Srebrenica 1995 – 2025: quando i genocidi vengono riconosciuti, di Amedeo Borzillo

Durante la guerra in Bosnia-Erzegovina, nel luglio 1995, a Srebrenica vennero trucidati oltre 8.000 bosniaci musulmani per mano delle truppe serbo-bosniache (affiancate dal gruppo paramilitare “gli Scorpioni”),  comandate dal generale Ratko Mladić. 

Si tratta del più grande massacro in Europa dopo l’Olocausto, aggravato dal fatto che tutto il territorio colpito fosse stato dichiarato zona protetta dall’Onu, sotto la tutela di un contingente olandese dell’UNPROFOR, ovvero delle truppe di peacekeeping destinate dalle Nazioni Unite all’ex Jugoslavia. 

La strage di Srebenica è stato l’atto finale di pulizia etnica programmata di un’offensiva militare iniziata nel 1992. 

A ciò vanno aggiunti gli stupri di massa operati dalle milizie serbe e l’emorragia di profughi dall’area che ha portato al totale svuotamento della zona, in precedenza occupata dai bosniaci musulmani, e ora invece appartenente alla Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina, entità territoriale rinegoziata durante i trattati di Dayton. 

Nonostante il tempo trascorso, però, la distanza non è ancora sufficiente per circoscrivere l’evento in una cornice storica più chiara, facendo luce sulle tante ombre rimaste, tra cui la responsabilità dell’ONU e i sentimenti anti-islamici delle truppe UNPROFOR, rimanendo un evento lontano e spesso sconosciuto a causa della scarsa rilevanza nei media italiani e non solo. 

Nella migliore delle ipotesi, i conflitti che portarono alla disgregazione della Jugoslavia sono stati rappresentati in maniera spesso approssimativa e semplicistica, quando addirittura non ignorati. 

La colpa non è solo dei media, ma anche di un continuo tentativo di riscrittura della storia a scapito delle stesse vittime.

Ogni anno, nel giorno della commemorazione presso il memoriale di Potocari, nuove bare vengono issate in spalla e preparate per la sepoltura. La conta dei morti non è ancora terminata. Nei giorni scorsi altri otto corpi rinvenuti in una fossa comune sono stati seppelliti.

Una sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aja nel 2007 ha stabilito che la strage, essendo stata commessa con lo specifico intento di distruggere il gruppo etnico dei bosniaci musulmani, costituisce un genocidio. 

Ratko Mladić (attualmente detenuto nel carcere del Tribunale dell’Aia e di cui in questi giorni è stata chiesta la scarcerazione per gravi motivi di salute) e Radovan Karadžić (ricercato per 12 anni ed attualmente in carcere) sono stati condannati entrambi, in due momenti diversi, all’ergastolo.

Numerosi i libri pubblicati sulla guerra in Bosnia-Erzegovina e più in generale sulle guerre nella ex Jugoslavia. Nel giorno del 30° anniversario del genocidio, vogliamo segnalarne alcuni che più di altri hanno suscitato il nostro interesse.

Il più recente in termini di pubblicazione (è uscito in libreria il 28 giugno scorso) è il romanzo-documentario Metodo Srebrenica (Bottega Errante Edizioni) dello scrittore croato Ivica Đikić, che riporta con estrema perizia quanto accaduto in quei giorni terribili nei territori di Srebrenica.

Sempre della casa editrice friulana BEE è “Le Marlboro di Sarajevo” di Milijenko Jergovic, una raccolta di racconti scritti durante l’assedio e la devastazione della capitale della Bosnia-Erzegovina.

Il saggio storico per antonomasia su quanto successo in Jugoslavia dopo la morte di Tito è, per l’esposizione ampia e dettagliata e per la raccolta estremamente scrupolosa di dati e documentazione, quello di Joze PirjevecLe Guerre Jugoslave 1991 – 1999” (Einaudi).

Infine due reportage: Il libro “Balcania” di Tony Capuozzo (Biblioteca dell’immagine), che per 10 anni ha seguito in loco le vicende della guerra per conto della RAI; e “Maschere per un massacro” (Feltrinelli) del triestino Paolo Rumiz.

Amedeo Borzillo 

Paolo Rumiz: “La rotta per Lepanto” (Bottega Errante Edizioni), di Valeria Jacobacci

Il Mare Mediterraneo e lo scontro Oriente Occidente sono i temi del libro di Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, velista, triestino, inviato speciale de “Il Piccolo”, editorialista di “Repubblica”, in campo a Islamabad e a Kabul nel 2002 per seguire l’attacco statunitense in Afghanistan, autore di numerosi libri, all’attivo molti riconoscimenti.

