale autonomia, i 120 elementi che lo compongono si autoamministrano, al suo interno si svolgono seminari e dibattiti, medici e pazienti si riuniscono per discutere, di solito intorno a un pianoforte. Non molto diverso dai falansteri immaginati da Charles Fourier, il manicomio belgradese gode di autonomia e benessere. La terapia consiste principalmente nella messa in scena di opere teatrali, delle quali i 120 componenti sono sceneggiatori, spettatori e attori al tempo stesso. La particolarità consiste nel fatto che gli attori indossano maschere animali, così come nel teatro greco si usavano maschere caprine. La varietà degli animali si presta bene a indicare le diverse tipologie umane, come già ampiamente sperimentato nella letteratura, dalle favole di Esopo alla Fattoria degli animali di Orwell. 

L’altra istituzione, determinante ai fini del racconto, è il Museo di Storia Naturale di Belgrado, dove Vasilij Arnot viene chiamato a dirigere e costituire un importante centro scientifico sul modello di quello francese. La tendenza del tempo è quella di riprodurre gli ambienti naturali attraverso i diorama, ricostruzioni meravigliose di valli, montagne e radure, abitate dagli animali che vi si trovano. Per porre gli animali nei diorama è necessario imbalsamarli, una tecnica avanzatissima in questo particolare momento storico, durante il quale la tassidermia, e cioè l’imbalsamazione, è un’arte raffinata e il tassidermista un professionista stimato e molto ben pagato. Vasilij Arnot è stato in passato insegnante di chimica a Linz, dove gli è capitato di dare un ceffone a Hitler, suo allievo, allora dodicenne, per aver insultato un compagno, provvedimento che lo rende subito simpatico. Nel difficile compito assegnatogli, si serve dell’aiuto di due studiosi, padre e figlio di nome Hodek, rispettivamente tassidermista e zoologo, si appresta così a realizzare un magnifico diorama nell’Istituto di Scienze naturali di Belgrado. Arnot viene da Vienna, è intriso di cultura occidentale e in tale ottica progetta il suo diorama. 

I narratori delle vicende descritte nel romanzo sono diversi. Uno è Sir Thomas Lipton, amico di  Stojimirovic, direttore del manicomio diventato Città Stato. Lipton, il famoso commerciante del tè che ne porta il nome, aiuta i medici a fronteggiare la terribile epidemia di tifo, mette anche i suoi yachts a disposizione della Croce Rossa, per il trasporto di volontari medici nella Serbia martoriata dalla guerra. Nel suo viaggio, Lipton ha conosciuto una famosa sensitiva e ha partecipato a una seduta spiritica durante la quale si evoca un morto nel naufragio del transatlantico Lusitania. Sembra che il morto non sia morto ma in procinto di tornare, si tratta di Teofilovic, cittadino serbo proveniente dagli USA. 

Ed effettivamente la predizione della seduta spiritica si avvera: ricoperto di fango, Teofilovic compare a Belgrado, emergendo dalla cantina di una casa, collegata a una galleria sotterranea. L’uomo, nato in Serbia, viveva agiatamente a New York e si era imbarcato sul Lusitania. In Serbia aveva acquistato un terreno dove intendeva costruirsi una cappella mortuaria. Dopo il naufragio del Lusitania, col suo giubbotto di salvataggio percorre i territori in guerra, attraversa le trincee di entrambi gli schieramenti, è conosciuto come “l’uomo di fango”.

Vasilij Arnot, intanto, si vede bocciato il suo bellissimo diorama dal nuovo governo, che ha appena rovesciato i sovrani. Il motivo è che simbolicamente il diorama guarda a Occidente, mentre la politica vigente è a favore dell’Est. Disgustato, abbandona Belgrado e va a Firenze, dove visita La Specola, il museo di scienze naturali. Vi si aggira fra innumerevoli sale, intervallate da diorami fantastici, guidato da uno strano personaggio che ricorda comicamente il Bianconiglio di Lewis Carrol in “Alice nel paese delle meraviglie”.                    

E davvero è un “wonderland” il mondo folle descritto dai folli dell’ospedale psichiatrico di Belgrado: lo Stato indipendente di Lusitania. Qui Sir Lipton assiste a una conferenza del dottor Stojiriromic sulla stupidità: “Una volta radicatasi, la stupidità non è mai nuova, anzi, cercherà sempre di provare la sua esistenza secolare e le sue stupide tradizioni. Nella stupidità radicata, il cittadino stupido vede sempre qualcosa di primordiale (e le osservazioni del cittadino stupido non dovrebbero mai essere del tutto ignorate).”  Queste parole colpiscono Lipton, vicino, forse, a comprenderne il senso. “Perché chiamare l’ospedale, ormai Stato libero, proprio Lusitania, come la nave affondata?” chiede al direttore. “Lusitania non è solo il nome di una nave” risponde il maestro “ma anche la terra di un popolo iberico che resistette a lungo ai Romani, nonostante la superiorità del conquistatore. Certo, il Lusitania è anche una nave, l’architettura di una macchina galleggiante, la nave dei sacrificati, la nave dei folli.”

Gli appunti, scritti dai diversi narratori di questa vicenda, vengono conservati in scatole di legno, in ogni scatola si addensa un fitto mistero, come matriosche che dalla più grande vanno alla più piccola e minuscola, esse nascondono e proteggono sogni e incubi che rappresentano la verità. E’ così anche per i tanti aneddoti che s’intrecciano fra loro come i fili intricatissimi dei disegni che si sovrappongono fino a cancellarsi. Il racconto di uno dei folli parla di un uomo che studia ossessivamente l’anatomia umana distinguendo i singoli organi, scomponendoli e ricomponendoli all’infinito. Lo smembramento del corpo umano ricorda la sorte dei sovrani serbi, il re Alessandro I e la regina Draga Obrenovic, assassinati e fatti a pezzi da un gruppo di ufficiali  dissidenti e gettati dalla finestra della reggia. Ma vi si legge anche lo smembramento della stessa Serbia,  più volte sezionata e divisa nella sua storia plurimillenaria, illusoriamente riunita ai Paesi limitrofi  (Croazia, Macedonia, Montenegro, Slovenia, Bosnia-Erzegovina) come Regno di Jugoslavia, nel 1929 e, dopo la Seconda Guerra Mondiale, in Repubblica Socialista Federale. Dopo la morte di Tito, nel 1980, le spinte nazionalistiche e il crollo dei regimi comunisti portarono, infine, alla secessione e alla dissoluzione dello Stato. Emblematico della dissennata lotta fra esseri umani, rappresentata dalla guerra, la più stupida delle umane aberrazioni, è questo passaggio del romanzo: “Tradizionalmente, in questa regione, si giustificano con la follia azioni che con la follia non hanno nulla a che vedere. Ci sarà sempre qualcuno che superficialmente metterà follia e stupidità sullo stesso piano, ma si tratta solo di una bugia tendenziosa. Perché mentre la follia viene rinchiusa e imprigionata da secoli, la stupidità viene sempre celebrata con sfarzo”. 

 Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Murata Sayaka: “Parti e omicidi” (trad. Gianluca Coci – E/O), di Antonella Scagliola

PARTI E OMICIDI DI MURATA SAYAKA: DISTOPIA O PRELUDIO DEL FUTURO?

Parti e omicidi” è una raccolta di quattro racconti dell’autrice giapponese Murata Sayaka. Ho cercato Sayaka su google per dare un volto alla voce che mi accingevo ad ascoltare: ho visto una donna composta, elegante e sorridente, immagine che stride decisamente con le idee e il mondo folle e grottesco di cui racconta.  

Parti e omicidi” è il racconto che dà il titolo alla raccolta ed occupa una buona metà libro. In un futuro non ben precisato, in Giappone si è risolto il problema del calo demografico attraverso l’introduzione del “Sistema Parti e Omicidi” che consente a tutti, uomini e donne, la possibilità di diventare gestanti. Chi sceglie di diventare gestante si dedica esclusivamente al concepimento di dieci nuove vite, ottenendo, come premio per tanti travagli, la possibilità di uccidere una persona a propria scelta, senza avere alcuna ripercussione dal punto di vista legale. 

Tutto è perfettamente regolamentato: il morente riceve un telegramma d’avviso trenta giorni prima della sua morte, a cui non può sottrarsi, e il giorno dell’esecuzione viene anestetizzato e lasciato alla mercé del suo assassino. 

