Antonio Corvino: “L’altra faccia di Partenope. In cammino tra Napoli e altre peregrinazioni” (Rubbettino), di Salvatore Sacco

Già solo il titolo di questo volume attira inevitabilmente l’interesse del lettore: infatti non c’è città al pari di Napoli che accentri attenzione da parte di chi, italiano o straniero, ha avuto in qualche modo occasione di visitarla o di avere a che fare con i suoi abitanti:  come in un nucleo magnetico con opposti poli-  negativo e positivo- si generano sensazioni, pareri, giudizi, contrastanti spesso anche in modo radicale.

Il testo intriga già dal suo titolo che fa riferimento alla  figura mitologica di Partenope, sirena, vergine, incantatrice, suicida, dalle cui polveri sarebbe sorta la città originaria su cui si insediò  la Neapolis (la città nuova) così chiamata dai greci e tramandata alla geografia nazionale.

L’autore parte dunque dalla enigmaticità delle origini per fare immergere il lettore nelle enigmaticità attuali che Napoli ripropone costantemente e che, in un turbinio di colori, suoni, odori, sensazioni ne rendono sempre misteriosa ed affabulante la percezione soggettiva.

Quale strumento migliore per sprofondarsi nella complessità assoluta di questa città e della sua gente, della testimonianza diretta – quasi una cronaca- di un cammino, o meglio di una peregrinazione riportata da un autore eclettico (scrittore, giornalista , economista): una registrazione impulsiva, diretta, collegata con le sensazioni e con le impressioni più immediate  e spontanee, spesso non inficiate dalle fantasime del “politicamente corretto”. 

L’immersione avviene di colpo, senza preparativi che in effetti stonerebbero con il fascino conturbante ma, per molti versi, anche  asfissiante della città e del suo hinterland. Inizia così un tour vorticoso: da  San  Giovanni a Teduccio a  Pietrarsa, alla reggia di Portici, Ercolano, Oplontis, Afragola, le splendide ville  patrizie; ancora il colle dei Camaldoli, il lago di Averno, l’antro della Sibilla, per poi rituffarsi nel cuore di Napoli, il Vomero, S.Maria La Nova e S.Anna dei Lombardi,  San Lorenzo e il magma primordiale; finalmente il rione Sanità, la certosa San Martino, poi Mergellina e Piedigrotta, Posillipo. Ed infine l’omaggio al gigante semibuono e semidormiente: il Vesuvio ed i fiabeschi Cognoli, con l’irrinunciabile atterraggio sul cratere fatato.

La narrazione procede incalzante tra racconti, descrizioni, scoperte stranianti e coinvolgenti, talvolta al limite del sogno. E’ un incedere che appassiona anche perché le descrizioni e le relative connotazioni sono  dirette, talvolta anche folgoranti; non è un caso che sono formulate da chi ha un vissuto idoneo per catturare le matrici più iconiche della realtà che osserva,  nonostante l’estrema complessità delle stesse: l’autore è, infatti, un meridionale doc proveniente da un’altra capitale “intricata” del nostro Sud – la Bari della Puglia sedicente avanguardia del Mezzogiorno-  ma buon conoscitore di Napoli, dove si è recato in gioventù per completare gli studi specialistici, in quella città che in quei tempi  (l’ Università di Portici, i grandi Manlio Rossi Doria, Augusto Graziani etc.) rappresentava la fata morgana del rilancio di queste disgraziate regioni. E’ un dettaglio non irrilevante che, appropriatamente, l’autore riporta con sintetici cenni nel testo .

E le note del cronista di oggi rappresentano una felice fusione fra la visione entusiastica e quasi ingenua del giovane che giunge a Partenope col treno e viene affascinato dalla irripetibile originalità (nel bene e nel male) di questo grumo di civiltà, con la matura consapevolezza scaturente da un percorso professionale che dell’ analisi critica fa il suo nucleo centrale. Non solo, ma, proprio questa saggezza porta l’autore a farsi supportare da sostegni esterni importantissimi, dal grande geografo umanista all’ acuto socio economista, ma con l’orecchio sempre teso al contributo che può dare alla sua ansia di comprensione anche il tassista o la guida locale improvvisata. Il tutto non trascurando mai di innescare gli opportuni  circuiti di interattività con il tessuto più interessante del contesto locale ed in particolare coi giovani.

