Intervista a Nadia Terranova per “Quello che so di te” (Guanda, 2025) – Capitolo Zero: Ep.7 del videopodcast a cura di Loredana Cefalo

Ep.7 Nadia Terranova, “Quello che so di te” (Guanda, 2025).

 Quello che so di te, di Nadia Terranova, edito da Guanda, è uno dei più bei libri che ho letto nel 2025. Ho avuto l’immenso piacere di conoscere la scrittrice, già pluripremiata con diversi riconoscimenti per i suoi lavori e di ritrovarla come docente per un corso di scrittura. Questo rapporto sottile, creatosi sulla base delle parole, ci ha portate qui, a questa chiacchierata, ultima intervista di Capitolo Zero de Il Randagio Rivista Letteraria, per quest’anno che si chiude.

Finalista allo Strega, il libro affronta la tematica femminile da tanti punti di vista: storico, fattuale, critico.
È il racconto della donna imperfetta, stanca, avvinta da una società che non le dà spazio per esprimere quello che vuole e circondata da una realtà che a volte le è da sostegno e talaltre la giudica e cerca di nascondere le sue imperfezioni e debolezze, in virtù della salvaguardia di un’idea di donna resiliente ad ogni evento, che non ha la facoltà di arrendersi, una super-donna che non si lamenta mai, capace di resistere a qualunque cosa la investa durante un’intera esistenza.

È l’emblema dei ciò che il patriarcato ha reso le donne, ieri e oggi.

Il romanzo, autobiografico e di ricostruzione storica della vita e in particolare della “pazzia” della bisnonna dell’autrice, nasce con un’esigenza ben precisa: la necessità per chi diventa madre di comprendere quel nuovo stato di cose, inaspettato, caotico, dolorante, terrorizzante e dolcemente avvolgente. 
Uno stato di cose che porta il peso enorme della responsabilità personale, del non potersi ammalare, del non poter impazzire per il bene dei figli, e il peso sociale delle continue etichette affibbiate alle madri, alle donne, che fanno loro da recinto, un recinto a volte talmente tanto alto da chiuderle in uno spazio soffocante. 

Finiamo schiacciate da domande create apposta per paralizzarci, vicoli ciechi che ci portano dritte al collasso performativo. Lasciateci libere di non farcela, né come madri né come artiste. Lasciateci sperimentare il fallimento, lasciate che ci concentriamo sull’unica cosa che importa: non cadere, o cadere senza uccidere chi amiamo. Lasciateci ovunque fallire in pace.”

La trama si divide e si intreccia in due filoni distinti e complementari: la narratrice, appena divenuta madre, conoscendo per sentito dire la storia  della sua bisnonna, internata per un periodo in manicomio all’inizio del novecento, avverte da un lato il timore di trasmettere geneticamente la follia a sua figlia e dall’altro la paura di impazzire, venendo meno alla sua presenza e al suo ruolo genitoriale.  Spinta da un ricordo, un sogno ricorrente che le fa da propulsore, decide di approfondire quella pazzia e si addentra in un complicato lavoro di ricerca fra registri, documenti, voci che confermano, sconfessano, raccontano e nascondono.

Le caratteristiche dello stile della Terranova si ripetono amabilmente: la magia, i sogni premonitori, il dialogo aperto con l’aldilà, sono un filo conduttore del romanzo, poiché fondanti di un rapporto con la vita passata che si propaga inesorabile nell’esistenza attuale dell’autrice. Come pure lo sfondo siciliano, il racconto delle tipicità delle persone che nascono, crescono e vivono nella terra d’origine della Terranova: “I siciliani non litigano, si offendono”. Non litigano per mantenere il silenzio intorno a ciò che accade. Un silenzio che copre tutto un mondo, come una nube grigia. Un silenzio che si ritrova anche nel personaggio della Mitologia Familiare: un personaggio corale fatto di voci che dicono senza dire, parlano senza parlare, di eventi celati, rimescolati, rivisitati e corretti per proteggere, per riattaccare ancora una volta le etichette sulla realtà delle donne. Una realtà che non lascia spazio alla libertà totale, considerata da sempre, nel femminile, un segno evidente di stranezza, di eccesso, di follia.

Quello che so di te è uno di quei romanzi da tenere nel cassetto e ogni tanto rileggere con cura, con una prospettiva nuova, cogliendo i suoi dettagli e le sue straordinarie finezze, con attenzione, come fosse un manuale per non impazzire.

