Marguerite Duras: “Scrivere, una ragione di vita” (NN editore, trad. Chiara Manfrinato), di Edoardo Pisani

Lacrime di Marguerite Duras – su Scrivere 

L’atto di scrivere comprende pure la sua negazione, cioè l’atto di non poter o non saper più scrivere, perché anche non scrivere è un atto, benché mancato. L’atto di non scrivere ci riconduce quindi alla scrittura stessa, sia pure nel silenzio. Scrivere significa tentare di sapere cosa scriveremmo se scrivessimo, dice Marguerite Duras. 

È seduta su una poltroncina, davanti a un pianoforte e accanto a un termosifone. Indossa una gonna a scacchi grigia e un maglione blu scuro, e ha un cerchietto nero che le incornicia i lisci capelli grigio cenere. L’obiettivo della telecamera è fisso su di lei. 

Marguerite Duras ci parla con una voce leggermente arrochita dall’alcol, scandendo lentamente ogni parola. Il suo tono è malinconico. Stanco. Ma Duras è una donna piena di dignità e saggezza, e ha molto da raccontare. 

Nel 1993 uscirono due documentari-interviste di Benoît Jacquot su di lei, Êcrire La Mort du jeune aviateur anglais, entrambi rintracciabili su YouTube. Quello stesso anno le due interviste confluirono in un libriccino edito da Gallimard, Êcrire, che Laurent Adler, la sua maggiore biografa francese, ha definito il suo testamento letterario e umano. Oltre trent’anni dopo la prima edizione italiana del testo (Feltrinelli, 1994), l’editore Enne Enne lo ripropone in nuova traduzione, a firma di Chiara Manfrinato. 

Scrivere è un libro che mancava da tempo nelle nostre librerie e che ancora ci illumina e ci commuove. Contiene cinque testi brevi, fra i quali le due interviste-monologo tratte dai documentari di Benoît Jacquot, adeguatamente riviste per la pubblicazione. Marguerite Duras fa i conti con se stessa e con la propria opera, sapendo che non le resta molto da vivere. Parla – scrive – della scrittura, del silenzio, dei suoi libri, della morte, di politica, di amore, di alcol, di Roma (un’intera sezione del libro si svolge a Roma), di pittura e di purezza. Lo stile è quello che la accompagna ormai da diversi anni, con delle frasi brevi e coincise, dalla sintassi semplice, con qualche iterazione che dà più forza al suo periodare. È una sequenza di paragrafi o frasi separati da uno o più righi bianchi che può essere letta anche come una partitura. A momenti sembra che Duras procacci una forma inedita non di scrittura ma di espressione, una nuova forma espressiva che comprenda pure gli spazi bianchi, le pause, i lunghi silenzi fra un brano e l’altro – e i suoi silenzi dicono sempre qualcosa. 

A Duras restano tre anni di vita. Tuttavia il suo sguardo verso la morte è lucido, non spaventato, come quello degli stoici greci. A un certo punto osserva l’agonia di una mosca che è sul punto di morire, forse ricordando un racconto di Katherine Mansfield (La mosca, appunto). Scrive: “La morte di una mosca è la morte. È la morte in cammino verso una certa fine del mondo, che estende il campo dell’ultimo sonno. Vediamo morire un cane, vediamo morire un cavallo, e diciamo qualcosa, per esempio: povera bestia… ma se muore una mosca, non diciamo niente, non lo documentiamo.”

Come “la morte di una mosca è la morte”, il silenzio di uno scrittore è il silenzio, verrebbe da dire leggendo Duras, perché l’atto di scrivere contiene anche il suo contrario, cioè l’atto di tacere e di contemplare la possibilità di scrivere. “Uno scrittore è un essere bizzarro” chiosa infatti Duras. “È una contraddizione  e anche un’assurdità. Scrivere è anche non parlare. È tacere. È urlare senza fare rumore.” Scrivere è dunque una parola ossimorica che unisce i due atti, il parlare e il tacere. Marguerite Duras lo sa e ce lo dice. Ha scritto per tutta la vita, come le consigliava di fare Raymond Queneau (“Non faccia altro, scriva”), e lo rivendica. Scrivere è stato il suo destino. 