Ma si badi bene: l’intensità del testo non si esaurisce solo nella già di per sé  coinvolgente descrizione dei luoghi e delle storie, sempre vivida ed arricchita dagli essenziali ed arguti approfondimenti storico-culturali, ma si completa con alcune osservazioni, mai giudizi, sulle più rilevanti dinamiche sociali – e , quindi, sulle loro proiezioni qualitative e temporali – della città. 

Ad esempio  (come rimarcato nella interessante postfazione al testo)  l’autore sembra assecondare l’idea  che  Napoli, pur con tutti i suoi limiti, possa ancora rappresentare in qualche modo una guida verso un futuro urbano socialmente inclusivo ed emancipante, sfidando i rischi insiti nell’uniformazione imposta dalla globalizzazione, superando i limiti delle vetuste tradizioni para-rurali che comportano forme di vessazione  e solitudine, spesso camuffate sotto il sipario di una esuberante estroversione.  

Tracce di questa vocazione -e delle sottostanti eclatanti contradizioni- possono essere individuate, ad esempio, nell’evidenza posta dall’autore sulla “perfetta simbiosi che tiene insieme Napoli, al riparo da ogni remora o cruccio”, il tutto proiettando al lettore le immagini delle  “verandine e dei balconcini realizzati estroflettendo lo spazio casalingo dei bassi lungo i vicoli o, ancora, le nicchie ed i tempietti votivi che, sugli angoli delle vie o sulle facciate dei palazzi, fanno bella mostra di sé “in omaggio a Dio, alla Madonna ed ai santi; al proposito,  acutamente si fa osservare come a Napoli i santi siano chiamati per nome e siano trattati come gente di famiglia.  Ma forse non si tratta solo di un vezzo popolare, laddove si consideri che i napoletani vivono alle falde del Vesuvio, una presenza  in qualche modo trascendente che veglia su di loro: ebbene tanto l’uno (il Vesuvio) che  gli altri  (i napoletani abituati a camminare sui Campi Flegrei) finiscono col porsi in una situazione di relativa superiorità, o solo disinteresse,  rispetto alle bagattelle ed alle quisquilie quotidiane. 

Si tratta di semplice “filosofia del tirare a campare” o di  una maschera da indossare per essere protagonisti sul palcoscenico della vita? Questi ed altri interrogativi superficiali o profondi, ma sempre interessantissimi, vengono gettati lì, fra le tante frizzanti descrizioni dei panorami o dei monumenti, per una eventuale riflessione del lettore. E’ forse questo intreccio di semplicità e complessità che, assieme agli scorci paesaggistici irripetibili, ha affascinato e continua ad affascinare dal semplice visitatore ai grandi frequentatori della città, primo fra tutti il grandissimo poeta Giacomo Leopardi.

Così come leggeri, ma intriganti appaiono i fugaci ma lungimiranti confronti con altre realtà cittadine di cui l’autore ha approfondita conoscenza, non solo altre città meridionali quali Bari o Palermo, ma anche Roma e Milano a livello nazionale ed, a livello internazionale Bruxelles, Londra, Lodz, Philadelphia. 

Una lettura piacevole per l’aspetto descrittivo e narrativo scintillante e brioso, ma al tempo stesso per le profonde riflessioni che propone sempre in modo pacato e rilassato .

La sensazione, dopo la lettura, è di aver acquisito un importante frammento di conoscenza che riguarda una delle città più iconografica del nostro Paese, una città come Napoli, su cui probabilmente tutti noi abbiamo, forse anche solo  inconsciamente, prefigurato qualche  giudizio positivo o negativo e comunque , troppo spesso condizionato da preconcetti , forse, mai adeguatamente vagliati!

