Carlo Goldoni: La bottega del caffè, di Sonia Di Furia

La bottega del caffè, deliziosa commedia in prosa scritta in tre atti, viene rappresentata per la prima volta a Mantova nella primavera del 1750, in seguito a Milano e, nell’autunno e successivo carnevale, a Venezia. Ce ne parla lo stesso Goldoni nelle Mémories, inestimabile fonte di notizie circa le sue opere. Si prende qui in considerazione l’edizione dei Classici BUR Rizzoli, con l’introduzione di Luigi Lunari e la premessa al testo e note di Carlo Pedretti.

Il socievolissimo Settecento aveva conosciuto una vera e propria passione per il gioco d’azzardo, che costituiva non solo un semplice divertimento, ma anche un’ulteriore occasione per stare insieme, per coltivare relazioni e stringere amicizie galanti, naturalmente con grave pericolo per la gioventù sprovveduta. Il buon esito della “Bottega del caffè” aveva indotto Goldoni a sfruttarne sino in fondo l’argomento del gioco e a scrivere altre opere con lo stesso tema, a iniziare da “Il giocatore”, che non piacque al suo apparire e continuò a non piacere, contrariamente al “Cavaliere di buon gusto”, composto in precedenza e che, dopo un inizio incerto, aveva sfondato con il passare del tempo. 

Si trattava di un argomento attualissimo, che rispecchiava la società veneziana del Settecento, nella quale, accanto alla passione per il gioco coesisteva quella della vita di relazione, avente il suo centro proprio nelle botteghe da caffè. Queste si erano moltiplicate a dismisura e, nel 1750, sulla sola Piazza lungo le Procuratie Nuove se ne contavano circa quaranta: numero destinato a crescere con l’andar del tempo, tanto che il Senato, dieci anni più tardi, ne fissava tassativamente il limite massimo a duecento sei, cioè quelle esistenti nelle isole di San Marco, Rialto e contrade adiacenti. Non stupisce, quindi, che una commedia così calata nel contesto cittadino abbia avuto anche una stesura in dialetto, con le maschere di Brighella e Arlecchino al posto di Ridolfo e Trappola, che anche nella versione italiana conserva tracce arlecchinesche.

La critica si è dimostrata favorevole alla Bottega del caffè, che ha sempre incontrato i gusti del pubblico, costantemente rappresentata nell’Ottocento e nel Novecento, anche in vesti vernacolari non veneziane e in dramma musicale.

Carlo Goldoni è colui che di fatto si assume il compito di creare un teatro che rifletta l’ideologia, gli interessi, i problemi, la sensibilità della nuova classe. La borghesia, sempre più struttura portante della società, esige ormai un teatro fatto a propria immagine e somiglianza; e questo teatro non può trovarlo né nella commedia dell’arte, avulsa oramai dalle proprie fonti di ispirazione e dalle proprie motivazioni storiche, e decaduta a campionario di lazzi volgari e assurdi, né nel dramma neoclassico in versi, tutto irto di dèi e di eroi, e intessuto di locuzioni e di tematiche inaccessibili alla vita borghese di tutti i giorni. Goldoni non teorizza in questo senso la propria opera, tuttavia egli costruisce una drammaturgia che risponde con assoluta coerenza alle implicite richieste di questo nuovo pubblico; che ne riflette la gnoseologia, l’estetica e l’etica ( la conoscenza, il gusto e la morale) e illustra e propaganda le costruttive virtù del buon senso, della concretezza, della prudenza, della operosità della borghesia.

I concetti che paiono muovere il Goldoni della Riforma sono quelli della verosimiglianza degli eventi, della naturalezza e della credibilità dei personaggi, della educativa moralità delle storie narrate, della decenza del linguaggio; al punto che l’appellativo di <<riformatore de’ teatri>>, che egli volentieri si attribuisce, sembra alludere ad una semplice opera di pulizia e di polizia: bandire dal teatro la volgarità dell’espressione e dei lazzi, l’assurdità delle situazioni, la stantia convenzionalità delle vicende, l’incredibilità delle psicologie. Tuttavia, quello che si cela sotto questa apparente modestia di formulazione è nientemeno che la verità, l’esigenza di ricondurre e commisurare l’opera drammatica alla realtà dell’uomo, della società, della storia. Quando Goldoni rivendica l’importanza del carattere, e ne fa la colonna portante del proprio teatro, egli rimette l’uomo al centro dell’universo teatrale, liberandolo dai meccanismi della commedia dell’arte in cui non figurava ormai che, come automa, portatore di una tesi o di una passione. Il <<carattere>> altro non è che l’uomo credibile, verificabile, realistico e così devono essere le vicende in cui è coinvolto. Tutto questo è possibile attraverso l’osservazione del reale, secondo quello stesso metodo che centocinquant’anni fa Galileo e Cartesio avevano formulato per le scienze.