Al di là di tutto questo ciò che lo contraddistingue è una profonda passione per la storia e per il mondo, il teatro in cui essa si svolge, un totalizzante aderire alle dimensioni di spazio e tempo, visti nel loro insieme dall’alto,  su ali di gabbiano, trasvolando le acque dell’Adriatico in viaggio da Venezia in giù, verso il Mare nostrum, o nel Mare di Mezzo, come lo definisce traslandone il nome, dove questo prolungamento del Canal Grande diventa lago marino e contiene il nostro fluido passato.  

Lepanto. La formidabile battaglia. Questa è la destinazione. E mai come ora la meta è significativa. 1571: la sconfitta dei Turchi e il trionfo dei cristiani, ma è davvero così? Grande protagonista, il mare. Personaggi: popoli che in ogni tempo l’hanno attraversato usandolo come ponte da un luogo all’altro, da una terra all’altra, con i natanti più diversi, battendo le onde e arrossandole col proprio sangue in mille battaglie.

“La rotta per Lepanto” descrive un pellegrinaggio, ha un carattere moderno, ludico e spensierato ma meditativo e profondo. E’ un racconto di viaggio, avventuroso per la varietà dei mezzi che solcano le acque, dalla barca a vela al passaggio su piccole navi o navigli, traghetti e motoscafi, fino alla “Vela rossa”, nel mare del Montenegro, venuta da chissà dove, una barca di nome Moya che “arriva in silenzio nell’acqua increspata color del rame e dello zinco”, di legno, e con vele rosse di tela come quelle di Omero.

Ed è da Omero che questo mare divide e unisce, separa le culture ma ne implementa lo sviluppo, miscela raffinatezze e barbarie. La navigazione è il modo più appropriato. O forse l’unico per ricordare, commemorare ma soprattutto capire una storia plurimillenaria che è la vicenda della nostra civiltà, quella che raccoglie le diaspore e ridistribuisce i destini.

Il mare della costa alta dell’Adriatico è affollata di barche da diporto, la Croazia è meta privilegiata, i posti sono allegri, variopinti e troppo moderni se confrontati con gli approdi più in giù, il turismo predilige le comodità e gli svaghi, i luoghi, tutti scelti lungo il percorso sulla costa Est, nelle terre nostre dirimpettaie, si fanno più austere man mano che si prosegue verso sud.

Dopo la Croazia, Bosnia e Montenegro e dopo Ragusa, Perasto, Bar, lungo l’Albania, il mare si desertifica, è un andare del tutto solitario. Poi la Grecia. Tutto cambia e si ripopola il paesaggio. Le isole greche, fra tutte Itaca!

Il pellegrinaggio è vicino alla meta, Lepanto. In questo mare è successo tutto. La contrapposizione Oriente Occidente è incominciata molti secoli prima di Lepanto, molto prima che Maometto nascesse, quando l’Islam non c’era.  Ulisse vaga da Itaca verso Troia, nella Troade, verso Est, e poi a ritroso,  come  gli altri Greci di ritorno in patria, viaggi lunghi decenni.  

Quando Roma, che è Occidente, con tutto quello che lo caratterizzerà in seguito, vince sul mondo greco,  sarà Cesare a puntare sull’Egitto e poi Antonio, al fianco di Cleopatra, nella battaglia di Azio. I turchi imperverseranno più tardi ma non saranno sempre nemici. I traffici commerciali con la Serenissima sono vantaggiosi per tutti, sono più gli accordi che i disaccordi. Nel mezzo le altre repubbliche marinare, i pirati, i saccheggi.

A Lepanto l’esercito della Lega Santa contro l’infedele, una vittoria che costò forse più all’Occidente vittorioso. Il pellegrinaggio finisce qui, attraverso le acque che hanno visto le stragi del secolo breve e, dopo le due guerre mondiali, la guerra fra Serbi e Croati. L’Adriatico poteva essere, e spesso lo è stato, un trait d’union fra popoli non così diversi come si vuole che siano, un coacervo di lingue, culture, usanze.

Il grande rivale è il Tirreno ma soprattutto l’Atlantico, verso il Nuovo mondo che sottrae il primato dell’economia a Venezia e a Istanbul.  Tutto questo è detto brevemente, poeticamente, con l’occhio del giornalista dei tempi nostri e del velista filosofo, molto dall’alto e con il distacco di un Seneca, temprato da Socrate e senza saltare Plutarco con il ciclo delle costituzioni.  Fra un bicchiere di vino ellenico e un aroma di cibo esotico. 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.