Fabrizio Coscia: “Suicidi imperfetti” (Editoriale Scientifica), di Rita Mele

Ammettere l’imperfezione già nel titolo della propria opera fa pensare immediatamente di star incontrando un autore capace di stare in equilibrio tra la perfezione e l’imperfezione, che, come Sally di Vasco Rossi, sa bene che ‘la vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia’. Nella sua raccolta di racconti di suicidi famosi, prima che imperfetti, Fabrizio Coscia, napoletano, scrittore e critico letterario e teatrale, accoglie e porge al lettore, con ammirazione e rispetto, le vite interrotte di diciannove artisti amati per motivi diversi, come ci anticipa nell’introduzione. Per non rompere l’incantesimo – che sta tutto nell’idea e nell’architettura del libro – con la rivelazione dei loro nomi, più o meno noti al grande pubblico dei lettori, vi anticipiamo solo che l’imperfezione cui allude l’autore sta tutt’una con il dubbio che sarebbe bastato un nonnulla a evitarli, con l’incertezza che si incunea tra la scelta di morire e la casualità, tra la determinazione e la distrazione di chi si è suicidato.

A dire di più, l’imperfezione messa in copertina è stata per noi de Il Randagio il pungolo a leggere questo nuovo libro di Coscia, e il sospetto che si trattasse di uno dei suoi lavori più vicini alla sua fenomenologia dell’esistenza ha trovato conferma in ognuno degli affreschi di vita e di morte di Suicidi imperfetti. Ma anche in quegli altri di cui avrebbe voluto scrivere, come si capisce dalla dedica amichevole a dodici nomi, attraverso i quali, in filigrana, ci sembra di scorgere, i cognomi e le vite interrotte di Vitaliano Trevisan, Sergej Esenin, Luigi Tenco, Sylvia Plath, Lucio Magri, Walter Benjamin, Kurt Cobain, Violeta Parra, Guido Morselli, Stig Dagerman, Primo Levi, Amelia Rosselli. Dunque, suicidi compiuti, falliti, pensati, immaginati, vagheggiati e mai perfezionati, rappresentano comunque per noi che leggiamo e riflettiamo sulle parole di Coscia, storie che ci parlano e che ci fanno pensare a come la vita ma anche la morte succedano e che entrambe siano degli esperimenti di provvisorietà o esperimenti, in quanto tali, provvisori, di felicità e di infelicità.

Di Suicidi imperfetti ci è piaciuta proprio la cura con cui Fabrizio Coscia affresca il suo polittico letterario di profili esistenziali nei quali raffigura minuziosamente dettagli esistenziali che concorrono a comporre l’immagine finale in cui ci fa vedere quando e come quegli artisti divengono autori della propria morte.

Quella di Fabrizio Coscia è una narrazione a pezzi di storie di vita spezzate, è una narrazione per storie in cui l’autore prova emozioni e condivide il suo sentire. Ci fa stare con lui quando, leggendo, avvertiamo che insieme a lui stiamo provando a sperimentare di reggere il peso di quei suicidi narrati. Il modo in cui lo fa e ce lo fa vivere è quello dell’artigiano che tornisce ogni singola vita esitata poi nell’imperfezione suicidaria.

Più volte e in più riprese nel corso della lettura di Suicidi imperfetti ci è tornato alla mente il monito poetico di Pablo Neruda ‘E ricorda. Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati. Ogni giorno.’, quasi possa funzionare come fattore di protezione per dirottare verso la trasformazione vitale davanti al bivio vita-morte.

Gli artisti che si sono dati la morte e che vivono per noi lettori nel libro di Coscia ci interrogano su quale avrebbe potuto essere l’elemento cruciale, accidentale, casuale, apparentemente insignificante che avrebbe potuto dare scacco alla morte, come nel classico del cinema mondiale, Il settimo sigillo di Ingmar Bergman del 1957, dove è proprio la Morte che acconsente alla sfida a scacchi lanciatagli da Antonius Block, il cavaliere crociato che chiede e ottiene di poter avere ancora del tempo da vivere, foss’anche che per continuare la sua angosciosa ricerca di Dio.