I gestanti sembrano quasi dei martiri, ma serve a ben poco elogiarli facendo leva sul loro desiderio di dare alla luce dieci bambini solamente per incrementare le nascite del paese, la verità è un’altra: ogni gestante decide di diventare tale perché vuole uccidere, non perché desideri procreare. 

L’idea di fondo del racconto, infatti, è che ogni essere umano ha impulsi omicidi, ma la maggior parte si ferma per paura delle ripercussioni legali, dunque Sayaka pensa bene di raccontare di una società in cui si possa aggirare l’ostacolo attraverso il sacrificio dei tanti travagli. 

Quanto possono essere scabrosi e crudeli gli esseri umani quando gli vengono date delle libertà, prima di allora, impensabili? 

In Triade viene affrontato il tema del poliamore: le nuove generazioni preferiscono sempre più il rapporto di “troppia” a discapito del classico rapporto di coppia che appartiene quasi esclusivamente alle generazioni passate e, dunque, viene visto come un modo antiquato di vivere l’amore, da sfigati. 

Leggere di una storia a tre è normale, il poliamore è ormai sdoganato, ma il modo in cui vivono la relazione e il sesso le troppie di Sayaka è molto distante da ciò che siamo abituati a immaginare. 

Al centro del racconto c’è il pregiudizio su come gli altri vivono l’amore, il giudicare chi ha un modo di amare diverso dal proprio, focus che rende il racconto quanto mai attuale. 

Un matrimonio pulito racconta di una coppia sposata che decide di non avere rapporti sessuali. Il problema sorge quando i due decidono di avere un bambino, desiderio che, però, non supererà la repulsione che entrambi provano all’idea dell’atto sessuale con l’altro. Fortuna vuole che esista una clinica che aiuta coppie come la loro ad esaudire il desiderio di avere un figlio con metodi abbastanza… bislacchi. 

Sayaka smantella il concetto di matrimonio che abbiamo, senza facili moralismi, mettendoci costantemente il dubbio se la coppia di cui si racconta sia realmente una coppia, sul tipo di famiglia che vogliono costruire e su tante altre convenzioni sociali che diamo per assodate, sbagliando. 

Ultimi momenti di vita è l’ultimo racconto che chiude la raccolta riprendendo il tema della morte ampiamente trattato nel primo racconto. Veniamo catapultati in un futuro dove la morte è stata sconfitta e la moderna tecnologia permette di resuscitare chiunque. Il risultato è che, non potendo più morire, la gente perde d’interesse nei confronti della propria vita e desidera sempre più frequentemente morire ricorrendo al suicidio, ampiamente sdoganato e regolato burocraticamente. Sono appena quattro pagine, ma personalmente è stato il racconto che ho apprezzato maggiormente dopo Parti e omicidi, mi ha lasciato un senso di angoscia che mi ha smosso, un vero pugno nello stomaco. E a lettura ultimata non puoi fare altro che chiederti: qual è il valore della vita umana? 

Finito il libro, abbastanza turbata, anche un po’ disgustata, mi sono chiesta: la società descritta da Sayaka è così lontana dalla nostra? Viviamo in un mondo in cui il poliamore non è più uno scandalo, esistono moltissimi matrimoni bianchi, il suicidio non fa quasi più notizia e la gente uccide per il semplice gusto di sapere cosa si prova. 

Quel che è certo è che Sayaka non vuole darci risposte, anzi, ma farci mettere in discussione le nostre stesse convinzioni su argomenti che diamo per scontati e su cui con abbiamo ripensamenti, ci mette una pulce nell’orecchio: se accadessero realmente certe cose, noi come ci comporteremmo? Conviene rifletterci su. 

Antonella Scagliola

Antonella Scagliola: Studentessa, fa una cosa che solitamente gli studenti di lettere non fanno: legge davvero i libri! Appassionata di film, musica e letteratura, con una particolare propensione e passione per gli artisti americani. Il suo ideale di serata è: copertina, tisanina e libro. 

