Enrico Macioci: “Il grande buio” (Neo Edizioni, 2025), di Valeria Jacobacci

Una raccolta di racconti noir, thriller fra polizieschi e introspettivi? Senza dubbio questo ed altro ancora rappresenta “Il grande  buio” di Enrico Macioci, edizioni NEO.  Dello stesso autore  avevamo apprezzato “L’estate breve”per  TerraRossa, “Lettera d’amore allo Yeti” con Mondadori, “Terremoto” per Terre di mezzo.  Peculiare di questo nuovo lavoro è un distopico sguardo all’anima nera di un anti mondo, somigliante a un anti Cristo, destinato, tranne forse in un caso o due,  a restare senza riscatto, senza redenzione e, soprattutto, senza spiegazione. Abituati come siamo agli enigmi, continuamente presenti nel mondo attuale, leggiamo spesso senza scomporci di orribili morti, crudeli delitti, malsane fissazioni, ma questa volta sicuramente non è tutto qui: in questo libro un inquisitore ostinato e un osservatore nascosto pongono domande, sembra non si accontentino del mistero. Qui, prima del macabro e prima dell’assurdo, è la semplicità delle vite comuni che non convince, quasi un teorema messo a dimostrare che è proprio l’idea di normalità a risultare assurda, a sollevare i dubbi più disparati. Se il contrario di vita è morte, il contrario di luce è buio, un “grande” buio, recitato nel titolo e teorizzato in alcuni passaggi. Il concetto non è nuovo, era in ogni letteratura ancora prima che le lingue ne lasciassero traccia, nuova è una diversa prospettiva, né distaccata o indifferente, né eroica o patetica, piuttosto presentata da un occhio strabico profondamente dissociato, una spia dentro il cervello umano, una spia disturbante come un pensiero rimosso.   L’orrore condominiale maciullato in piscina esordisce senza equivoci nel primo racconto, apocalittico senza appello come la scena di un film, così come filmico sembra l’ultimo racconto con la sua chiusura ad anello, nel mezzo il tema viene declinato in più modi, tutti riconducibili alla paura del buco nero, più che cosmico e divoratore di universi, luttuoso e disorientato, come appare di notte una stanza da letto senza il chiarore proveniente da abatjour, imposte o finestre.    

Macioci, che è nato nel ’75, sono certa conosca la serie di telefilm di Hitchcock, uscita nel ’55: l’atmosfera è la stessa, la fine di ogni episodio lascia lo stesso ironico stupore, con l’impressione di essere stati garbatamente presi in giro, oppure provocati nei sentimenti e nel buon senso comune, e magari portati a chiederci che cosa sia il buon senso comune. “La puzza” è il secondo racconto, invaso dal pestifero odore di cadavere, a ricordare che il marcio non è solo in Danimarca.  Ormai abbiamo notizia di femminicidi quasi ogni giorno, non c’è bisogno di ricorrere alla fantasia, la realtà supera l’immaginazione, come recita un abusato luogo comune: “Proprio come in Barbablù” osserva nella narrazione uno dei personaggi. L’attenzione si sposta quindi su quanto accade dopo, quando l’assassino incontra un’altra donna, del tutto ignara e affascinata dall’avventura di una notte, per lei l’avventura non si concluderà in orrore,  per sua fortuna non è lei l’oggetto dell’ “amore” e perciò del possesso, la vendetta non è sulle donne in genere ma su “quella” donna, considerata unica. 