Nei suicidi imperfetti, scolpiti dalle parole di Fabrizio Coscia nei minimi dettagli della vita quotidiana dei diciannove protagonisti, la domanda che riecheggia in noi lettori è ‘che cosa non li ha salvati?’ e non solo ‘perché si sono dati la morte?’. Senza anticiparne la loro nota identità, lasciandola scoprire tra le pagine del libro, quello che abbiamo trovato capitolo dopo capitolo è un catalogo di motivi per suicidarsi: banali coincidenze, assenze, malinconie, morte intesa come unica verità sperimentabile, ombra incombente del fallimento sul gioco della vita, bellezza ineffabile dell’Amore e il coraggio di uccidersi, istinto di autodistruzione e avidità di non essere, dilemma libertà-infelicità, morti eroiche di coppia, amori incombenti e mimetici, futuri senza speranza, suicidio senza voglia di morire, suicidio come ultimo viaggio, vita come ultimo atto di fiducia prima del buio della morte, mute grida d’aiuto che guardano la morte dritta negli occhi, poetici naufragi e amori spodestati, disvelamenti apocalittici, sopravvivenza all’amaro assenzio e voglia di non essere.

La varietà dei motivi ci spiazza, ci fa sospettare che in ognuno dei protagonisti si celasse un assassino interiore che non aspettava altro che il momento buono per il delitto perfetto, premeditato. Cosa voleva l’assassino interiore da ciascuno di loro: da tutti la stessa cosa o per tutti una cosa diversa?

Perché si commette il suicidio e perché no? Perché non l’hanno fatto gli altri personaggi delle storie familiari dei suicidi descritti da Coscia? È dunque il suicidio un problema che riguarda la vita e la morte insieme. A noi sembra che l’autore, da una parte faccia luce sugli aspetti ombra dei diciannove suicidi e allo stesso tempo ci fa fare delle ipotesi e ci fa dubitare, intravedere, immaginare, intuire, interrogarci.

In più momenti della lettura ci è sembrato di vedere l’autore che, nell’atto di scrivere, si disponeva nella posizione di apertura alle ragionevoli spiegazioni del gesto finale, come se fosse quello il vertice di osservazione perfetto senza peraltro mai giungere a liquidarlo, etichettandolo con la follia.

L’autore, nei racconti, sembra muoversi verso la morte con i suicidi quando ne mette in chiaro l’ombra per tentare di restituirceli audacemente perfetti per sempre, apertamente e senza angoscia.

Lo abbiamo sentito partecipe a un mistero, in modo particolare a quello della mente e del cuore dei personaggi che ci presenta. Racconta senza giudicare e senza giustificare il suicidio.

La preoccupazione che si avverte seguendolo negli specchi delle vite descritte ci appare essere ciò che di vivo o di morto c’era già nell’esistenza di quelle persone e di quelli a loro vicini. Sembra piuttosto invitarci a indagare su cosa abbia ammalato l’anima di quelle persone, ad ascoltare piuttosto la voce, più volte inascoltata nel corso delle vite, di ciò che in esse si stava ammalando ancor prima che la morte prendesse la forma del suicidio. 

La riscrittura di quelle vite a cui si è dedicato Fabrizio Coscia, a noi lettori de Il Randagio arriva come il tentativo umano postumo, seppure imperfetto, di innescare la relazione, forse quella mancante e mancata in vita, mediante l’adesione profonda della sua personalità e delle nostre a quella dei personaggi che fa rivivere in Suicidi imperfetti. Senza ansia di redenzione, o di fallimento nell’aiuto e nella prevenzione del gesto suicidario. Piuttosto ricordandoci o lasciandoci scoprire altro non è se non quell’esperimento nel corso del quale, procedendo per prove ed errori, ci è solo dato di tendere alla perfezione. E che il corpo che ci fa compagnia e che sta nella relazione con l’altro può essere distrutto da una mera fantasia, da una mancata elaborazione dell’esperienza, anche la più banale, la più approssimativa, la più imperfetta.

Coscia, con la sua scrittura lieve e appassionata, ci coinvolge guidandoci in un viaggio letterario attraverso vite affascinanti e complesse, cattura la nostra attenzione e ci accompagna in una caleidoscopica riflessione sulla condizione umana.

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare