20 giugno – Giornata Mondiale del Rifugiato, di Gigi Agnano (grafica di Anna Di Rosa)

“Rifugiato: sostantivo maschile, persona che ha trovato rifugio in luogo sicuro; part., individuo che, in seguito alle vicende del proprio paese, ha ottenuto asilo politico in un paese straniero.” 

Più brevemente, “rifugiato” fa pensare a uno che in qualche modo ce l’ha fatta, nel senso che respira. Respira a dispetto dei vari decreti “Sicurezza” o “Cutro” che i nostri fantasiosi politici si affannano ad introdurre nel sistema normativo italiano per ridurre protezione ed accoglienza. 

Chi invece non ce l’ha fatta sono gli oltre 28.000 migranti che hanno perso la vita nel Mediterraneo dal 2013 al 2023 (di questi, 22.300 lungo la rotta del Mediterraneo centrale). 

Chi non ce l’ha fatta sono le “decine” di migranti “dispersi” – pare fossero 66, di cui 26 bambini – che erano sulla barca a vela che si è ribaltata lunedì al largo delle coste calabresi. 

Chi non ce l’ha fatta sono il papà e la mamma della tredicenne superstite che i genitori li ha visti morire tra le onde.

E non ce l’ha fatta Satnam Singh, il lavoratore indiano, che sempre lunedì, nei campi vicino Latina, è stato schiacciato da un macchinario che gli ha tranciato il braccio destro e le gambe. Singh lavorava da due anni senza contratto e pare che dopo l’incidente sia stato abbandonato ancora vivo davanti casa con il braccio tagliato in una cassetta per la raccolta degli ortaggi. E’ morto dopo due giorni di agonia, non ce l’ha fatta.

Abbiamo un’umanità che annega vicino casa nostra, che muore di botte e di sevizie un po’ più in là in Libia, in Tunisia, in Turchia, o di stenti nel Sahara. Che quando arriva, se arriva, viene sfruttata come neanche le bestie meriterebbero.

Abbiamo miliardate di soldi pubblici italiani ed europei, cioè nostri, che vengono spese perché l’umanità muoia. 

In questo mare magnum c’è, a titolo d’esempio, il simpatico accordo con l’Albania che ha un costo previsto (e sottolineerei “previsto”) di 653 milioni, di cui 252 per le spese di trasferta dei funzionari ministeriali. Soldi nostri perché l’umanità muoia.

Oggi, 20 giugno, è la “Giornata mondiale del Rifugiato”. Noi del Randagio vogliamo celebrarla perché ogni essere umano abbia diritto a sperare e sognare.

Gigi Agnano

Un fatterello algerino, di Gigi Agnano

Prometto di non parlare qui del mio viaggetto perché i racconti di viaggio bisogna saperli scrivere e io non ho questa dote. Però, se vi va di seguirmi, un fatterello vorrei provare a dirvelo.

Sono stato per una decina di giorni con un amico e cinque Tuareg in quel triangolo del Sahara a Sud Est dell’Algeria, al confine a meridione col Niger e con la Libia a levante. Una spettacolare e immensa distesa di sabbia tra le alture dell’Hoggar (circa 50 mila kmq) e i 500 km di altopiano di roccia arida del Tassili.

Potremmo chiamarla la via della sete, dove le temperature arrivano anche a 55-58 gradi di giorno per scendere di notte anche sotto lo zero. Di giorno la pelle ti brucia sotto al sole e di notte a me è capitato anche di tremare dal freddo nonostante la tenda, un pullover pesante, il sacco a pelo invernale e un cappello di lana. In tutta l’area, montagne comprese, un ricercatore meticoloso ha contato poco meno di 150 alberi. Il reperimento delle carcasse di tronchi secchi era parte delle nostre attività diurne per poter accendere il fuoco di sera.

