Ad un anno dalla tragedia di Cutro – il ricordo di Luigi de Magistris

È passato un anno dalla terribile tragedia di Cutro.

La mattina del 26 febbraio mi trovavo a Riace, da Mimmo Lucano.

Pochi chilometri dividevano il luogo dell’accoglienza e della persecuzione giudiziaria dal mare divenuto cimitero e della ancora denegata giustizia. Dopo alcune ore stavamo lì sulla spiaggia di Cutro, in un tratto spesso ondoso e amato dai surfisti, il mare restituiva cadaveri, scarpe di bambini, giubbotti di ragazzi, oggetti di speranza di vita divenuti invece simulacri della morte.

grafica di Anna Di Rosa

I sud non meritano tanta disumanità. Si devono ribaltare modelli politici, economici, ambientali e sociali. Bisogna portare capi di governo e capi di stato, soprattutto dei paesi più industrializzati e complici, a rispondere davanti ai tribunali di concorso in crimini contro l’umanità.

Mentre salvare vite umane è un dovere non certo un crimine.

Luigi de Magistris

E la quarta volta siamo annegati di Sally Hayden, trad. Bianca Bertola (Bollati Boringhieri), di Gigi Agnano

Siamo al terzo libro della nostra rubrica dedicata alle migrazioni.

Mentre in Stranieri alle porte Zygmunt Bauman parlava della nostra paura dello straniero e in Esodo Domenico Quirico scriveva del viaggio verso i confini dell’Europa; oggi la nostra rubrica ci porta al bel saggio della giornalista irlandese Sally Hayden dal titolo E la quarta volta siamo annegati, in cui si documentano le condizioni disumane dei migranti intrappolati in quei campi di concentramento che sono i centri di detenzione libici.

Dopo diversi anni di ricerche, l’Autrice scrive un reportage per denunciare le conseguenze disastrose delle politiche migratorie europee, ai danni di persone che fuggono da condizioni terribili nei loro Paesi, col sogno di una vita dignitosa nell’ Europa dei diritti.

Il libro si apre con la Hayden che riceve via Facebook nel 2018 un messaggio di SOS da un uomo eritreo, che la contatta in quanto aveva sentito parlare della giornalista e della sua indagine sulla corruzione delle Nazioni Unite nei campi profughi in Sudan:

“Ciao sorella Sally, ci serve il tuo aiuto”

L’uomo che si chiama Essey è in realtà un adolescente in viaggio da diversi anni. Catturato su un gommone nel Mediterraneo dalla guardia costiera libica e rinchiuso in un centro di detenzione a Tripoli, scrive da una stanza con centinaia di altri rifugiati affamati, disarmati, impotenti, mentre in tutta la Libia c’è la guerra.

Da quell’episodio prende il via l’indagine della Hayden:

“Senza volerlo ero incappata in una vera e propria tragedia, una violazione dei diritti umani di proporzioni epiche.”

La Hayden comincia ad ascoltare le testimonianze terrificanti di centinaia di detenuti isolati e indifesi:

“Erano stati tutti rinchiusi senza capi d’accusa né processo, a tempo indeterminato e senza che si prospettasse una fine della prigionia.”

E, dall’ascolto di quell’umanità straziata, l’Autrice sbobina racconti di inaudita crudeltà, una sorta di catalogo di stupri, abusi sistematici, torture e orribili traumi. Ci riferisce del trattamento disumano dei detenuti, delle percosse, di un fiorente commercio di schiavi, di riscatti estorti alle famiglie attraverso l’uso dei cellulari e dei Social, dei suicidi. O ancora per esempio di un ragazzo che muore di appendicite contorcendosi dal dolore; del sovraffollamento che costringe i detenuti a dormire nelle latrine; di condizioni igieniche terrificanti e delle malattie; di donne che partoriscono senza cure mediche; o della fame per cui le mamme smettono di produrre latte e i bambini di lacrimare.

Ma il libro è anche un racconto della vita intima di queste persone, della loro capacità di resistere, di sostenersi a vicenda, persino di innamorarsi.

Le cinquecento pagine fanno però emergere con chiarezza non solo le violenze, ma anche l’inefficienza e a volte la corruzione del personale delle agenzie delle Nazioni Unite, che avrebbe il compito di fornire aiuto e invece, per paura, ignoranza e inadeguatezza, finisce per acuire problemi già di per sé enormi. Il tutto foraggiato dall’Unione Europea che fornisce cifre considerevoli alle milizie libiche (faremmo meglio a chiamarle bande o organizzazioni criminali) col solo scopo di impedire ai rifugiati di sbarcare sul suolo europeo. Tra il 2016 e il 2021, più di 4,8 miliardi di euro (dei contribuenti) sono stati spesi dall’Europa per la difesa dei confini e ulteriori centinaia di milioni sono state promesse alla Libia dall’UE, ma anche da singoli Stati tra cui l’Italia.