Salvatore Sacco 

Già Direttore della Fondazione Curella di Palermo e docente presso la Facoltà di Economia dell’Università di Palermo

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Venerdì 31 gennaio alle 18, il Randagio incontra Antonio Corvino e il suo “L’altra faccia di Partenope” alla libreria Raffaello di Napoli. Dialogano con l’autore Valeria Iacobacci e Francesco Saverio Coppola.

Letizia Vicidomini, “Non si uccide il passato” (Mursia Giungla Gialla), di Annamaria Petolicchio

Letizia Vicidomini consegna ai lettori un noir che definirei filosofico, che travalica i confini del genere, in cui l’indagine criminale diventa metafora di un viaggio esistenziale attraverso i segmenti del tempo.

Il romanzo ruota intorno ad un concetto centrale, mirabilmente riassunto in una delle citazioni più emblematiche: “Il futuro chiama, il presente corre, ma il passato non può morire” (p.19). Questa frase condensa l’essenza del libro, dove la memoria non è un archivio statico, ma un organismo vivo che “emerge dal terreno, spunta alla maniera di scheletri che spaccano lapidi per tornare in superficie” (p.38).

La riflessione sulla memoria diventa un vero e proprio percorso conoscitivo. Come l’autrice stessa scrive, la memoria è “un magma composito di materia reale e autoprodotta, immagini, odori, sapori, emozioni e dolori” (p.42), un universo liquido dove realtà e percezione si intersecano continuamente.

Il protagonista, l’ex commissario Andrea Martino, incarna questa complessa relazione con il passato. Temporaneamente menomato in seguito ad un intervento per distacco di retina, egli rappresenta metaforicamente un uomo costretto a rallentare, a guardare dentro se stesso. La sua condizione di “guerriero a riposo” (p.36) diventa l’occasione per esplorare strati profondi della memoria familiare.

L’intreccio investigativo si arricchisce così di una dimensione quasi esistenziale. Le indagini sull’omicidio di un usuraio pedofilo si intersecano con la riscoperta di una storia familiare sepolta, conducendo il lettore in un territorio dove “una vita in cambio di una vita” solleva domande cruciali: “È giustizia o vendetta?” (p.246). Anche in questa sua opera la Vicidomini con garbo e sensibilità ci porta a riflettere sulle tante barbarie che si nascondono tra le mura domestiche, sui soprusi e le violenze troppo spesso taciute.

Accanto al protagonista Andrea Martino, ruotano figure che donano profondità e calore umano al romanzo. Luisa, sua moglie, emerge come un personaggio cruciale: non più solo comprimaria, in questo romanzo diventa una vera e propria co-protagonista. Il suo supporto va oltre l’affetto coniugale, configurandosi come un sostegno intellettuale e emotivo fondamentale per Andrea. È lei che lo accompagna nella ricostruzione dei frammenti del passato familiare, diventando quasi un’investigatrice sentimentale accanto al marito.

I nipoti Chiara e Carmine rappresentano la vitalità e la leggerezza. Chiara, descritta come un “tornado” di energia, con i suoi “saltelli, piroette, abbracci e parole a raffica” (p.159), contrasta con il fratello Carmine, già più riflessivo. Questi piccoli personaggi introducono nel romanzo un elemento di pura vitalità, interrompendo la tensione investigativa con la loro spontaneità infantile.

Non meno importante è Cleo, la gatta di casa, che l’autrice tratteggia con ironia: “silenziosa come le piante di Andrea ma decisamente più affettuosa”. Quasi un ulteriore membro della famiglia, Cleo diventa metafora di una presenza discreta ma partecipe. 

Sarebbe lungo soffermarsi su tutti i personaggi che animano le pagine del romanzo, tratteggiati sapientemente dalla penna di Letizia Vicidomini, ma sui fratelli Zilli non posso sorvolare, perché Tommaso e Carmen Zilli rappresentano un tassello importante nella ricostruzione storica e familiare del commissario Martino, diventano gli strumenti narrativi attraverso cui l’autrice sviluppa uno dei filoni più profondi del romanzo: la riabilitazione della memoria.