In questa zona vanno gli archeologi perché abbondano le pitture e le incisioni rupestri di migliaia di anni fa, ma anche i fossili di pesci, coccodrilli e dinosauri a dimostrazione che, come si sa, in epoche remote c’era l’acqua. A differenza della nostra immagine idealizzata del deserto non ho visto scenografiche carovane di tuareg. Per la verità in dieci giorni non ho visto anima viva, a parte qualche militare in improbabili posti di blocco, dei dromedari al pascolo e dei topolini bianchi minuscoli quasi trasparenti che venivano a trovarci all’ora di cena. Ah, dimenticavo l’incontro con una simpatica vipera interessata alle nostre merende che un driver sollecito ha immediatamente schiacciata con una grossa pietra. Punto. Fine della premessa. Ecco ora la cosa che volevo dire. Tranquilli, sarò brevissimo.

In quest’area, a presidio del confine algerino, sono stati schierati 25 mila soldati. Pare che li manteniamo noi: i soldi – che sono tantissimi – sono quelli dei contribuenti italiani ed europei utilizzati sapientemente per “difenderci” dai migranti. Con questi stanziamenti miliardari abbiamo solo reso a questi disgraziati dell’Africa nera il viaggio verso di noi un tantino più difficile, allungandolo di diverse centinaia di chilometri, un nulla in confronto alle migliaia da percorrere complessivamente. In passato chi arrivava da Sud attraversava questo tratto di terra algerina per entrare in Libia; oggi deve costeggiare il confine in Niger per poi attraversare tutta la Libia destinazione Tripoli. Pare che nessun migrante di fronte a questo sbarramento abbia deciso di tornare indietro. Nessuno ha ritenuto di non dover partire. I più fortunati – leggi i più ricchi, quelli non ancora depredati di tutto – venivano (e vengono) accompagnati dai passeur (l’equivalente sahariano dello scafista mediterraneo) su camion scoperti; i meno fortunati si facevano (e si fanno) una salutare passeggiata al calduccio del sole africano.

Per queste terre un tantino inospitali pare che sappiano orientarsi solo i Tuareg, così ho chiesto a ciascuno dei miei cinque accompagnatori berberi di raccontarmi com’era la situazione da queste parti prima della chiusura delle frontiere col Niger e con la Libia. La risposta di ognuno di loro è stata assai simile a quella di Karim: “si incontravano ogni giorno i cadaveri delle persone che si erano messe in cammino nel deserto o che avevano provato ad attraversare le montagne da soli. A me è capitato di vedere tantissimi morti.” Fine dell’intervista.

Un italiano mediamente informato sa che negli ultimi dieci anni trentamila uomini, donne e bambini siano affogati nel Mediterraneo. Non sa – ma chi lo sa? – quanta povera gente muoia durante il viaggio nelle più svariate rotte sahariane che dall’Africa nera vanno verso la costa. Soprattutto non sa quanto in questi anni l’Europa e l’Italia abbiano speso di soldi nostri per consentire questa barbarie. Soldi che si sarebbero potuti spendere per esempio per l’accoglienza. Magari senza prevederla in Albania. Barbarie che crea risentimenti, odi, distanze che prima o poi pagheremo. I conflitti del Novecento erano conflitti di nazionalismi e hanno determinato sessanta milioni di morti. Oggi assistiamo passivamente ad un conflitto tra continenti. Possibile che non riusciamo minimamente ad immaginarne le conseguenze?

Gigi Agnano

Fratellino di Amets Arzallus Antia e Ibrahim Balde, trad. di Roberta Gozzi (Feltrinelli), di Amedeo Borzillo

Per quanto le storie di migranti e delle traversie subite ci siano ormai tristemente familiari,
leggere questo libro ci fa capire quanto siamo lontani dal comprendere davvero i drammi e
le avversità che migliaia di ragazzi africani si trovano a dover vivere e superare, in una
lotta che non riguarda, come pensiamo, solo la loro sopravvivenza ma investe sentimenti,
costumi, sensibilità e affetti familiari che, pur stravolti, resistono e nella sofferenza
sopravvivono.

“Fratellino” è un libro scritto ad una voce e 2 mani, nel senso che è una vera e propria
dettatura della sua storia di migrante da parte di Ibrahim ad un giornalista basco, Amets
Arzallus Antia, in un linguaggio che diviene un “parlato scritto” che proprio per questo
motivo dona autenticità e fa vivere per davvero, con particolare compenetrazione,
commozione e turbamento la lettura.