Il volume offre, a tal proposito, un prezioso quanto drammatico quadro di cifre e statistiche. Ne scegliamo alcune a caso: per esempio sono quasi 20.000 gli uomini, le donne e i bambini annegati nel Mediterraneo sulla rotta dalla Libia a Malta tra il 2014 e il 2019; un migrante su cinque che ha tentato di lasciare la Libia nel settembre 2018 è morto o scomparso; “nei diciannove anni intercorsi dalla caduta del muro di Berlino, gli stati membri dell’Unione e dell’area Schengen hanno eretto quasi mille chilometri di muri di frontiera”, ecc…

Un resoconto devastante e commuovente che lascerà al lettore pochi dubbi sull’inadeguatezza delle nostre politiche migratorie. Politiche che vengono offerte dai governi europei come panacea di problemi sicuramente non generati dai rifugiati: sfruttamento neocolonialista, destabilizzazioni nei Paesi di origine, cambiamento climatico. Politiche per le quali, ad esempio, Italiani e greci sono arrivati al punto di criminalizzare gli attivisti, la gente comune, i pescatori che salvano i migranti in mare. La legge italiana prevede poi che l’ imbarcazione che opera un salvataggio si diriga immediatamente verso il porto assegnatole e vieta che quella stessa imbarcazione fornisca assistenza ad ulteriori barconi incrociati nel corso della navigazione.

Il reportage sulla migrazione e le crisi umanitarie della Hayden ha avuto svariati riconoscimenti. In particolare, è stato nominato come miglior saggio del 2019, tra gli altri, dal New Yorker, dal Guardian e dal Financial Times. C’è un mondo che non possiamo far finta di non vedere e storie che abbiamo l’obbligo morale di ascoltare.

Gigi Agnano

Migrazioni: un processo irreversibile – intervento a cura del Movimento Shalom onlus

Le migrazioni sono consone alla condizione dell’uomo a due gambe, naturali come il suo esistere, il suo vivere, il suo cercare cibo e acqua. L’uomo è da sempre migrato, anche prima di essere homo erectus. Chi si stupisce dei flussi migratori non ha ancora aggiunto al suo essere l’anello dell’homo sapiens, è ancora involuto.

Dunque non è una sorpresa, un fatto nuovo, ma un naturale processo della storia umana acuito dalle differenze sociali e da insopportabili ingiustizie.

Una scellerata economia e un’ assenza di politica globale hanno creato le condizioni per esasperare il problema. Terre ricchissime di risorse di ogni genere, abitate da moltitudini di diseredati, oppressi dalle armi che consolidano i loro dittatori, asserviti alle potenze mondiali e sempre più assetati di potere, ricchezza e armamenti.

La ragione spingerebbe i detentori dei capitali e del potere a distribuire equamente i beni della terra, garantendo a tutti cibo, acqua, scuola e salute. Invece questo sembra essere l’ultima delle preoccupazioni, basti guardare l’ingordigia delle case farmaceutiche e l’iniquo accesso ai vaccini.

La causa prima in assoluto delle fughe in massa dei derelitti è dei paesi ricchi e sfruttatori.

La ricerca dei diritti fondamentali per la vita è sacrosanto per ogni essere umano.

La prima cosa dunque è rimediare alle macroscopiche cause che determinano la necessità di migrare.

Purtroppo però di un piano finanziario globale per sollevare i paesi in via di sviluppo non se ne sente parlare.

È ovvio che non possiamo accogliere indiscriminatamente milioni e milioni di persone, dunque i primi accordi vanno presi con i paesi dai quali provengono e favorire una cooperazione che innalzi il livello economico delle nuove generazioni, insieme ad una sana educazione umana e professionale. È necessario anche disilludere i giovani che il nostro mondo sia il paese delle meraviglie e che lo scintillio della ricchezza ad ogni costo, anche con il crimine, corrisponda alla felicità.

Penso comunque che un ordinato e ragionevole numero di persone giovani che vengono in Europa e dunque anche da noi è auspicabile non solo per dovere di accoglienza, ma anche per la nostra economia.