Originari di Trieste, Tommaso e Carmen sono portatori di una memoria storica che va oltre i confini familiari. Il loro gesto di inviare i diari della nonna Melina al commissario Martino non è solo un atto di giustizia privata, ma diventa un vero e proprio atto di ricostruzione storica. Attraverso questi documenti, permettono ad Andrea di ricomporre i frammenti di una storia familiare frammentata, rivelando dettagli sepolti che gettano nuova luce sul passato del nonno.

La loro scelta di consegnare questi documenti rappresenta un atto di coraggio civile: non si limitano a conservare una memoria personale, ma scelgono di condividerla, permettendo che la verità emerga. Sono loro a fornire le chiavi per scardinare le narrazioni ufficiali, offrendo al commissario Martino l’opportunità di ricostruire non solo la storia del proprio nonno, ma anche un pezzo di storia collettiva.

Trieste, città di confine, di stratificazioni storiche complesse, diventa attraverso Tommaso e Carmen un ulteriore personaggio del romanzo. La loro provenienza non è casuale: rappresentano quella parte d’Italia che ha vissuto sulla propria pelle le complessità dei confini, delle appartenenze multiple, delle storie che spesso restano nascoste tra le pieghe degli archivi ufficiali.

Il loro intervento nel romanzo sottolinea un tema centrale: la memoria non è un dato statico, ma un processo dinamico di ricostruzione e comprensione. Attraverso Tommaso e Carmen, l’autrice sembra voler dire che la verità può emergere solo quando qualcuno è disposto a cercarla, a mettersi in gioco, a consegnare alle generazioni successive i frammenti di storie dimenticate

Letizia Vicidomini utilizza una scrittura sensoriale straordinaria. I suoi personaggi non vivono solo, ma respirano, toccano, sentono. L’amore stesso viene descritto come un linguaggio multisfaccettato che “suona con le note, pizzica il naso, risveglia gli odori, disegna sulla pelle” (p.248).

Particolarmente toccante è la dimensione del legame familiare, sempre presente e viva nelle opere della Vicidomini, sintetizzata nella frase “Ogni graffio risparmiato alla sua giovane anima era prezioso per chi lo aveva messo al mondo” (p.30), che rivela una profonda sensibilità verso la genitorialità come atto di protezione e cura.

Il romanzo si nutre anche di una napoletanità autentica, che rivive nelle pagine del romanzo, tra i vicoli di Materdei e la Pigna Secca, tra la villa Floridiana e Vico Purgatorio ad Arco, citando Pino Daniele, Erri De Luca e il suo modo di intendere il linguaggio: “Da noi non si pronuncia l’ultima vocale, le parole restano sospese. Prima e dopo sono primm’ e dopp’, hanno più carne e ossa del presente, che è solamente: mo’” (p.183). “. Una città che diventa essa stessa personaggio, sfondo vivo e pulsante delle vicende.

E se dopo la lettura di “Dammi la vita” la visita al Conservatorio di San Pietro a Maiella è stata per me tappa obbligata, il programma della mia prossima tappa napoletana prevederà sicuramente il “Teatro Instabile di Napoli, piccolissimo e suggestivo” (p.74) e poggerò anch’io la mano sul naso a becco della “statua di Pulcinella, dono di Lello Esposito alla sua città” (p.74), sperando di attirarmi la buona sorte! E ritornerò volentieri anche a Trieste, “punto d’incontro fra due mondi, terra di confine” (p.255).

Un monito attraversa il libro: “Mi è diventato sempre più chiaro che se siamo al mondo dobbiamo provare a farne veramente parte, senza restare sullo sfondo. Sentirsi vittime non serve a niente. È solo uno spreco” (p.125). Un invito all’azione, alla consapevolezza, a trasformare anche i frammenti più dolorosi dell’esistenza in opportunità di crescita.

Non si uccide il passato” è molto più di un noir: è un viaggio dentro la memoria, le relazioni familiari, i meccanismi della giustizia e del perdono. Un’opera che scava nelle pieghe dell’animo umano con la delicatezza di un bisturi e la profondità di una riflessione filosofica.