In ogni storia il lettore è attratto dalla descrizione minuziosa di ambienti, stati d’animo, sensazioni e particolari , la natura parla ma parlano anche gli oggetti, le strade, i condomini e i marciapiedi, un’osservazione pregnante che ricorda l’oggettivismo denso di significato di Robbe-Grillet. Il tema poliziesco di certi intrecci, caro allo stesso Robbe-Grillet, e ricorrente in questo libro, rafforza l’impressione che in letteratura niente va perso; il filo conduttore entra ed esce dalla realtà come l’ago di un ricamo a tombolo.  Un tema ricorrente è quello del disgusto, una sensazione rivoltante d’insofferenza per la brutale volgarità dell’animale umano, incapace di prescindere da umori, eiezioni, sudiciume, dai quali invece sembra a volte attratto, incapace com’è di osservarli scientificamente per quello che sono, o di sublimarli con la pietà. Ambiguo è lo stupro, ambigua è la vita di coppie o famiglie borghesi, perbene, normali.  Presente, e forse dominante, è la contrapposizione dei ruoli e dei caratteri nelle coppie, all’interno delle quali le posizioni si ribaltano alternativamente, l’uomo è fragile, inconcludente ed esile, la donna a volte una virago, amante in segreto di una preistorica clava, a volte spezzata, esasperata e pericolosa,  il conflitto non ha soluzione, o così sembra. Fra le storie si può intravedere un filo conduttore: il personaggio dell’ispettore e del suo aiuto (tributo a Sherlock Holmes e a Watson, mai dimenticati nell’immaginario, ridimensionati e adattati alla disillusione) può essere il fil rouge, se vediamo in loro, personaggi marginali e forse inessenziali,  una ipotetica coscienza, che osserva e arretra, quasi con rispetto, di fronte all’imperscrutabile buio. Il lettore va avanti fino alla fine , attratto e partecipe, assorbito dalla narrazione, che è poi il principale merito di un buon libro. 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Yasmina Reza: “La vita normale” (Adelphi, trad. Davide Tortorella), di Valeria Jacobacci

 Yasmina Reza è principalmente una drammaturga ma scrive anche romanzi molto apprezzati dalla critica e dai lettori; del 2024 è l’opera “La vita normale”, pubblicata da Adelphi in Italia come altri suoi scritti di successo internazionale. Si tratta di una raccolta di racconti più o meno brevi,  ispirati quasi sempre dalle scene di processi da lei personalmente seguiti nelle aule di un tribunale.

“Edith Scaravetti ha ucciso suo marito Laurent Baca di notte, con un colpo di carabina 22 long rifle alla tempia. Mi occorre un bel po’ per mettere a fuoco il suo viso, benché l’aula sia piccola e la mia panca abbastanza vicina. Con i capelli neri tirati indietro, il corpo rattrappito, come congelato, guarda fisso un punto poco più in là delle sue scarpe.” (Il rovescio della vita)

“Il 3 agosto 2021, in un convoglio della linea 13 della metropolitana in direzione Chatillon, Dalila ha fatto un piccolo massacro. Ha pugnalato al torace un giovane fattorino nero, ricoprendolo di insulti razzisti… ” (Disperatezza)

E’, nell’insieme, il ritratto epocale di una società il cui tratto comune è l’assenza di consapevolezza, come se tutti i personaggi, uomini, donne o bambini, vecchi o giovani, di qualunque classe sociale, si trovassero privi di coordinate, spogli di informazioni valide, senza difese, soprattutto da se stessi. A fare da protagonista il completo abbandono dell’essere umano, alla mercé di impulsi che non è in grado di dominare e che, soprattutto, non comprende affatto. Merito dell’autrice è l’aver messo il dito nella piaga, un cinismo cieco non dovuto a durezza d’animo ma a mancanza di comprendonio. Da questo suo punto di vista i processi sono completamente inutili poiché nessuno degli imputati capisce che cosa ha fatto, smarrito nel “tutto si equivale” e nel “tutto è possibile”.  Molte volte però il processo non c’è e il racconto è descrizione dietro una fotocamera di persone prese a caso come esempio di possibili, o molto probabili, storie e biografie, tutti possono essere tutti.  Ancora Pirandello? Forse per caso. In alcuni processi quello che viene rappresentato è il degrado sociale, una donna uccide il marito alcolizzato e violento e lo seppellisce in giardino, poi sposta il corpo, lo immerge nel cemento, viene scoperta e processata: ha subito stupro e violenza da ragazzina  e questo è il risultato. 