Non crediamo, come molti dicono che l’Italia sia un paese razzista, pensiamo piuttosto che la cattiva gestione di alcuni di questi giovani prevalentemente africani, senza un’ occupazione o scolastica o lavorativa o sociale, ridotti a fare accattonaggio alle stazioni, ai supermercati, ai parcheggi, davanti le chiese o peggio a spacciare droga nei luoghi più disparati o arruolati dalla malavita o ad affollare le galere creino un sentimento di avversione non tanto verso le persone, quanto verso una politica sempre più inetta e inefficace.

Un paese come il nostro che ha oltre venti milioni di pensionati, che cresceranno ancora di più perché siamo fra i più vecchi al mondo, ha bisogno di persone produttive. Come tutti sappiamo senza i cosìdetti extracomunitari tante fabbriche chiuderebbero.

La loro accoglienza, a prescindere da un inderogabile dovere umano sancito da tutte le costituzioni europee, è una importante opportunità per noi sul piano economico. Vedo nel nostro piccolo universo legato a Shalom quanti affitti si pagano a cittadini italiani e quante persone sono impiegate per la loro assistenza e formazione; se si moltiplicano per tutti i centri di accoglienza escono fuori numeri occupazionali davvero ragguardevoli.

Pensiamo per un attimo a quanti insegnanti andrebbero a casa senza i loro figli che innalzano notevolmente il numero degli alunni.

E presto avremo bisogno anche di persone qualificate non solo per lavori manuali, ma anche di medici e infermieri, tecnici; per quanto riguarda i preti poi… basta aprire gli occhi.

I mutamenti in atto sono inesorabili è un processo al quale dovremo abituarci sapendo anche scoprirne i vantaggi. La varietà delle persone ci mostra il mondo in casa, il confronto con le altre culture e religioni aumenta il bagaglio talvolta scarso delle nostre conoscenze e apre ad orizzonti ampi il nostro pensare.

Non crediamo che sia un problema insormontabile una volta fatto tutto per sviluppare i loro ricchi paesi, fare della nostra Italia una scuola permanente di formazione alla mondialità con percorsi alle attitudini professionali e culturali, visto che siamo il paese che vanta arte, storia e genialità esportata in tutto il mondo.

Quante persone potremmo occupare in questi progetti educativi? L’Italia finalmente potrebbe riscoprire la sua vocazione educatrice ed i giovani una volta formati potrebbero rientrare nei loro paesi per favorire sviluppo o andare ad occupare posti di lavoro che nel futuro saranno sempre più richiesti.

Movimento Shalom onlus

Esodo di Domenico Quirico (Neri Pozza, 2016), di Gigi Agnano

C’è un romanzo del 1926 dal titolo La nave morta di tale Bruno Traven (o B. Traven… chiamatelo come volete tanto è uno pseudonimo e di lui non si sa granché), che mi è tornato in mente da una frase di Esodo di Domenico Quirico. La nave morta racconta, tra il dramma e l’ironia, di un marinaio che, essendosi attardato in un bordello del porto, viene lasciato a terra dalla nave dove stava lavorando e perde così tutti i suoi documenti rimasti inesorabilmente a bordo. Il marinaio diventa quindi un apolide e si trova a dover affrontare tutta una serie di situazioni kafkiane, di espulsioni assurde da un Paese europeo all’altro, per il solo fatto di essere privo di un qualsiasi certificato che attesti… la sua esistenza.

La frase di Domenico Quirico che mi ha fatto venire in mente il libro di B. Traven è la seguente:

Chi arriva qui (a Mersin in Turchia dalla Siria o dall’Iraq) e non ha denaro è perduto, costretto a dissanguarsi nel groviglio dei visti di entrata per i Paesi europei, due, tre anni per diventare rifugiato. E della burocrazia, della solitudine, della terra straniera, della orribile indifferenza generale e del sospetto di fronte alla sorte dei singoli. Sono tempi in cui l’uomo non è nulla, un visto da rifugiato è tutto

Il giornalista astigiano de La Stampa Domenico Quirico, classe 1951, nella sua lunga carriera ha seguito da vicino guerre, rivolte, migrazioni, che hanno riguardato il continente Africano (Mali, Somalia, Congo, Ruanda, Libia) e il Medio Oriente (tra cui primavere arabe e Siria). Nell’aprile del 2013, nel pieno del conflitto Siriano, è stato sequestrato da formazioni islamiste e rilasciato dopo cinque mesi.