Loredana Cefalo*

* Mi chiamo Loredana Cefalo, classe 1975, vivo a Cagliari, ma sono Irpina di origine e per metà ho il sangue della Costiera Amalfitana. Adoro le colline, il profumo della pioggia, l’odore di castagne e camino, che mi porto dentro come parte del mio DNA.

Ho una grande curiosità per la tecnologia, infatti da cinque anni tengo una rubrica di chiacchiere a tema vario su Instagram, in cui intervisto persone che hanno voglia di raccontare la loro storia. 

Sono stata una professionista della comunicazione, dell’organizzazione di eventi e della produzione televisiva, settori in  cui ho un solido background. Mi sono laureata in Giurisprudenza e ho un Master in Pubbliche Relazioni.

Ho accumulato una lunga esperienza lavorando per aziende come Radio Capital, FOX International Channels, ANSA e Gruppo IP, ricoprendo ruoli significativi nel settore della comunicazione e dei media, fino a quando non ho scelto di fare la madre a tempo pieno dei miei tre figli Edoardo, Elisabetta e Margaret.

In un passato recente ho anche giocato a fare la  foodblogger e content creator, con un blog personale dedicato alla cucina, una delle mie grandi passioni, insieme all’arte pittorica e la musica rock.

L’amore per la scrittura, nato in adolescenza, mi ha portata a scrivere il mio primo romanzo, “Il mio spicchio di cielo” pubblicato il 16 gennaio 2025 da Bookabook Editore e distribuito da Messaggerie Libri. Il romanzo è frutto di un momento di trasformazione e di crescita. La storia è presa da una esperienza reale vissuta indirettamente e ricollocata nel passato per fini narrativi e per gusto personale. Ho abitato in molti luoghi e visitato con passione l’Europa e le ambientazioni del romanzo sono frutto dell’amore che provo nei confronti delle città in cui è collocato.

Intervista a Nadia Terranova per “Quello che so di te” (Guanda, 2025), di Gabriele Torchetti

Nadia Terranova, messinese, è una delle voci più interessanti della narrativa italiana contemporanea. Già finalista del Premio Strega nel 2019 con “Addio fantasmi”, il suo ultimo romanzo “Quello che so di te”, edito da Guanda, in libreria dallo scorso gennaio, sta ricevendo ampi consensi di pubblico e di critica e ha già iniziato, proposto da Salvatore Silvano Nigro, il lungo percorso che speriamo lo porti alla serata finale del nostro più prestigioso premio letterario. Nadia Terranova, che ringraziamo per la disponibilità, è stata intervistata per gli amici del Randagio dal nostro Gabriele Torchetti.

Ciao Nadia e benvenuta a Il Randagio, “Quello che so di te” sviluppa tra i tanti temi il concetto bellissimo di mitologia familiare che ci riconduce a quasi cent’anni fa, quando una donna minuta e silenziosa varca la soglia di un manicomio, “un luogo di cui avrebbe parlato con un distacco sempre più irreale fino a non nominarlo più, come accade ai ricordi che abbiamo sciupato”. Scrivi che la chiami Venera, con l’accento sulla prima sillaba e che la incontri spesso in sogno, puoi dirci qualcosa in più su questa donna? 

Tutto quello che sapevo di Venera l’ho scritto. È difficile per me dire qualcosa di più. Posso dire però qualcosa di meno. Posso dire che quando ho cominciato a scrivere di lei, quindi nelle prime pagine del libro, lei era davvero soltanto una donna scontornata, ma la cui presenza era molto forte nella mia vita, molto insistente, quasi infestante. Non capivo perché. Poi ho capito alla fine che voleva soltanto essere raccontata.

Abbiamo una passione in comune, quella per i tarocchi, presenti anche in Trema la notte. L’archetipo della luna è probabilmente uno dei più difficili da interpretare, perché nei suoi simbolismi racchiude una molteplicità di chiavi di lettura che ho incontrato nel tuo romanzo. Leggendo il tuo libro ho pensato al principio creativo femminile: la maternità, all’emotività nelle sue molteplici sfumature. La luna però rappresenta anche l’inconscio, la notte (dunque quello che non si vede a occhio nudo) con i suoi segreti. Tua figlia si chiama Luna ed è molto presente tra le pagine di questo romanzo, così come sono presenti tutti i richiami dell’archetipo, anche quelli più nebulosi nella storia di Venera (tra l’altro nata sotto il segno del Cancro), di tua madre e di tutti i personaggi. E’ stata una mia sensazione o in qualche modo ti ha ispirato?