I riferimenti a esperienze personali dell’autrice si inseriscono senza problemi e senza chiedere il permesso, non è una voce fuori campo, è la coscienza che manca ai personaggi. I riferimenti  letterari e culturali sono espliciti, a Borges, per esempio, o a se stessa, quando cita  “Il dio del massacro” la commedia da cui fu tratto il film “Carnage” di Roman Polanski.  Yasmina Reza può permetterselo. Non manca la critica a un mostro sacro come Faulkner e all’illeggibile “Assalonne, Assalonne!”.

Ma torniamo ai processi, qual è l’interesse di Yasmina Reza per i processi? Sono descrizioni, immagini fotografiche, in un certo senso, sono tratti fotografici quelli che vengono descritti, fotogrammi che nascondono o svelano come quando il fotografo è un artista che coglie l’anima con l’obiettivo. Forse è questo l’unico modo attualmente possibile di indagare la realtà. Fra tutti primeggia il tema della morte, niente di gotico o grottesco, come si è abituati a pensare, enigmatica sì! Che sia morte naturale o violenta, improvvisa o annunciata. Anche la morte del suo amico editore, Roberto Calasso, del quale le arrivano per posta i due ultimi libri, senza dedica, perché la morte interrompe lo scambio. Non per chi scrive, come Yasmina Reza, o per chi edita i libri altrui, come Calasso, padre della Casa editrice Adelphi. 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Wanda Marasco: “Di spalle a questo mondo” (Neri Pozza), di Valeria Jacobacci

 Non esiste un solo Ottocento, come sa bene chi è appassionato di un’epoca così significativa per i presupposti tutt’altro che scontati dei tempi futuri. Di quel periodo la Marasco mette in luce lo spaccato degli intelletti nostri tipicamente meridionali, volontariamente rinunciatari della propria individualità in favore di un bene più alto, nazionalista, che porta all’Unità d’Italia e a gran parte degli eventi che si affacciano al Novecento.

  

Non c’è da meravigliarsi se accanto alla tisi, che faceva strage di eroine romantiche nelle opere liriche, si manifestassero almeno due mali estremi per gli animi sensibili, la follia che si accompagna alle allucinazioni degli artisti, e il male di vivere, un’anticipazione dell’esistenzialismo del secolo successivo. Oppure si tratta di un rinvio al taedium vitae di Lucrezio, che lo associa alla malattia dello spirito, e forse alla noia di cui parla Seneca, l’assenza di senso, che fa dire a Cicerone di tornare indietro, al barcaiolo che lo sta portando lontano dalla lama del sicario venuto a tagliargli la gola. Questa ricerca della morte si camuffa da malattia mentale, nient’altro che uno stato di lucidità estrema, l’orrore della verità senza veli.

Ma cominciamo dall’inizio, come si diceva, appunto, nei romanzi dell’Ottocento. Il male di vivere nel Sud dell’Italia ottocentesca risiede nei due momenti fondamentali dell’esistenza, il tempo racchiuso fra il primo vagito e l’ultimo respiro e la dimensione estesa di un tempo  fermo sempre uguale a se stesso. Quest’ultimo è il dramma del Gattopardo,  inorridito ma impassibile di fronte al “tutto cambia affinché tutto resti uguale”, dall’altra parte c’è la percezione di un movimento che comunque esiste e al quale bisogna dare un contributo personale. Almeno per alcuni decenni, questo  sembra possibile, la volontà trova intoppi ma poi si libera, segue il percorso a tratti faticoso e a tratti in picchiata verso qualcosa.  

Il medico Ferdinando Palasciano è  un personaggio storico, di straordinario talento ma non possiede il cinismo necessario alla sopravvivenza. Chissà, forse se avesse conosciuto Giuseppe Moscati, il medico santo che sarebbe nato a Napoli poco dopo, avrebbero collaborato, invece le cose andarono diversamente. Come altri personaggi eccellenti che appaiono nel romanzo, il pittore Vincenzo Gemito e il meno famoso ma celebre Eduardo Dalbono, autore di paesaggi indimenticabili di Napoli e del Vesuvio, il giovane Ferdinando Palasciano riceve riconoscimenti internazionali per il suo pregevole lavoro di medico e si fa notare per i suoi incrollabili princìpi.