Esodo è un suo lavoro del 2016 che innanzitutto impressiona per la quantità dei luoghi che attraversa per seguire gli spostamenti dei migranti: dall’Africa Occidentale alla Tunisia attraverso il Mali; o il Niger e la Libia; dal Marocco a Melilla, dal confine tra Iraq e Siria alla Turchia, dal muro di Orban in Ungheria alla Serbia sulla via balcanica, da Calais per arrivare in Inghilterra. E ovviamente il Mediterraneo, Lampedusa, il Centro di Accoglienza di Mineo, Catania o Tor Sapienza a Roma tra le baracche dei campi nomadi, ecc…

L’altro aspetto che rende Esodo una testimonianza preziosa “per far conoscere degli uomini ad altri uomini” è il metodo di lavoro di Quirico che non si limita a raccontare da una redazione o dalla scrivania di casa, ma vive in prima persona l’esperienza della migrazione, della traversata nel deserto o nel Mediterraneo, “per l’arrogante volontà di capire perché un popolo di ragazzi rischia la vita per afferrare l’Europa”.

“La Grande Migrazione comporta un mutamento obbligatorio di vita per il cronista, ma anche per il narratore, il sociologo o l’analista, che devono avventurarsi non più solo con la testa, ma con il corpo”

Nelle prime pagine Quirico guarda a volo d’uccello quella parte di mondo, in Africa o Medio Oriente, svuotata a causa della migrazione, dove restano solo il deserto, le rovine e i vecchi. Poi lo troviamo a Zarzis in Tunisia in attesa d’imbarcarsi, perché, prima ancora del viaggio, bisogna raccontare l’attesa che è poi il racconto dell’essenza stessa del “clandestino”:

“Attende di avere la cifra per potersi pagare il viaggio, attende il mediatore che ha il compito di organizzarlo, il passeur con il prezzo giusto. Attende anche la nave che, forse, non affonderà, il mare buono, il momento in cui il carico umano è completo e il viaggio rende, il capitano che ha fama di conoscere l’abbecedario dei venti e delle maree, il momento in cui la polizia è ancor più distratta del solito. Aspetta.”

Prima d’imbarcarsi, quell’attesa Domenico la vive per alcuni giorni in una casa con altre cinquanta persone in due stanze di pochi metri quadri. Poi finalmente siamo anche noi lettori insieme al reporter sul barcone che singhiozzando si stacca dal porto. Ha con sé un carico di centododici esseri umani, uomini, donne e bambini stretti sul ponte. Durante la traversata il motore si rompe più volte e, giacché col motore si ferma anche la pompa nella stiva, la barca prende acqua e affonda irrimediabilmente al largo di Lampedusa. Finiamo in acqua quando già si vedono le luci dalla costa… Quirico e gli altri hanno la fortuna di essere tratti in salvo dalla Guardia Costiera…

“In mare aperto, senza radio, senza telefoni satellitari, impossibile chiamare soccorso e sperare. E’ così per ogni viaggio, i clandestini di Lampedusa sono dei condannati a morte cui talvolta la pena è abbuonata.”

In un capitolo successivo siamo a Kayes, in Mali, dove si riuniscono i migranti dal Senegal, dal Gambia, dalla Costa d’Avorio, dalla Guinea e dal Mali stesso, per imboccare – in novanta su un camion senza un telo che ripari dal sole – i quattromila chilometri di piste del deserto che vanno dal Niger in Libia, a Tripoli, sul mare, dove però gli africani sono considerati bestie, la polizia picchia, uccide e ruba tutto quello che trova. Quirico cammina coi migranti nel deserto per ascoltare e riferirne le storie.

Passiamo poi in Siria, o quello che ne resta, e veniamo accompagnati in una scuola dove è ammassata una quantità indefinita di cadaveri; e Quirico si chiede “Perché mai non dovrebbero fuggire i migranti, se alle loro spalle ci sono sonni e giorni pieni di questo orrore?”

Esodo è un libro ruvido e potente che si compone di ulteriori capitoli tutti altrettanto drammatici; è una sorta di film corale in cui il popolo dei migranti ci racconta la miseria, il sudore, le sofferenze, gli stupri, i crudeli rimpatri, i patetici muri e i fili spinati. Ma è anche il racconto di un’avanzata irrefrenabile nel mondo di domani di sogni legittimi. Sogni che farebbero bene anche a noi, “abitanti di un mondo in declino“, che “trepidiamo soltanto per la nostra ricchezza“.