Poi c’è la morte, alla quale pure la scrittura – come il silenzio – deve raffrontarsi. C’è la morte di sé e c’è la morte degli altri, dove gli altri possono essere le persone che abbiamo più a cuore ma anche degli sconosciuti. Parlando della morte in guerra di un giovane aviatore inglese, per esempio, Marguerite Duras ricorda la morte del fratello nella Guerra del Pacifico, e a lui finisce per rivolgersi, al fratello, perché scrivere è anche un impossibile dialogo con i nostri morti, con i morti che abbiamo amato e amiamo ancora, e perché “la morte di chiunque è la morte intera”, come la morte di una mosca o di un soldato o – da ultimo – di noi stessi. La prossima morte di Marguerite Duras, scrittrice e essere umano. 

“C’è l’amore di mio fratello e c’era il nostro amore” continua Duras, con i suoi mormorii strascicati, “quello tra me e lui, un amore fortissimo, nascosto, colpevole, un amore senza fine. Incantevole, perfino dopo la tua morte. Il giovane inglese morto era chiunque ma era anche soltanto lui. Era chiunque ed era lui. Ma non si piange per chiunque.” 

La scrittrice quindi si raffronta con l’impossibilità di scrivere – e ne scrive – e ricorda la propria esistenza, la solitudine, gli amori, i morti propri e altrui, perfino la politica, immaginando una lista con tutti gli uomini e tutte le donne che hanno trascorso le loro esistenze in una fabbrica della Renault ormai sul punto di chiudere, una lista esaustiva, dice Duras, priva di commenti, che raggiungerebbe il numero di abitanti di una grande capitale: un “muro di proletari”, perfetto e significativo. 

Marguerite Duras era stata iscritta al Partito Comunista Francese e non se ne era mai pentita, sebbene fosse stata espulsa quale dissidente nel 1950. Al riguardo scrive, nella prima parte del libro: “Siamo malati di speranza, noi sessantottini, della speranza che riponiamo nel ruolo del proletariato. Quanto a noi, nessuna legge, niente, nessuno e niente ci guarirà da quella speranza. Vorrei perfino riscrivermi al Partito Comunista. Ma al tempo stesso so che non dovrei.” E ancora: “Non dobbiamo sottometterci a ordini, orari, capi, armi, multe, insulti, sbirri, capi e ancora capi. Né alle chiocce che covano i fascismi di domani.” 

Una scrittrice e un’intellettuale come Marguerite Duras oggi ci manca molto, ma per fortuna possiamo ritrovarla nei suoi libri. Nel suo stile a un tempo semplice e elaborato, che in Scrivere si muove fra lunghi silenzi e assiomi fulminanti. O nel suo sguardo fisso nell’obiettivo, mentre parla piano, seria, di morte e di scrittura e quindi di tutto ciò che conta, facendo del silenzio intorno a lei – intorno a noi – un tutt’uno con la sua voce. “Un libro aperto è anche la notte” mormora. E poi, dopo un rigo bianco: “Non so perché, ma le parole che ho appena detto mi fanno piangere.” In questi tempi di chiasso sfrenato e guerre insensate la voce e l’esempio di Marguerite Duras – le sue lacrime, il suo silenzio – ci fanno credere che per l’essere umano non tutto è ancora perduto. 

Edoardo Pisani*

*Edoardo Pisani è nato a Gorizia nel 1988. Ha pubblicato i romanzi E ogni anima su questa terra (Finalista premio Berto, finalista premio Flaiano under 35) e Al mondo prossimo venturo, entrambi con Castelvecchi. Sempre con Castelvecchi ha pubblicato un libro su Rimbaud, E libera sia la tua sventuraArthur Rimbaud! Nel 2026 Marsilio pubblicherà il suo terzo romanzo.

“Affamata” di Melissa Broder (NN Editore, trad. Chiara Manfrinato): storia di chi divora cibo, sesso e amore, di Francesca Sorge

Io non so che significhi vivere con un DCA (disturbo del comportamento alimentare), ma so che vuol dire convivere con una persona che l’ha avuto. Non voglio appropriarmi di un disturbo, nè sostituirmi alla narrazione di questo, ma il libro di cui vi parlerò mi ha restituito dei ricordi molto intensi a riguardo. Credetemi quando vi dico che è realmente così come scrive Melissa Broder

Mettetevi comodi, questo libro è di una densità emotiva stravolgente.

Rachel, protagonista del romanzo, ha solo 25 anni e vive calcolando ossessivamente le calorie di ciò che ingerisce, ignora lo stimolo della fame, salta le pause caffè con i colleghi pur di non cedere al bisogno primario di nutrirsi. Ogni mattina fa colazione con una gomma alla nicotina e non si concede altro almeno fino a metà mattinata quando sgranocchia una barretta dietetica seduta alla scrivania del suo ufficio. 

