Breve riflessione a caldo leggendo Krasznahorkai e guardando la balena di Tarr, di Mariarosaria Sciglitano

C’era aria di Nobel fin dal 2015, quando la critica americana Susan Sontag lo aveva definito “The contemporary Hungarian master of apocalypse”, maestro dell’Apocalisse, dopo aver letto il suo secondo libro, Melancolia della resistenza, e dopo che lo scrittore ungherese era stato insignito del prestigioso Man Booker International Prize. I nomi ungheresi che ritroviamo puntuali ogni anno sono, appunto, quello di László Krasznahorkai e quello, assolutamente non meno meritevole, di Péter Nádas, anche lui leggibile in lingua italiana.

In occasione del conferimento del Nobel la sua casa editrice ungherese, la storica Magvető, sui social ripubblica un post del 2024: «Quest’anno la Magvető è piena di anniversari importanti, rotondi […]: la casa editrice compie 70 anni, Péter Esterházy è nato 75 anni fa […] Esattamente 40 anni fa, il 10 aprile 1985, veniva pubblicato il primo romanzo di László Krasznahorkai: Sátántangó. I tesori gelosamente custoditi del nostro archivio editoriale sono i cataloghi in cui i colleghi di un tempo registravano i dettagli delle prime pubblicazioni. […] Sátántangó è ormai diventato un classico, un’opera fondamentale senza la quale la cultura ungherese, così come la letteratura mondiale, sono impensabili e inimmaginabili”, scrive János Szegő, editor della casa editrice. 

L’allora curatrice, Mária Zsámboki, a cui si deve in assoluto il primo tentativo di interpretazione, annotava: «Leggiamo il primo, avvincente romanzo di uno scrittore con un umorismo pungente, una visione sofisticata e profonda, uno stile sfumato e raffinato: un libro che ci presenta le vicissitudini del destino in una forma matura e chiara».

Ma in Italia László Krasznahorkai non si presenta con Satantango (trad. di Dóra Várnai, Bompiani, 2016), bensì con Melancolia della resistenza (trad. di Dora Mészáros e Bruno Ventavoli, Zandonai, 2013) grazie alla brillante intuizione dell’editor Giuliano Geri, poco prima che la casa editrice in questione, purtroppo, chiudesse i battenti.

Ed è proprio su questo suo secondo libro che si basa una delle più fortunate collaborazioni tra lo scrittore e il regista, parimenti ungherese, Béla Tarr, ospitato nel 2024 a Napoli nell’ambito del Maggio dei Monumenti con un workshop, una bellissima rassegna integrale e tante iniziative a lui dedicate. Parliamo de Le armonie di Werckmeister (2000), che ho avuto l’onore di tradurre lavorando fianco a fianco con il regista, che ascoltava scrupolosamente risuonare i dialoghi in italiano. 

Le atmosfere rarefatte, quelle comunità ai limiti dell’umano, ai margini del mondo, in prospettive temporali sospese, le attese infinite, che ricordano il tempo in Dino Buzzati, dei libri di Krasznahorkai, lo hanno forse troppo spesso incastrato nella definizione di “apocalittico”. Ma l’autore ha più volte ribadito nelle sue interviste che l’Apocalisse è la normale condizione del mondo, è il suo stato ordinario.

L’opera di Krasznahorkai viene abitualmente considerata come un unico, lungo arco narrativo che parte dall’implosione del villaggio e della sua comunità e procede verso aperture cosmiche, prende il via dal senso della fine del mondo e si eleva fino alla trascendenza. E, sebbene ogni sua opera affronti il caos e l’ordine da prospettive diverse, ci riporta sempre alla stessa consapevolezza: oltre i confini del linguaggio, dell’esperienza umana e della comprensione, c’è qualcosa che ci attende e che non possiamo più controllare. 

Nota positiva: mentre per il primo premio Nobel alla letteratura ungherese, Imre Kertész (2022), l’editoria italiana era stata colta alla sprovvista e in italiano c’era solo un titolo, Essere senza destino (trad. di Barbara Griffini dal tedesco, Feltrinelli 1999), con Krasznahorkai si è organizzata per tempo, tant’è che dopo Zandonai e Melancolia della resistenza, Bompiani ha regolarmente pubblicato le sue opere.

Mariarosaria Sciglitano*

László Krasznahorkai e Mariarosaria Sciglitano. Foto di Katalin Kismartoni scattata a Budapest, presso la sede della MTA – Accademia Ungherese delle Scienze.

*Mariarosaria Sciglitano: ha ottenuto la cittadinanza ungherese per chiari meriti. Traduttrice, giornalista, PhD in letteratura comparata, ha tenuto corsi di letteratura italiana contemporanea e di traduzione letteraria dall’ungherese all’Università ELTE di Budapest. Ha insegnato italiano come lettrice madrelingua all’Università Corvinus di Budapest per circa un trentennio; ha svolto corsi di lingua italiana livello avanzato all’Istituto Italiano di Cultura per l’Ungheria per un ventennio.
È stata docente a contratto all’Università di Firenze e cultrice della materia (Letteratura ungherese) all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale.
Membro della Federazione Nazionale dei Giornalisti Ungheresi (MÚOSZ) dal 1995, collabora con media italiani (la Repubblica, il Manifesto, il Sole 24 Ore, RAI, Radio Popolare, Radio Mir) e ungheresi (ÉS, HVG, MTI, TV2, Magyar Rádió) occupandosi di cultura.
È stata giornalista accreditata presso il Ministero degli Esteri d’Ungheria per Radio Rai, Rassegna sindacale e Il Manifesto.
Svolge attività di consulenza per la traduzione letteraria dall’ungherese all’italiano presso l’Istituto Balassi, e continua a svolgerla presso il Petőfi Literary Fund. Collabora come consulente madrelingua per l’Italianistica con l’Ufficio Scolastico Nazionale – Oktatási Hivatal.
Traduce per editori come Garzanti, Feltrinelli, Bompiani, Il Saggiatore, Marsilio, Marietti, Neri Pozza, Hopefulmonster e altri sia italiani sia stranieri, conseguendo il riconoscimento per la traduzione “Frankfurt ’99”, nel 1997; il premio Déry Tibor per la sua attività di traduttrice nel 2018; il premio MIBACT – Fondo per il potenziamento della cultura e della lingua italiana all’estero nel 2020. Tra gli autori tradotti, il premio Nobel della letteratura ungherese Imre Kertész.
Ha curato la traduzione dall’ungherese e dall’inglese all’italiano di numerose sceneggiature letterarie e la sottotitolazione dei relativi film, nonché di opere teatrali.
Svolge regolarmente lavori editoriali di revisione, correzione, editing.