Goldoni crea una drammaturgia che soddisfa le richieste di questo nuovo pubblico: buon senso, concretezza, prudenza, operosità, le virtù insomma, aureamente mediocri, della borghesia nella sua fase positiva e progressiva.

Egli non teorizza in senso classista e sociopolitico la propria azione, non tanto per la prematurità dei tempi, quanto piuttosto per il suo stesso carattere, poco incline alla polemica; prudentemente attento a non urtare la sensibilità e non infastidire la suscettibilità di una nobiltà ancora potente e ricca di privilegi.  Preferisce fare le cose piuttosto che dirle e teorizzarle, seguendo il <<Si fa ma non si dice>, maliziosa norma del perbenismo borghese.

Goldoni si sente a suo agio nella città natale e in confidenza con la Venezia del XVIII secolo, in cui il passaggio dal ‘600 al ‘700 avviene senza fratture, portando avanti un’evoluzione artistica che lentamente trasforma, senza annullare. L’arte italiana perde in questo periodo quel ruolo di guida in Europa che l’aveva caratterizzata da quasi tre secoli, anche se resta il suo enorme prestigio. Solo l’arte veneziana ha ancora una posizione di primaria importanza. Venezia, dove tutte le istituzioni sono in decadenza, trova nei colori della sua pittura la lingua internazionale attraverso la quale lancia l’ultimo messaggio della sua civiltà, libera dalle responsabilità di rappresentanza e dall’impegno religioso. L’interesse per la città lagunare è condiviso dagli artisti e dalla committenza privata, che commissiona opere a Canaletto, Bellotto, chiamati a Dresda, Varsavia e Londra a diffondere le loro vedute; Guardi, e Longhi che osserva con curiosità discreta i piccoli episodi della vita borghese. Ma sarà Giovan Battista Tiepolo a compiere la straordinaria operazione di concludere il Barocco in Europa, trasferendo tutti i personaggi dei miti in un mondo di luminosa e serena evasione dove, eternamente belli, reciteranno una smaliziata fiaba che non potrà essere corrosa dal tempo. Questa Venezia, in cui Goldoni decide di far ritorno mancandovi dal 1743 e in cui si stabilisce con la moglie in casa della madre, nelle vicinanze di San Marco in corte San Zorzi,  si fa scrigno del passato anche lontano, come quando mura, sin dal XIII secolo su un angolo della basilica di San Marco, sicuramente proveniente da Costantinopoli, il gruppo in porfido dei tetrarchi eseguito in Egitto, immagine simbolica dell’impero romano unito sotto il governo della prima tetrarchia, che rappresenta le figure degli Augusti e dei Cesari stretti in un emblematico abbraccio.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Intervista a Yuri Andrukhovych di Gigi Agnano

Yuri Andruchovych romanziere, poeta, saggista, traduttore, è considerato autore di culto in tutta l’Europa centrale, in particolare in Ucraina dove è nato (nel 1960 a Ivano-Frankivs’k), vive e lavora. Ha partecipato attivamente alle manifestazioni di Piazza Maidan, alla Rivoluzione Arancione e gli sono stati attribuiti numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio per la Pace Erich Maria Remarque (2005), il Premio Hannah Arendt (2014) e il Premio Heine (2022). E’ membro della Deutsche Akademie für  Sprache un Dichtung. L’ultimo romanzo appena pubblicato in Italia da Del Vecchio s’intitola Perversione, che in poche parole definirei così: sorprendente, intelligente, ironico, amaro, raffinato, elegante, colto. Dopo la lettura di Perversione ero così entusiasta che ho scritto a  Viviana, l’amica che me l’ha fatto conoscere, questo messaggio: “Viviana, quest’uomo vince il Nobel per la Letteratura!”. È quel genere di affermazioni che, se non si avverano nessuno se le ricorda, ma che se si avverano guadagno milioni di punti… Quindi grazie a Del Vecchio, a Viviana Calabria e a IoCiSto che mi hanno dato il piacere e l’onore di fare due chiacchiere con un talento purissimo.