Sarà l’ispiratore per la creazione della Croce Rossa. Durante la spedizione di Garibaldi in Sicilia  era stato arruolato fra le file borboniche, sul campo di battaglia, dov’era ufficiale medico, non esitò a curare i feriti di entrambi gli schieramenti. Chiamato a giustificare il suo operato dal generale Carlo Filangieri, spiega che il soldato va onorato e rispettato qualunque sia la sua appartenenza. Viene condannato lo stesso per tradimento e solo in seguito assolto dopo un anno di carcere grazie all’intercessione di re Ferdinando II. Il Risorgimento napoletano è doloroso, complicato. Questo spiega quella sorta di inguaribile frattura subita da tanti personaggi divisi fra onori e disillusioni.

 

Fatta l’Italia, Palasciano guadagna stima e onori, sposa un’affascinante contessa russa, Olga di Vavilov, che ama appassionatamente e che guarisce da una zoppìa considerata incurabile. Insieme costruiscono e abitano una bella villa dominata da una torre. La Torre è simbolo di spiritualità eccelsa ma prefigura la morte come in un romanzo gotico. L’eccesso di sensibilità racchiude una consunzione morale alla quale i due non possono sottrarsi, quasi che lo sforzo fosse di troppo superiore alle reali capacità umane.

Lo spirito romantico racchiude una radice esoterica che a Napoli è particolarmente sentita. Tutti i personaggi vivono almeno due dimensioni, parlano più lingue, a quella della scienza si affianca il dialetto dei servi ma anche dei napoletani tutti, un linguaggio nobile, forbito, pieno di significati. Il cimento politico del dottor Palasciano diventa frenetico, nella bella villa si svolgono serate e concerti, Olga canta i più difficili lieder, non rimpiange la Russia, ha nugoli di ammiratori, nulla di fronte al legame indissolubile che la lega a colui che l’ha salvata dalla zoppìa. Si tratta di una zoppìa reale o psicologica? Entrambe le cose, la femminilità di Olga è di per sé zoppa.                                                                                                                                       

Il colpo di grazia alla salute mentale del dottor Palasciano lo dà la perdita della sala operatoria, fiore all’occhiello del suo ospedale. Così è la pazzia a fare da padrona, il medico è rinchiuso in una casa di cura, Villa Fleurant, dove a fargli compagnia è il fantasma di Vincenzo Gemito, anch’egli fuori di sé per l’incomprensione della sua arte, o, forse, per il sospetto di averne persa la reale ispirazione. Un altro artista attende al varco il dottore all’uscita dal manicomio, quando sembra ormai guarito. E’ Eduardo Dalbono, al quale il medico commissiona una serie di vedute del Vesuvio, da eseguire in una “camera della poesia” che si trova all’interno della Torre. E’ nella Torre che l’amore di Olga cambia obiettivo, il pittore è irresistibile, ma i princìpi morali e la fedeltà al marito lo sono di più. Ferdinando lo sa, capisce, ama parimenti l’amico pittore e la meravigliosa contessa che è sua moglie. Il ménage a trois non è possibile, non ci siamo arrivati, ammesso che si possa considerare una via di fuga. La Torre resta simbolo esoterico di un’immortalità  messa costantemente in dubbio, l’amore è sacrificato, la felicità è una poetica zoppìa.

“Di spalle a questo mondo” di Wanda Marasco è nella dozzina dei candidati al Premio Strega 2025.