Daniel Schulz: “Eravamo come fratelli” (trad. Federico Scarpin – Bottega Errante Edizioni), di Rita Mele

Lo scrittore, antropologo, drammaturgo e sceneggiatore statunitense Robert Ardrey, nel suo libro The Social Contract (il terzo della quadrilogia sull’evoluzione della natura umana, pubblicata negli anni ’70), osservava che “il principio organizzativo della vita di Rousseau era la sua inaffondabile credenza nell’originale bontà dell’uomo, incluso lui stesso”. Ardrey, nella sua visione più disincantata, affermava però nel successivo L’istinto di uccidere che “proveniamo da scimmie evolute, non da angeli caduti”, sottolineando come la violenza sia parte integrante della nostra natura. Concludendo, ci invitava a stupirci non tanto delle guerre e dei massacri, quanto dei brevi momenti di pace, delle sinfonie, dei campi in fiore, e dei sogni, anche se difficilmente realizzabili. È una riflessione simile a quella che Stanley Kubrick riprese in un suo articolo del New York Times nel 1972, in difesa del suo controverso film Arancia Meccanica.

Ma perché questo riferimento a Kubrick e ad Ardrey per parlare di Eravamo come fratelli di Daniel Schulz, un romanzo pubblicato per la prima volta in Germania nel 2023?

Il collegamento non è immediato, ma emerge leggendo il racconto delle scorribande dei protagonisti di Schulz, il cui legame fraterno ricorda, seppur vagamente, le “spedizioni punitive” dei Drughi di Arancia Meccanica. Tuttavia, ridurre il romanzo a questo sarebbe superficiale. La narrazione diaristica di Schulz nasconde livelli più profondi, in cui la natura ambigua e tormentata dei personaggi si intreccia con temi universali che, in qualche modo, richiamano quelli affrontati da Kubrick.

Seguendo la scrittura diacronica di Schulz, che attraversa gli anni dalla vigilia della caduta del Muro di Berlino (1989) fino al 2000, il lettore viene costantemente spinto a riflettere sull’ambivalenza della natura umana. La paura e la violenza si mescolano in un ciclo continuo, dove l’una alimenta l’altra, lasciando l’interrogativo centrale: quando è iniziato tutto? Qual è il punto d’origine dei fascismi, dei nazismi, degli estremismi che nascono da singoli individui e si espandono in intere comunità?

In Eravamo come fratelli, Schulz racconta, attraverso le vite di quattro bambini della DDR, un viaggio che va dall’innocenza dei giochi di guerra alla tragica realtà dell’adolescenza, invasa dalla violenza razzista e dal neonazismo. In queste pagine si intuisce il parallelo con la follia nazionalsocialista e con quell’odio che si alimenta di paura e paranoia. E qui emerge un altro confronto: quello con Mein Kampf di Adolf Hitler, l’opera che, nelle sue folli dichiarazioni, anticipava il caos e la devastazione che avrebbero segnato il Novecento. La lettura del romanzo di Schulz ci ha portato a ricordare anche la recente tournée teatrale di Stefano Massini, che ha rielaborato Mein Kampf, mettendo in scena le radici di un odio che ancora oggi può trasformarsi in deflagrazione sociale.

Schulz, con un linguaggio asciutto e schietto, a volte quasi distaccato, ci mostra come l’interruzione del dialogo tra generazioni, tra padri e figli, possa portare a una dolorosa alienazione. Il giovane adulto, incapace di trovare una direzione, può rifugiarsi nel branco, in cerca di appartenenza, di identità, con il rischio di cadere preda della violenza e dell’aggressività. La scrittura di Schulz, a tratti poetica e intima, evoca proprio questo straziante bisogno di cambiamento e ribellione, un desiderio che spesso si infrange sotto le macerie delle illusioni giovanili.

Non possiamo fare a meno di ricordare, infine, le parole di Ardrey: ci vuole un insegnamento profondo, un percorso di consapevolezza, per imparare a sorprendersi dei brevi momenti di pace, dei sogni e delle sinfonie che illuminano, seppur fugacemente, la nostra storia, evitando che il passato torni a ripetersi.

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare

Paolo Rumiz: “La rotta per Lepanto” (Bottega Errante Edizioni), di Valeria Jacobacci

Il Mare Mediterraneo e lo scontro Oriente Occidente sono i temi del libro di Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, velista, triestino, inviato speciale de “Il Piccolo”, editorialista di “Repubblica”, in campo a Islamabad e a Kabul nel 2002 per seguire l’attacco statunitense in Afghanistan, autore di numerosi libri, all’attivo molti riconoscimenti.