E così fino all’ora di pranzo. Le sue giornate sono scandite da una serie di conti: conta le calorie ingerite, conta le giornate che trascorrono tra un “pasto” e un altro, conta quando dovrà recarsi in palestra (spoiler non troppo spoiler: si reca ogni giorno), conta quando deve recarsi da “Yo!Good”, un locale che serve frozen yogurt ipocalorici e conta quando tornerà ad esibirsi sul palco. 

Si, perché oltre a vivere a Los Angeles e lavorare come agente in un’agenzia per lo spettacolo che non la gratifica molto, ogni giovedì sera si esibisce come stand – up comedian. 

Ma è proprio nella yougurteria che incontrerà e si innamorerà di Mirian, una commessa coetanea ebrea ortodossa, bionda e obesa, espansiva e invadente che le proporrà, mettendola in difficoltà, porzioni esagerate di yogurt con diversi tipi di topping. 

E soprattutto era grassa: innegabilmente, incontrovertibilmente grassa. Non era robusta, formosa o paffuta. Era più che carnosa, eclissava l’idea di robustezza. Era proprio grassa, come io non riuscivo a immaginarmi nemmeno nei miei incubi peggiori. Ma sembrava ignorarlo o fregarsene alla grande.” 

Miriam ha una modalità disinteressata e disinibita nei confronti delle abbuffate e man mano che si conoscono, passano dal frozen yougurt, alla cena cinese fin quando Rachel comincia a mangiare spropositamente. Non riuscirà più ad avere il controllo sul cibo. 

“Sgranocchiavo, succhiavo, scioglievo, ripulivo tutto con la lingua in preda all’estasi – solido e soffice, dolce e dolcissimo – in un prisma di bellezza al tempo stesso terrena e divina, mentre, ancorata al suolo, non ero altro che una bocca e una lingua giganti, e mangiavo e mangiavo per il puro e semplice piacere di mangiare.” 

Miriam conduce Rachel in una spirale di nuove esplorazioni attraverso il cibo, il gusto e il piacere. Ma non solo: la invita a casa per la cena dello Shabbat dove la sua famiglia diventa un teatro di scontro sui grandi temi della religione e dell’occupazione israeliana della Palestina. 

Per Rachel diventa tutto collegato e proporzionale: aumenta l’appetito e aumenta anche il desiderio sessuale. Rachel è in balia dell’erotismo, alterna fantasie sessuali a dir poco freudiane (qui è anche coinvolto il rapporto con sua madre), a scenari in cui immagina di fare sesso con donne che mangia, lecca, penetra, morde e fa bagnare. 

Rachel annusa queste donne, annusa i loro odori e le loro secrezioni. 

Ma parallelamente a questa storia, si svela senza troppo mistero, il rapporto complicato di Rachel con i suoi genitori, in particolare con la madre. 

Se a un certo punto Rachel aveva iniziato a riconoscere il principio di un disturbo alimentare, verbalizzandolo in una conversazione con la madre, quest’ultima le aveva risposto che non poteva essere: le anoressiche sono molto più magre di così. 

La madre di Rachel non appare come una donna cattiva, ma nonostante ciò svuota la figlia sia mentalmente sia fisicamente, tanto da indurla ad andare da una terapeuta per cercare di risolvere i suoi problemi. 

“Affamata” è un libro che spinge i lettori e le lettrici ad esplorare la fragilità e le contraddizioni dell’esperienza umana. 

Melissa Broder affronta temi come l’ansia, la solitudine, il sesso con uno stile diretto, crudo e ironico che non teme di esplorare la sofferenza e le difficoltà dell’essere umano. 

Le tematiche dell’autoindulgenza, della solitudine, del desiderio di connessione e di lotta, rendono il libro contemporaneamente tragico ed ironico spingendo la lettura a volte verso il grottesco e a volte verso la ricerca di sé. 

“Affamata” è il libro perfetto per chi è disposto ad immergersi in una vulnerabilità umana, emotiva e piena di autoironia. 

Francesca Sorge

Francesca Sorge: pedagogista intersezionale e supervisora educativa. Lavoro come responsabile di comunità per minori stranieri non accompagnati. Femminista convinta e attivista per i diritti lgbtqia+. Presidente del circolo (H)astarci di Trani