Annamaria Petolicchio

Annamaria Petolicchio, è docente universitaria e presidente del Settembre Culturale di Agropoli, nonché tra i protagonisti del reality RAI “Il Collegio”.

Antonio Corvino: “L’altra faccia di Partenope. In cammino tra Napoli e altre peregrinazioni” (Rubbettino), di Gigi Agnano

Antonio Corvino, per me, prima ancora che un professore, un economista, un saggista, un meridionalista, un romanziere e un poeta, è uno splendido compagno di viaggio. Abbiamo attraversato insieme a piedi molti luoghi degli Appennini, tra Campania, Basilicata e Puglia. Quelli che per lui erano poco più che passeggiate, per me erano cammini faticosi, che mi lasciavano vesciche enormi e dolorose sui piedi. In questi percorsi abbiamo condiviso esperienze indimenticabili, tra i panorami mozzafiato e le difficoltà del Cammino degli Anarchici, dei Briganti, o della lunga Benevento-Matera. Mentre io arrancavo con la vista annebbiata dalla fatica, pensando al letto e alla cena — alla pasta e fagioli e all’aglianico — lui, con la sua insaziabile curiosità, si addentrava in ogni chiesa o cappella che incontravamo lungo il sentiero. Non si limitava a un’occhiata veloce: si fermava estasiato davanti a ogni pala d’altare, a ogni statua, come se osservasse un capolavoro unico e irripetibile.

Durante queste camminate, Antonio mi indicava quelli che per me erano genericamente “alberi” o “piante,” chiamandoli con la competenza di un botanico o, più semplicemente, di chi torna sempre, dopo tanto girovagare, alla sua campagna in Salento. Questo suo modo di immergersi nel viaggio “con l’insaziabile avidità dello spirito che lo spingeva a conoscere, scoprire, sperimentare” – dice quando parla di Ulisse -, di cogliere la bellezza di ogni pietra, di ogni filo d’erba e di ogni opera, umana o del Padreterno, è lo stesso che emerge nelle pagine del suo ultimo libro.

In “L’altra faccia di Partenope”, Antonio Corvino offre al lettore un’acuta e affascinante  indagine su Napoli, tracciando un percorso sociologico e culturale che si evolve pagina dopo pagina in un’esperienza dello spirito. Con un’attenzione meticolosa ai dettagli, l’autore scava sotto la superficie della città per rivelare un mondo nascosto, fatto di storia, mito e cultura popolare. Corvino non si accontenta di raccontare una Napoli patinata, da cartolina, ma, lontano dagli stereotipi, si addentra tra i suoi strati più segreti e intimi, portando alla luce una bellezza ombrosa che ama nascondersi. “È da quando ero studente che mi appassiona l’altra faccia di Partenope,” spiega, “quella nascosta sotto gli intonaci scrostati, i cornicioni e i marmi incastonati qua e là nei basamenti di palazzi… quella velata di devozione nelle edicole votive dei vicoli.”

Questa citazione rivela subito la cifra narrativa del suo lavoro. Napoli è vista come un’entità che ha nella stratificazione e nella verticalità uno dei suoi misteri, “una città che ama nascondersi dietro a più di uno strato di veli. “Napoli è velata come nel film del turco-salentino Ozpetek, come il Cristo di Sammartino. Corvino intraprende, come nei nostri cammini, una sorta di pellegrinaggio. Non è un caso che i primi capitoli siano dedicati a San Giovanni a Teduccio, Pietrarsa, Portici, Ercolano, tutti luoghi che vedono il passaggio dei pellegrini diretti a Pompei. Ne segue uno scavo nell’anima nascosta della città, una full immersion nella Napoli cristiana, quella delle chiese, dell’arte e dei miracoli. E il lettore lo segue, lasciando percorsi turistici e luoghi comuni, addentrandosi nei quartieri storici ma anche in quelli meno noti, ascoltando i miti e i racconti, la musica e la letteratura che si intrecciano alle sue strade.