Yuri Andrukhovych benvenuto a Napoli alla libreria IoCiSto. Il tuo romanzo Perversione è del ’95. Che effetto ti fa vederlo finalmente tradotto in italiano?

È una gioia immensa anche perché sognavo questo momento da quando ho iniziato a scrivere il romanzo, quasi trent’anni fa. Io, come tutti, sono innamorato dell’Italia, in particolare dal marzo del ’92, quando sono venuto per la prima volta in Occidente e ho visitato Venezia. Ma è stata una visita di una ventina d’ore al massimo, sono arrivato la sera e il giorno dopo verso ora di pranzo sono andato a Ravenna e poi a Firenze.

Mi stai dicendo che hai scritto un romanzo, Perversione, che si svolge interamente a Venezia, in cui la città è descritta nei dettagli, dopo un soggiorno così breve? Io pensavo c’avessi vissuto…

Sì, però quando sono tornato in Ucraina ho fatto ricerche per quasi tre anni, raccoglievo qualsiasi cosa parlasse di Venezia in un’epoca in cui Internet e il computer non erano di nessun aiuto. Ovviamente era una sfida. Volevo essere estremamente preciso perché su Venezia ci sono migliaia di romanzi, con dei topoi universali. E dovevo trovare un compromesso: se volevo portare al limite estremo la fantasia, nel contempo dovevo avere una cura assoluta nella descrizione delle circostanze, del paesaggio, nel citare i nomi dei canali o dei palazzi. Degli errori topografici avrebbero svilito tutto.

Mi viene in mente Il pendolo di Foucault, dove Eco ebbe la cattiva idea di inserire un programma informatico sbagliato, che, come si dice, “non girava”…

Sì, non mi piace, dà un’idea di sciatteria.

Ma allora perché proprio Venezia?

Diciamo che faceva parte del mio programma personale di scrittura, nel senso che da quando ho iniziato a scrivere volevo mandare i miei protagonisti in posti molto attraenti e così Venezia veniva dopo che nel mio secondo romanzo avevo “usato” Mosca (Moscoviade). In effetti è andata così: nel ’92 io ebbi la possibilità di stare tre mesi a Monaco di Baviera e avevo dei nuovi amici che mi proposero di andare con loro in auto in Italia per tre-quattro giorni, dicendomi di approfittarne perché effettivamente non sapevo se sarei potuto tornare in Occidente. Ottenni il visto austriaco e quello italiano (all’epoca non c’era Shengen) e così riuscii a fare la mia breve visita in Italia, il mio “Italienische Reise”. Però, non appena tornai a Monaco, cominciarono a darmi un po’ fastidio tante cose della Germania, l’ordine, la pulizia… Mi ricordo che scrissi una lettera a mia moglie (una lettera normale, non c’erano le mail) dicendole che volevo tornare in Italia tutte le volte che avrei potuto e lei mi rispose – la sua lettera arrivò una decina di giorni dopo – dicendo “scusa, perché non scrivi un romanzo sull’Italia?” Era un’idea brillante perché in questo modo era come se potessi vivere da voi…

E così arriviamo al ’95…

Ho iniziato a scrivere Perversione a dicembre del ’94 e ho scelto le date con molta consapevolezza. Io sono un po’ fissato coi numeri e, più precisamente decisi di iniziare il 13 dicembre, dandomi l’obiettivo di finirlo il 13 marzo ’95, il giorno del mio compleanno. E ce l’ho fatta. Erano tempi piuttosto drammatici per il mio Paese – ma diciamo che lo sono sempre -, ero un autore molto giovane e, dopo i miei primi due romanzi, volevo scrivere qualcosa con più estetica e politica, con un carattere giocoso, fantasioso, ma anche politico.