L’autore è un giornalista francese di lingua basca, volontario in una associazione di
assistenza migranti, e non a caso scrive poesie, perché questo libro si arricchisce di una
narrazione delicata e profonda di un viaggio dalla Guinea al Mediterraneo con mille tappe,
mille avventure e mille volte il rischio di morire del nostro Ibrahim, alla disperata ricerca del
suo fratellino anche lui partito per il viaggio della speranza. Tutto raccontato facendo
emergere la profonda umanità del protagonista, la sua specificità e ricchezza personale,
che contrasta con la visione corrente che tutti un po’ abbiamo di omologare i migranti
disumanizzandone le specifiche peculiarità.

Ibrahim ci sorprende e commuove per la sua caparbietà nel proseguire un cammino di
migliaia di chilometri, cambiando mille mestieri prima per sopravvivere e giungere oltre il
Mediterraneo per poter aiutare la famiglia, poi alla disperata ricerca del suo fratellino.
Ibrahim è raccontato con le sue parole, in un linguaggio che si arricchisce di termini non
tradotti propri dei dialetti e delle lingue che il colonialismo non è riuscito a cancellare, e per
questo rende più intensa e partecipata la lettura degli incontri di varia umanità che si
succedono nel suo viaggio verso il Mediterraneo.

Violenza ma anche aiuto, sopraffazione ma anche solidarietà, torture ma anche
accoglienza, si susseguono nelle numerose tappe che per mesi rallentano il percorso di
avvicinamento al mare ed al riscatto del sogno di un lavoro da camionista che possa
aiutare quel che resta della sua famiglia.

Ibrahim ci racconta quindi ,della sua giovinezza negata con la determinazione di un adulto,
o se vogliamo di un ragazzino assunto la ruolo di capofamiglia che sente e vive la
responsabilità con una forza interiore che proviene dalla nostalgia e dall’affetto per la sua
famiglia.

L’autore Amets Arzallus Antia ha il merito di averla raccontata “insieme” a Ibrahim,
donando alla sua storia poesia e sentimento.

Amedeo Borzillo

La tragedia di Cutro tra “pull” e “push” factor, di Paolo Di Giannantonio

Quanto è avvenuto lo scorso anno sulla spiaggia di Steccato di Cutro col naufragio del caicco “Summer Love”, proveniente dalla Turchia con a bordo 180 vite umane, è relativamente facile da tracciare, basandosi sulla agghiacciante essenzialità dei numeri: 94 morti, dei quali 35 minori, alcuni dispersi; due inchieste della Procura di Crotone che riguardano la prima l’identificazione e le responsabilità degli scafisti e la seconda quello che non ha funzionato nel dispositivo di sorveglianza delle coste, con un imbarazzante rimpallo di responsabilità tra l’agenzia Frontex, Guardia Costiera e Guardia di Finanza italiane. Per ora c’è stata una condanna, a vent’anni, in primo grado, di uno dei quattro accusati di far parte dell’organizzazione.

Al di là del codice penale, però, la discussione, le polemiche e il dolore riguardano il modo in cui il nostro paese ha deciso di affrontare questa emergenza. Il “decreto Cutro” istituzionalizza una visione poliziesca che ribalta quanto era stato pensato ed attuato in un passato ancora abbastanza recente ma ormai percepito come “remoto”. In quel periodo ebbi l’opportunità di seguire una missione di salvataggio a bordo della nave “Diciotti” davanti le coste della Libia. In tre giorni trascorsi in mare furono portate in salvo quasi 200 persone. E il clima era di soddisfazione, di fierezza, per aver compiuto una azione eticamente robusta, in linea con i principi e gli ideali di fratellanza che animano il nostro Paese e la nostra Costituzione.

grafica Anna Di Rosa

Oggi è tutto cambiato e sono quasi sicuro che gli uomini in divisa bianca o in divisa grigia non si arrischierebbero ad esprimere entusiasmo per il soccorso ed il salvataggio di disperati che accettano di sfidare il Mediterraneo per regalarsi una chance di vita migliore. C’è timore di passare per “amici degli scafisti”, per “terzomondisti”, per avversari della “linea dura” propugnata dalle autorità di governo.