Al di là di tutto questo ciò che lo contraddistingue è una profonda passione per la storia e per il mondo, il teatro in cui essa si svolge, un totalizzante aderire alle dimensioni di spazio e tempo, visti nel loro insieme dall’alto,  su ali di gabbiano, trasvolando le acque dell’Adriatico in viaggio da Venezia in giù, verso il Mare nostrum, o nel Mare di Mezzo, come lo definisce traslandone il nome, dove questo prolungamento del Canal Grande diventa lago marino e contiene il nostro fluido passato.  

Lepanto. La formidabile battaglia. Questa è la destinazione. E mai come ora la meta è significativa. 1571: la sconfitta dei Turchi e il trionfo dei cristiani, ma è davvero così? Grande protagonista, il mare. Personaggi: popoli che in ogni tempo l’hanno attraversato usandolo come ponte da un luogo all’altro, da una terra all’altra, con i natanti più diversi, battendo le onde e arrossandole col proprio sangue in mille battaglie.

“La rotta per Lepanto” descrive un pellegrinaggio, ha un carattere moderno, ludico e spensierato ma meditativo e profondo. E’ un racconto di viaggio, avventuroso per la varietà dei mezzi che solcano le acque, dalla barca a vela al passaggio su piccole navi o navigli, traghetti e motoscafi, fino alla “Vela rossa”, nel mare del Montenegro, venuta da chissà dove, una barca di nome Moya che “arriva in silenzio nell’acqua increspata color del rame e dello zinco”, di legno, e con vele rosse di tela come quelle di Omero.

Ed è da Omero che questo mare divide e unisce, separa le culture ma ne implementa lo sviluppo, miscela raffinatezze e barbarie. La navigazione è il modo più appropriato. O forse l’unico per ricordare, commemorare ma soprattutto capire una storia plurimillenaria che è la vicenda della nostra civiltà, quella che raccoglie le diaspore e ridistribuisce i destini.

Il mare della costa alta dell’Adriatico è affollata di barche da diporto, la Croazia è meta privilegiata, i posti sono allegri, variopinti e troppo moderni se confrontati con gli approdi più in giù, il turismo predilige le comodità e gli svaghi, i luoghi, tutti scelti lungo il percorso sulla costa Est, nelle terre nostre dirimpettaie, si fanno più austere man mano che si prosegue verso sud.

Dopo la Croazia, Bosnia e Montenegro e dopo Ragusa, Perasto, Bar, lungo l’Albania, il mare si desertifica, è un andare del tutto solitario. Poi la Grecia. Tutto cambia e si ripopola il paesaggio. Le isole greche, fra tutte Itaca!

Il pellegrinaggio è vicino alla meta, Lepanto. In questo mare è successo tutto. La contrapposizione Oriente Occidente è incominciata molti secoli prima di Lepanto, molto prima che Maometto nascesse, quando l’Islam non c’era.  Ulisse vaga da Itaca verso Troia, nella Troade, verso Est, e poi a ritroso,  come  gli altri Greci di ritorno in patria, viaggi lunghi decenni.  

Quando Roma, che è Occidente, con tutto quello che lo caratterizzerà in seguito, vince sul mondo greco,  sarà Cesare a puntare sull’Egitto e poi Antonio, al fianco di Cleopatra, nella battaglia di Azio. I turchi imperverseranno più tardi ma non saranno sempre nemici. I traffici commerciali con la Serenissima sono vantaggiosi per tutti, sono più gli accordi che i disaccordi. Nel mezzo le altre repubbliche marinare, i pirati, i saccheggi.

A Lepanto l’esercito della Lega Santa contro l’infedele, una vittoria che costò forse più all’Occidente vittorioso. Il pellegrinaggio finisce qui, attraverso le acque che hanno visto le stragi del secolo breve e, dopo le due guerre mondiali, la guerra fra Serbi e Croati. L’Adriatico poteva essere, e spesso lo è stato, un trait d’union fra popoli non così diversi come si vuole che siano, un coacervo di lingue, culture, usanze.

Il grande rivale è il Tirreno ma soprattutto l’Atlantico, verso il Nuovo mondo che sottrae il primato dell’economia a Venezia e a Istanbul.  Tutto questo è detto brevemente, poeticamente, con l’occhio del giornalista dei tempi nostri e del velista filosofo, molto dall’alto e con il distacco di un Seneca, temprato da Socrate e senza saltare Plutarco con il ciclo delle costituzioni.  Fra un bicchiere di vino ellenico e un aroma di cibo esotico. 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.