Ma, a proposito di viaggi… nell’agosto del 1971 con i miei genitori feci un viaggio in Europa dell’Est in treno e andammo in Unione Sovietica e in Ucraina…

Nel 1971? Eri un bambino…

Sì avevo una decina d’anni – sono del ’60 come te, anche se sembro molto più vecchio -. Mio padre era comunista e voleva dare un’occhiata a quello che pensava fosse un paradiso, ma tornò piuttosto avvilito. Ma anche a me sembrò un altro mondo. La domanda ai limiti del poliziesco è: cosa facevi nell’ agosto 71 a Ivano-Frankivsk? Com’ era la vita di un bambino al di là della cortina di ferro?

È una domanda molto interessante perché il mio prossimo libro si svolge esattamente a quell’epoca. Parla di un ragazzo di quell’età, non esattamente ucraino, ma che vive in un ambiente da Paese di socialismo reale, da qualche parte in Europa dell’Est. Ok, nel ’71?

Beh, nell’agosto del ’71… 

Ovviamente ad agosto non c’era la scuola ed ero contento perché odiavo la scuola. Quell’estate passai tutte le vacanze a casa e mi dispiaceva. La mia famiglia con mia nonna viveva in una casa molto modesta e speravamo di avere dallo Stato un nuovo appartamento col bagno, tre stanze anziché due. Aspettavamo tutti di trasferirci in una di quelle palazzine in stile sovietico a tre piani (“Krushchyovka”), che erano tipiche dei primi anni Sessanta, ma che da noi erano nuove. Un’altra cosa di quell’estate è che imparai ad andare in bicicletta e mi regalarono la mia prima bicicletta, una bici per bambini arancione che si chiamava “Piccola Aquila”.

Tu hai partecipato ai 93 giorni di protesta di piazza Maidan, la rivolta (nov 2013 – febbraio 2014) che ha portato alla caduta del leader filorusso Yanukovych. Qual è stato il contributo degli intellettuali al cambio di rotta politico del Paese?

Maidan fu una situazione tragica a lieto fine. Fu un periodo molto positivo perché si affermava una nuova consapevolezza dell’essere cittadino. Maidan ha trasformato l’attivismo delle persone. Dopo Maidan molti poeti, scrittori, filosofi, artisti divennero i veri leader dell’opinione pubblica, formulavano un pensiero inaccettabile per chi era al governo, ma che il governo alla fine dovette accettare. Noi non potevamo più stare con due piedi in una scarpa, essere amichevoli contemporaneamente con la Russia e con l’Europa. Questo gruppo sociale costituito dagli intellettuali, soprattutto da giovani artisti spessissimo donne, divenne molto influente e diede un grosso contributo per avvicinare il Paese all’Europa e all’Occidente. La stessa vittoria di Zelensky del 2019 è il frutto di quanto accaduto a partire dal 2014, la società divenne consapevole di poter cambiare attraverso il voto e la democrazia. Oggettivamente fu un buon periodo, in cui siamo diventati tutti politicamente adulti.

Dalla lettura di Perversione uno dei tratti caratteristici che emerge è l’ironia, il sense of humor, diciamo noi dopo Calvino “la leggerezza”. Oggi, pensando al tuo Paese in guerra, che chiede e ha bisogno di armi, del piombo delle munizioni, dopo Bucha, Mariupol, Bakmuth, Cherson, riesci a scrivere con altrettanta ironia? Quanto incide la guerra sulla tua attività di scrittore, direi sul carattere della tua scrittura?

È una domanda aperta per me, non ho una risposta. Noi siamo nel mezzo di una tragedia, ma io penso che la grande Letteratura sia possibile con un approccio nel contempo umoristico e tragico. In particolare, se parliamo di Letteratura di guerra ci sono esempi come Il buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hašek o molte pagine di Remarque che sono piuttosto divertenti. Io direi che puoi essere serio e allo stesso tempo spiritoso. Il problema sono le proporzioni sulla base anche di quello che provi nel momento in cui scrivi. In ogni caso io penso che in questo momento sia utile per l’Ucraina avere un distacco umoristico, senza il quale non sopravviveremmo. E la gente lo capisce. Noi ora in Ucraina abbiamo tanto humor nero che arriva dai Social, specialmente se si ha notizia della morte di aggressori. È un modo per superare la paura, diventa qualcosa che ti sostiene.