Gigi Agnano


Stranieri alle porte di Zygmunt Bauman (trad. Marco Cupellaro, Laterza ed., 2016), di Gigi Agnano

In un’intervista del 2004, Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo nato in Polonia nel 1925 e scomparso nel 2017 in Inghilterra, così riassumeva la ben nota metafora della “liquidità”:

“Oggi tutto è temporaneo. Come i liquidi, la società moderna è caratterizzata dall’incapacità di mantenere la forma. Le nostre istituzioni, strutture, stili di vita, credenze e convinzioni cambiano prima di avere il tempo di solidificarsi in costumi, abitudini e verità”.

Se in un recente passato “solido” i rischi erano noti – si pensi alla Guerra Fredda -, nella modernità “liquida” anche le paure sono “liquide”, ovvero le minacce (inquinamento, cambiamento climatico, globalizzazione, precarietà del lavoro, terrorismo) si percepiscono in maniera più vaga.

In Stranieri alle porte, un saggio breve di poco più di un centinaio di pagine pubblicato nel 2016, ovvero poco prima della sua morte, Bauman sente la necessità di esplorare e di smantellare le paure che derivano dalle migrazioni, ma che sono generate in primis e ad arte dalla politica. Il tema era particolarmente sentito in quanto nel 2015 l’Europa, sulla scia delle Primavere Arabe e di un mix esplosivo di conflitti e di crisi economica, stava attraversando quella che veniva considerata la più importante crisi migratoria dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, con l’ingresso di circa un milione di immigrati irregolari.

“Telegiornali, quotidiani, discorsi politici, tweet – avvezzi a offrire temi e sbocchi alle ansie e alle paure pubbliche – non parlano d’altro oggi che della “crisi migratoria” che travolgerebbe l’Europa, preannunciando il collasso e la fine dello stile di vita che conosciamo, conduciamo e amiamo”

Questa paura, che Bauman chiama “panico da migrazione”, genera indifferenza e cecità morale e l’opinione pubblica, pensando anche di fare il proprio interesse, smette progressivamente di provare compassione per la tragedia dei profughi. E l’Europa, a sfregio delle proprie tradizioni illuministiche e di cosmopolitismo kantiano, assume atteggiamenti apertamente o ipocritamente ostili, confortati dai successi elettorali di partiti e movimenti razzisti che agitano fanaticamente la bandiera dell’interesse nazionale (“la Francia ai francesi”, “prima gli italiani”, ecc..).

Ma innanzitutto Bauman osserva che le migrazioni e i rifugiati non sono una novità nella storia dell’Europa:

“E’ dall’inizio della modernità che profughi in fuga dalla bestialità delle guerre e dei dispotismi o dalla ferocia di una vita la cui unica prospettiva è la fame bussano alla porta di altri popoli: e per chi vive dietro quella porta i profughi sono sempre stati (come lo sono oggi) stranieri.”

E gli stranieri, proprio perché “strani”, sono ospiti indesiderati, sconosciuti in quanto estranei. E spaventosi perché diversi e imprevedibili: potrebbero essere proprio loro, gli sfollati provenienti da altri angoli del mondo a sconvolgere le nostre abitudini di vita. Questa xenofobia, alimentata dall’isteria dei media, viene sfruttata spudoratamente dai politici in particolar modo tra individui vulnerabili e tra quelle masse crescenti della popolazione che si sentono progressivamente escluse dal benessere sociale.

Le sole politiche proposte e considerate accettabili sono quelle che tendono a segregare e tenere a distanza gli stranieri. I governi dei vari Stati europei, e più in generale occidentali, anziché trovare ricette per alleggerire le preoccupazioni economiche dei “propri” cittadini, invece di creare ponti e favorire il dialogo, promuovono l’immagine di uno Stato che protegge dall’invasione straniera. Identificano cioè la migrazione con un problema di sicurezza, la qual cosa peraltro finisce per favorire la propaganda dei gruppi terroristici su persone emarginate, alienate, che cercano una qualche forma di vendetta. Bauman evidenzia infatti come l’esclusione sociale sia la causa principale della radicalizzazione dei giovani musulmani nell’unione europea, a fronte della quale occorrerebbe il massimo impegno in termini di investimenti che favoriscano l’inclusione e l’integrazione.

In buona sostanza, per Bauman una risposta valida non è la separazione, ma la connessione; non i muri e i centri di detenzione, ma il dialogo, la convivenza pacifica e reciprocamente vantaggiosa, cooperativa e solidale. Pare proprio che non ci sia alcuna alternativa praticabile:

“… dobbiamo andare in cerca di occasioni di incontro ravvicinato e di contatto sempre più approfondito, sperando di arrivare in tal modo a una fusione di orizzonti […]. L’umanità è in crisi: e da questa crisi non c’è altra via di uscita che la solidarietà tra gli uomini”

Gigi Agnano