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Alexandre Dumas: Inciuci e cose truci, di Bernardina Moriconi

Da poco si è concluso l’ennesima fiction sul Conte di Montecristo. Ennesima già, perché una storia così ben architettata, straripante di passioni trame oscure e vendette, fa impallidire molte delle sceneggiature di film e serie attuali, e questo spiega il proliferare di versioni e riletture del buon Montecristo.  Ci voleva la fervida mente di Alexandre Dumas per un simile parto. Il quale però si faceva aiutare da numerosi ghostwriter, che al tempo erano  chiamati “negri”:  gran bel paradosso per chi, come Alexandre, era effettivamente di colore, essendo mulatto per lato paterno poiché la nonna era una schiava nera di Haiti soprannominata la femme du mas  (donna della masseria):  quel “du-mas” era diventato poi il cognome  del padre del futuro scrittore, che per disaccordi familiari aveva ripudiato nome (e titolo nobiliare) paterno  a vantaggio del soprannome della mamma caraibica.

Ordunque, Alexandre era un vero mezzo “negro” che si serviva di finti “negri” che per guadagnare lo aiutavano nella sua sconfinata attività letteraria. Fra questi il più famoso, e che collaborerà anche alla stesura del Conte di Montecristo, risulta Auguste Maquet, scrittore in proprio ma che si arricchì grazie alla collaborazione con Dumas, almeno fino a che i rapporti fra i due si guastarono e finirono in tribunale, rivendicando, il Maquet, la paternità (o copaterintà) di numerose opere del suo datore di lavoro.  

Maquet non riuscì ad avere il suo nome sulla copertina di alcun libro di Dumas, ottenne però  una lauta ricompensa in quattrini e pare che il Castello di Sainte-Mesme in cui morrà nel 1888 lo avesse acquistato coi proventi dei romanzi  cui aveva messo mano,  mentre il papà dei tre moschettieri, sommerso da debiti, fu costretto a mettere all’asta lo splendido  “Castello di Montecristo”, che si era fatto costruire in un terreno da lui acquistato appositamente, e a riparare frettolosamente sebbene temporaneamente all’estero, inseguito da un’orda inferocita  di oltre centocinquanta creditori. 

Al di là comunque degli scrittori fantasma, un aiutino per le sue opere Dumas lo ricavava anche da testi altrui  (vedi il ciclo dei Tre moschettieri per cui si ispirò alle Mémoires de Monsieur d’Artagnan, versione romanzata di un moschettiere realmente vissuto) o  da fatti di cronaca.  Come nel caso di Montecristo per cui attinge a una efferata vicenda di crimini e vendette. Questa in breve la storia. 

Un poveretto, tal Pierre Picaud di professione calzolaio,  viene accusato di essere una spia al soldo britannico da tre amici invidiosi delle prossime nozze del loro “amico” con una ricca donzella di nome Marguerite. Pierre viene così messo in catene proprio il giorno degli sponsali per ordine del duca di Rovigo, generale e già a capo della gendarmeria imperiale nonché fedelissimo di Napoleone da cui aveva ottenuto il titolo nobiliare. Picaud, ignaro dell’accusa, rimane incarcerato per ben sette anni nella Fortezza  di Fenestrelle, in Val Chisone. Qui, come accadrà al suo emulo letterario, scavando una galleria finisce nella cella attigua dove si trova  in catene un uomo di chiesa, parimenti italiano come l’abate Faria, tal padre Torri, il quale in punto di morte gli lascia in eredità il suo tesoro che si trova nascosto a Milano. Nessuna fuga rocambolesca per Picaud:  liberato dopo la caduta di Napoleone nel 1814, forte del tesoro e di una falsa identità, progetta una feroce vendetta. Elimina a uno a uno coloro che lo avevano tradito, lasciando come unica traccia del suo delitto  una scritta con numero progressivo (numero uno, numero due, numero tre).