Tornando a Perversione, a me è sembrato un romanzo profondamente europeo. Citi Rilke (Notturno veneziano e San Marco) e mi ha fatto pensare – ma posso senz’altro sbagliarmi – alle avanguardie del Novecento, ovviamente a Thomas Mann, a Brecht e a Kafka e, per finire, ovviamente al Maestro e Margherita, che pure aveva influenze rivenienti dalla letteratura europea. È come se il tuo libro volesse ricordare al lettore occidentale quanto la letteratura ucraina sia parte integrante della cultura europea. È corretto? Sei d’ accordo sul fatto che il tuo romanzo e più in generale la letteratura del tuo Paese siano profondamente legati alla tradizione mitteleuropea? 

Assolutamente sì ed è un legame molto profondo. Anche la letteratura ucraina classica guardava all’Occidente e ai vicini europei anziché agli autori russi proprio per differenziarsene. Gli scrittori ucraini già dal XVIII secolo, benché fossero cittadini dell’impero e ammirassero gli scrittori russi, cercavano una propria autonomia spirituale. La letteratura ucraina moderna comincia a fine Settecento con un lungo poema in sei libri che è una parodia dell’Eneide [Eneida di Ivan Kotlyarevsky N.d.r.] ed è il primo lavoro letterario pubblicato interamente in ucraino, in volgare, in quella lingua di tutti i giorni che l’impero scoraggiava nell’uso letterario. Gli ucraini hanno poi sempre tradotto tanto, soprattutto dal tedesco e dal francese e ovviamente dal polacco, dal ceco.

Anche dal russo?

No, non c’era bisogno perché ognuno era in grado di leggere il russo.

A questo proposito, mi sembra come se in Ucraina ci sia un conflitto più antico del 2014, che è il conflitto tra la lingua russa e quella ucraina. Esagero?

Sì ma non troppo. È un sottile e leggero conflitto. La gente in Ucraina si è abituata da molto tempo a cercare compromessi. Dal ’91 l’ucraino è diventata la lingua ufficiale del Paese, ma allo stesso tempo la maggioranza della popolazione parlava russo. La gente comune in genere parlava e si capiva in entrambi le lingue. Le tensioni però arrivavano quando c’erano le elezioni perché i partiti politici usavano durante le campagne elettorali il problema della lingua per mobilitare l’elettorato. Da febbraio scorso la gente nega di parlare russo, parla ucraino pensando che quella sarà la lingua del Paese del futuro. Io vivo in una città a Occidente che parlava quasi esclusivamente ucraino. Nel 2014 sono arrivati tantissimi profughi dalle zone di guerra che parlavano russo e un altro flusso molto consistente di persone di lingua russa c’è stato a febbraio dello scorso anno. Per cui ora nella mia città per strada senti tante persone che parlano tra di loro in russo; ma la cosa che lascia ben sperare per il futuro è che parlano ai loro bambini in ucraino. Ma io non sono mai stato per una promozione aggressiva della lingua ucraina. Io parlo alle persone sempre nella lingua che preferiscono. La lingua russa per me non è un problema. Io penso che l’Ucraina rimarrà un Paese con due lingue, ma attualmente l’invasione russa ha avuto tra i suoi effetti che l’ucraino sia diventata la prima lingua. Se leggi le statistiche circa l’80% delle persone dice di parlare solo ucraino, ma non è vero, è più un fatto psicologico, una proiezione di come vorrebbero parlare.

Scusa, ma mi sento quasi obbligato a chiedertelo: tu sei un convinto europeista, ma pensi che l’Europa stia facendo abbastanza per darvi una mano?

Se voglio essere moderato, apprezzo molto quello che sta facendo l’Europa, perché è un aiuto che ci consente di resistere, di sopravvivere, di salvare vite. Però io penso anche che non ci siano altre alternative: o gli europei ci danno tutte le armi che hanno e noi combattiamo e vinciamo, o gli europei combattono con noi nel nostro Paese. Il motivo è che questa guerra, al di là delle vite umane, deve finire in fretta perché è molto costosa. E l’unico modo per farla finire in fretta è che ci diate quante più armi è possibile.

Grazie mille Yuri, come fai dire a un tuo personaggio “auguro a te e al tuo Paese solo amore”.

Gigi Agnano