Napoli emerge come una città di contrasti. Nel giro di trecento metri e di un quarto d’ora, capita di rendersi conto di aver attraversato una città al tempo stesso aristocratica, borghese, popolare e multiculturale. Qui il bello e il brutto, lo splendore e il degrado, il sacro e il profano, l’antico e il moderno convivono, sovrapponendosi e mescolandosi in un’armonia all’apparenza caotica ma perfetta. È una città che non si offre al primo sguardo, ma che va decifrata con lentezza. L’autore ne racconta la bellezza sfuggente, che si rivela strato dopo strato, che richiede al visitatore l’impegno di oltrepassare la superficie per comprenderne l’essenza. La bellezza di Napoli, infatti, è “sfumata, confusa, mischiata, sovrapposta” e si rivela solo a chi ha la pazienza di immergersi davvero nella città, a chi, come Ulisse con le Sirene, si dispone all’ascolto.

Uno degli aspetti più interessanti del libro è la riflessione di Corvino sui contrasti della Napoli moderna, incarnati dal Centro Direzionale. Simbolo di un’aspirazione alla modernità incompiuta, il Centro Direzionale nasce per essere Manhattan e invece diventa un “Bronx in giacca e cravatta,” un tentativo di slancio verso il futuro che però non riesce mai a dispiegare “le ali” per intero: “percepivo lo sguardo ambizioso di un’aquila le cui ali tuttavia non riescono a dispiegarsi liberando tutta la propria potenza.” Questo luogo di grattacieli e acciaio diventa simbolo di una Napoli che cerca di stare al passo coi tempi, ma che finisce per perdere il suo carattere autentico, “uno spazio nato da una bella idea… ma trasformatosi ben presto in un caravanserraglio.”

Nei capitoli dedicati ai quartieri della Sanità, di Forcella e del Vomero, Corvino coglie le mille sfumature di una Napoli popolare e autentica, confrontandola con quella borghese e moderna. Nella Sanità, ad esempio, osserva come storia e miseria convivano a stretto contatto, tra palazzi nobiliari decadenti e botteghe di quartiere, simboli di una resistenza culturale. A Forcella, un rione segnato da una fama drammatica, Corvino percepisce l’eco delle lotte quotidiane di un’umanità schietta che resiste ai pregiudizi. Nel Vomero, con i suoi eleganti palazzi e i panorami mozzafiato, trova il respiro più borghese della città, capace di offrire, nonostante la cementificazione selvaggia, angoli di contemplazione.

Corvino dedica ampio spazio anche alle chiese di Napoli, rivelando l’importanza di questi luoghi sacri non solo come siti artistici, ma come centri di una devozione popolare commovente per la sua inossidabile genuinità. Chiese come San Domenico Maggiore, il Duomo e Santa Chiara diventano nelle sue pagine simboli di un’anima cittadina che non può essere scissa dalla fede, dal sacro, che qui si fonde con la vita quotidiana. Attraverso questi capitoli, il lettore viene invitato a scoprire una città ancora profondamente cristiana, dove la bellezza delle architetture e delle opere d’arte sacra si intreccia con le leggende e le storie di fede dei napoletani.

Con un linguaggio lirico e coinvolgente, Corvino crea un’opera intensa che invita il lettore a scoprire Napoli in tutta la sua complessità, senza fermarsi alla superficie. Napoli, dice, “non ammette distrazioni.” L’altra faccia di Partenope, che esce casualmente in contemporanea col celebrato film di Sorrentino, è un omaggio appassionato a una città dalla bellezza nascosta e complessa, una celebrazione del suo fascino ambiguo, un libro che solleva domande sul valore della tradizione, sul senso di appartenenza (“Terra mia” cantava Pino Daniele), sul rapporto tra antico e moderno, ma anche sul futuro dei centri storici invasi dal turismo e sul degrado delle periferie urbane. Un libro che non è solo una guida spirituale a Napoli, ma un inno alle sue eterne, irresistibili, turbolente, ammalianti contraddizioni.

Gigi Agnano