 

La vendetta più lunga e subdola è quella ordita ai danni di Mathieu Loupian, il quale, all’epoca di fatti iniziali, vedovo e con due figli a carico, aveva messo gli occhi sulla ricca fidanzata di Pierre, Marguerite che ora è sua moglie. In più, è diventato proprietario di un bel ristorante nel quale, sempre tramite raggiri, Picaud si fa assumere come cameriere. A questo punto si scatena: fa sedurre e metter incinta la figlia da un delinquente che si era spacciato per un aristocratico italiano e che il giorno delle nozze riparatrici scompare non prima di aver inviato un biglietto a ciascun invitato svelando la sua reale identità; riesce a traviare l’altro figlio di Loupian  con cattive frequentazioni e un furto per cui finisce in carcere per lunghi anni; fa poi incendiare il ristorante dell’uomo riducendolo sul lastrico e mentre Marguerite era nel frattempo morta di crepacuore, Picaud, fingendosi sempre solidale e affezionato al suo datore di lavoro, si offre di mantenere lui e la figlia in cambio però dei favori di quest’ultima. Non pago, durante una passeggiata notturna giunge al culmine della sua vendetta uccidendo  anche il Loupian (il numero tre). Ma poiché il male genera male, anche Picaud farà una brutta fine, ucciso da Allut, cioè colui che, in cambio di un diamante, aveva svelato  a Picaud appena tornato dal carcere sotto falsa identità  tutta la storia del suo arresto e delle persone coinvolte. Rifiutandosi di sottostare al ricatto di Allut che pretende altri soldi in cambio del silenzio, Picaud viene ucciso diventando il quarto e ultimo morto della tragica sequenza.

E l’isola di Montecristo, direte voi, con tutto il suo fascino e mistero, non c’entra proprio nulla? No, no, qualcosina riguarda anche l’isola toscana,  perché alla mente fervida di Dumas non doveva essere sfuggita  una leggenda relativa a Montecristo, in cui si vagheggiava di un tesoro presente nell’isola, frutto di donazioni ecclesiastiche, che era stato custodito e poi nascosto dai monaci dell’abbazia di San Mamiliano, edificata nel V secolo e poi abbandonata nel ‘500 a cause di frequenti incursioni piratesche. 

E giacché nelle leggende si nasconde spesso un fondo di verità, qualcuno di voi che abbia avuto bontà di leggere fin qui potrebbe decidere – ipso facto – di tentare la fortuna cercando la fortuna nell’isola di Montecristo. Buona fortuna! 

Ma, al rientro, niente vendette, per carità!

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.

Andrea Bajani: “L’anniversario” (Feltrinelli), di Valeria Jacobacci

 La  famiglia è una prigione? Un carcere di massima sicurezza? E’ così che la immaginiamo nel racconto di Andrea Bajani, che affida alla lama affilata del “romanzo” la salvezza che è liberazione ma anche strappo e vergogna, paura e senso di colpa. Da questo cocktail velenoso è difficile salvarsi, anche se si frappongono migliaia di chilometri e si cancellano accuratamente le tracce che conducono all’autonomia finalmente raggiunta. Il fuggitivo però resta un transfuga, un traditore e un disertore della guerra sempre in agguato fra un armistizio e l’altro. Il nido senza il quale nessun essere vivente può sopravvivere è anche trappola e tagliola. L’anniversario da festeggiare è il giorno in cui si imboccano le scale di casa e non si fa più ritorno.

Vengono in mente le parole di una canzone del primo Novecento, dove la giornata dell’addio è una magnifica giornata: “Oggi che bellissima giornata, che giornata di felicità, la mia bella donna mi ha lasciato…” il disco un po’ gracchiante attesta un indiscutibile sollievo. Succede quando un rapporto malato ha finalmente fine e il legame miracolosamente si scioglie. Nel caso della famiglia la situazione è diversa, il groviglio è inestricabile, più di un nodo di Gordio, e come tale ha bisogno di una spada e di un eroe per essere tagliato, più che di un semplice paio di forbici.

Perché? Perché si tratta davvero di un gesto eroico, del quale non tutti sono capaci, e anche quelli che ci riescono hanno bisogno di molto tempo per arrivarci. Lasciare la famiglia è facile quando il rapporto con essa è sano, allora non si tratta di abbandono, è un semplice e naturale allontanamento, senza traumi, solo la schiavitù rende complicata e pericolosa l’evasione.