La luna per me è proprio il simbolo dell’energia femminile che sta per uscire, quindi è anche una gestazione continua. C’è del tormento, no? C’è anche un po’ di fatica nell’attesa che questa creatura esca dalle acque, che varchi la soglia del patriarcato rappresentato da questi cani che ululano, dalle torri. Però poi è l’attimo prima dell’esplosione dell’energia femminile. E quindi sì, è proprio la luna la Carta di tutto il libro. Per me è complicata perché il cancro è un segno complicato e però è stato molto interessante per me indagarlo.

Una mitologia familiare che racchiude una parola chiave, la memoria. C’è una memoria storica contenuta negli atti scritti e una memoria emotiva composta da ricordi, frammenti, sentimenti. Scrivi quello che sai di lei attraverso le poche notizie pervenute e dove non arrivi con le carte, con i documenti, intervieni con la tua scrittura. Hai avuto qualche difficoltà nel riempire i vuoti di questa storia?

Sai, le difficoltà ci sono quando stai facendo una ricostruzione storica. Ma se scrivi un romanzo, quella che è difficoltà è possibilità, perché ti apre un vuoto, una lacuna. Dove c’è una lacuna entri con l’invenzione, senza invenzione non c’è romanzo.

“Il verde degli alberi incombe dalla finestra, mia figlia mi guarda ma non mi vede. In quel momento, dentro quel preciso nulla, nell’isolamento dell’ospedale in cui ho appena partorito, capisco che non potrò mai più permettermi di fare. Impazzire.” Mi ha molto colpito questo incipit, la paura di un’ereditarietà oscura. Nel romanzo sviluppi lo stigma della follia. La scrittura ha plasmato in qualche modo i tuoi timori?

La scrittura ha dato una forma e quindi ciò che prima era una paura indefinita è diventata una paura scritta e come tutte le volte in cui si dà il nome a qualcosa, poi ho avuto meno paura.

La maternità scivola nella narrazione attraverso tantissime declinazioni, tu sei madre di Luna, la tragedia di Venera ha a che fare con una mancata maternità, ci sei tu figlia nel rapporto con tua madre. La cura e l’abbraccio riservato a Venera è commovente. Ti sei sentita un po’ sua madre in queste pagine?

È bello quello che dici. Sì, sono stata un po’ la madre di Venera, la madre della mia bisnonna. Che meraviglia!

I padri sono quasi totalmente estranei nei dibattiti, ma anche nella scrittura, che ruolo hanno gli uomini nella tua mitologia familiare?

In realtà, in questo libro c’è spazio per i padri; c’è stato spazio per me per capirli per raccontarli. Senza la differenza anche dei ruoli non ci sarebbero state le storie delle donne quindi, ecco, io ho abbracciato anche loro. 

Tra un capitolo e un altro, durante la lettura ho ascoltato “Terra ca nun senti” l’ultimo disco live di Carmen Consoli. Canzoni che raccontano la Sicilia, con note, profumi, paesaggi, memorie. Una terra meravigliosa ma nello stesso abbandonata e abbruttita dall’incuria politica e sociale. La Sicilia è sempre presente nelle tue narrazioni, che ruolo ha nella tua scrittura? E più in generale nella tua vita?

Amo Carmen Consoli, amo la musica siciliana, amo “Terra ca nun senti”. Sono stata a sentirla, tra l’altro, dal vivo a Pompei, pensa, all’anfiteatro. E in quella sera, eccezionalmente, c’erano due ospiti speciali: il fratello di Peppino Impastato e Donatella Finocchiaro che leggeva proprio testi di Rosa Balistreri. E’ stato splendido! Sì, la Sicilia è parte del mio immaginario e quindi della mia scrittura.

Ultima domanda, di consueto chiediamo un consiglio di lettura. Questa volta voglio farti una domanda un po’ più mirata, hai scritto le prefazioni delle ripubblicazioni dei libri di Alba de Céspedes (per Cliquot), perché dovremmo leggere i suoi libri e da quale ci consiglieresti d’iniziare?

Per quello che riguarda Alba de Céspedes, sì, ho scritto appunto non soltanto le prefazioni di Cliquot, ma anche quella per Mondadori di “Quaderno proibito”. Consiglio di cominciare da “Quaderno Proibito” e poi andare in tutte le direzioni. Secondo me Alba De Céspedes è la scrittrice del ‘900 più contemporanea che abbiamo. La più mimetica, che più è riuscita a riprodurre, a restituirci la voce delle donne, delle casalinghe, delle impiegate, delle intellettuali. È stata straordinaria nell’indossare le voci delle altre. Ecco perché leggerla

Gabriele Torchetti

Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.