Meglio rimanere nei porti, per quanto è possibile, meglio applicare le disposizioni alla lettera, meglio non rischiare di fare un passo in più. Credo che questo sia l’atteggiamento che ha causato quella catena di distrazione ed equivoci che ha portato al mancato intervento di salvataggio nelle acque di Calabria. Voglio specificare ancora meglio: molti esponenti politici ritengono che andare a recuperare esseri umani poco al di fuori delle acque territoriali dei paesi del Nordafrica costituisca un “pull factor”, un fattore di attrazione per quei migranti che si trovano sull’altra sponda. Un atteggiamento come quello adottato nel caso di Cutro (ma anche in molte altre occasioni) fungerebbe, invece, da “push factor”, ovvero da fattore di dissuasione. E fa il parallelo con quel “pacchetto” di norme che ha colpito le ong che schierano in mare le loro imbarcazioni: porti di attracco sempre più lontani e possibilità di effettuare un solo salvataggio, pena multe salatissime e sospensione dei periodi di navigazione.

A Cutro, un anno fa, non funzionarono i soccorsi. A Cutro, oggi, non funzionano le promesse fatte un anno fa, specialmente quelle relative ai congiungimenti familiari. E resta una ferita di credibilità che riguarda tutti gli italiani, che debbono essere consci di una quasi, tragica, certezza: ci saranno altre Cutro, ci saranno altri bambini che, come il piccolo siriano Sultan, rischieranno di morire di freddo, in mare o una spiaggia.

Sultan come Aylan. Nomi che si rischia di scordare.

Paolo Di Giannantonio

Ad un anno dalla tragedia di Cutro – il ricordo di Walter Veltroni

E’ passato un anno. Un tempo brevissimo e insieme dilatato dai tanti eventi tragici che si sono susseguiti nel mondo: guerre, conflitti, stragi.

Eppure quei 94 morti annegati sono ancora lì, sulla nostra coscienza di italiani.

grafica Anna Di Rosa

Cosa è accaduto in quella notte tra il 25 e il 26 febbraio del 2023? Una sequenza tragica di errori, omissioni, voglia di non assumersi le responsabilità. A pochi metri dalla riva italiana, a pochi metri dalla salvezza quella nave maledetta, da giorni in balia delle onde, avvistata e dimenticata da tutti naufragò portando con sé 94 persone. Donne bambini, ragazzi, uomini in fuga. Pochi minuti prima della fine dalla carretta partirono le telefonate rassicuranti: “Siamo in Italia, ce l’abbiamo fatta”.

Erano in Italia ma non ce l’avevano fatta. Quei cadaveri in fondo al mare sono stati da subito il segno drammatico di quanto fosse diventata grave la situazione. Non erano i primi migranti a morire in mare, non furono neppure gli ultimi.

Questo nostro Mediterraneo – la culla della civiltà anzi di tutte le civiltà avremmo detto una volta – sta diventando insieme una terribile tomba e un monito.

Da sempre i poeti raccontano di questo spettro: la morte per acqua. Phlebas il fenicio di T.S. Eliot la dice con queste parole:

“Phlebas il Fenicio, da quindici giorni morto,

Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare,

E il profitto e la perdita. Una corrente sottomarina

Gli spolpò l’ossa in sussurri. Come affiorava e affondava

Passò attraverso gli stadi della maturítà e della giovinezza

Procedendo del vortice.

Gentile o Giudeo

O tu che giri la ruota e guardi sopravvento

Considera Phlebas, che un tempo fu bello e alto come te”.

grafica Anna Di Rosa

Questi nostri moderni “fenici” (da lì venivano i morti di Cutro) ci chiedono di più che guardarli. Ma io temo che in molti invece, voltino lo sguardo dall’altra parte.

Walter Veltroni