Bajani parla di un rapporto familiare malato, sicuramente non raro, alla base del quale c’è la completa sottomissione della madre al padre. L’anomalia della situazione grava sui figli, un maschio, il protagonista, e una femmina, sua sorella. I due reagiscono in forma diversa agli scoppi d’ira del tiranno, consistenti in volo di oggetti, mobili rotti e botte sul corpo della madre, raramente su quello del figlio. Lui, il figlio, non ha la forza per ribellarsi, inizialmente perché è solo un bambino, poi perché, per l’appunto, non è un eroe, durante la crescita i numerosi episodi gli hanno provocato una nevrosi, con disturbi psicofisici che vanno dalle crisi di panico ai crampi violenti nel profondo delle viscere. La sorella si chiude, non trova complicità in lui, che suscita così il suo disprezzo, aspetta tranquilla di crescere per sposarsi e mettersi in salvo, se davvero si metterà in salvo.

L’incomunicabilità è il danno maggiore rappresentato dalla via di fuga scelta dalla madre, che è quella di rifugiarsi in un altro pianeta, dove non le arriva il dolore dell’umiliazione e non la spaventa la violenza, semplicemente lei non c’è, anzi, non “è”.   E’ questa la psicanalisi operata dal figlio, che osserva la madre con stupore crescente. Ad ogni crisi di violenza domestica segue un periodo neutro, durante il quale nessuno dice o fa niente, in attesa che tutto torni normale, di solito è il figlio a rompere il ghiaccio, raccontando un episodio qualunque o azzardando una battuta di spirito, allora il tiranno si degna di rispondere e la famiglia può tornare a respirare. La madre si prodiga in attenzioni e riguardi, come se dovesse farsi perdonare una colpa e non fosse invece il contrario.

I nonni hanno uno spazio in questa famiglia. Quelli materni restano ancorati a uno sterile perbenismo che impedisce loro di correre in difesa della propria figlia, assistono inermi e abulici alla sua rovina. Gli altri nonni non sono sposati, anzi, la nonna ha avuto figli da uomini diversi, il figlio bullo soffre di complessi d’inferiorità perché i fratelli di primo letto appartengono a una classe sociale più ricca. Ecco svelato il mistero: il senso d’impotenza e il rancore si scaricano sulla donna inerme che ha accettato di essere sua moglie.

Con simili genitori e nonni che può fare il nostro protagonista? Solo fuggire. Ed è quello che farà superando il più forte sentimento di colpa che è quello di lasciare la madre nelle mani del suo aguzzino. Ma la vittima non rischia niente perché è già morta molti anni prima. E nemmeno se n’è accorta. Che succede in terza generazione? Quello che succede a molti giovani laureati senza beni di fortuna e famiglie forti alle spalle: il figlio cerca e trova lavoro un po’ ovunque all’estero. Dopo il distacco per frequentare l’università questo è per lui un ottimo pretesto per mettere quanti più chilometri possibili fra sé e i suoi disgraziati parenti. Tuttavia le radici si tagliano dopo molto tempo e solo quando la maturazione psicologica e sentimentale è raggiunta, dopo una lunga psicoanalisi, una profonda sofferenza e un faticoso riguadagnare la riva dopo il più rovinoso dei naufragi.

Ma la vera protagonista resta la donna: perché non ha mai reagito?  Eppure lei non ha paura, profondamente anestetizzata, non è in grado di salvare né se stessa né i propri figli. Oppure pensa di farlo proprio in questo modo? E il padre? Può avere una qualche scusante? La sua è un’assurda richiesta d’amore. E’ così che il figlio decodifica il comportamento del debole, del fallito, dell’incapace. Forse non sa che le colpe vengono da più parti, per questo la sua risulta una denuncia: della società e dei suoi vizi, dei falsi valori e degli atavici pregiudizi.
 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.