Krisztina Tóth: “Gli occhi della scimmia” (Voland, trad. Mariarosaria Sciglitano), di Vincenzo Vacca

Il libro di Krisztina Tóth “Gli occhi della scimmia”, tradotto da Mariarosaria Sciglitano, è da considerare una opera letteraria capace di scavare nel destino delle persone che vivono sotto la cappa dei regimi autocratici. 

Può apparire distopico, ma, in realtà, il contenuto del libro rispecchia, in tutto o in parte, una concreta situazione in cui vivono già diversi popoli sotto la cappa asfittica di regimi tirannici che, non solo negano i diritti fondamentali dei cittadini, ma controllano con ogni mezzo le vite private delle persone con lo scopo di soffocare sul nascere qualsiasi comportamento che, in qualche modo,  possa generare delle forme di ribellione o di semplice dissenso nei confronti del regime autoritario.

Nel libro si ipotizza che nel Paese in cui si racconta la storia – senza precisare né il nome, né il periodo e questo lo rende ancora più profetico – sia avvenuta una guerra civile che si è conclusa con l’ avvento di un sistema politico dispotico. 

Questo, naturalmente, ha effetti anche sulla vita quotidiana di tutti gli abitanti che saranno indotti in modo diretto o indiretto a badare esclusivamente alle piccole incombenze delle loro esistenze, al ménage famigliare e a come conservare il proprio lavoro. 

Infatti, una protagonista del libro a un certo punto dice: “…Del mio lavoro all’ università,  è brutto a dirsi ma è così,  mi vergognavo alquanto. Imbottivamo le teste degli studenti di menzogne, nella migliore delle ipotesi di mezze verità,  inorridivamo se qualche volta ci facevano delle domande.  Non sapevamo mai se ci stessero davvero chiedendo qualcosa o se si trattasse solo di una provocazione…”.

È il caso di evidenziare che, tra gli  esiti  della menzionata guerra civile, emerge una esasperata diseguaglianza sociale tale che coloro che fanno parte dei ceti poveri vengono confinati in  zone del Paese circoscritte con l’ unica preoccupazione che entrino il meno possibile in contatto con i componenti dei ceti privilegiati. Una diseguaglianza sociale codificata, ritenuta insormontabile, data una volta per tutte.

Uno dei protagonisti principali del libro è un certo dottor Kreutzer, psichiatra, che tiene quotidiane sedute psicoanalitiche, ma il vero scopo di tali sedute non è quello di guarire i pazienti. Il vero scopo è un altro e lo scoprirà il lettore. 

Inoltre, Kreutzer è una persona afflitta da una serie di ossessioni che vengono meravigliosamente e terribilmente raccontate dall’ autrice con qualche punta di ironia. Sì, anche di ironia perché il libro ha il pregio di una sua scorrevolezza, senza perdere una acuta finezza letteraria.

Sono davvero esilaranti le modalità con le quali la scrittrice descrive i rapporti tra il dottor Kreutzer e la sua famiglia, in particolare con la moglie, restituendo al lettore un idealtipo di una persona che fa parte dell’ ingranaggio tirannico a cui si è già accennato. 

Ma un aspetto del libro che va particolarmente sottolineato è il fatto che l’ autrice sia riuscita a raccontare come anche persone non esattamente in cima alla scala sociale, grazie a un abile intreccio di omertà e sottili ricatti creati astutamente dal regime, si rendono complici di ingiuste e illegali azioni che tornano utili alla costruzione di un consenso di massa.

Infatti, basti pensare che a un certo punto una donna che lavora in un ospedale afferma: “…La maggior parte delle volte portavano giù i pazienti nell’ ufficio dell’ interrato per fargli firmare vari documenti. Bisognava provvedere quando erano ancora fisicamente in grado di farlo, vale a dire quando gli si poteva ancora mettere in mano una penna…la maggior parte di chi scriveva le dediche redigeva una lunga e dettagliata confessione dei crimini commessi durante la guerra civile, risarcendo spontaneamente lo Stato con la cessione di beni mobili e immobili…”.

Non manca l’ indicazione degli effetti di una certa campagna sovranista, così egemone di questi tempi, a tal punto che una donna dice (al lettore il compito di scoprire chi): “…c’erano alcune parole che la signora… era in grado di pronunciare solo con voce strozzata o accompagnandole con determinati gesti e mimica. Una di queste era la parola “straniero”. Quando in un dato contesto capitava questo termine, lei abbassava la voce e pronunciava la parola in modo sommesso, con prudenza, come un monaco medievale il nome di Satana, quasi a temere che al proferirla la persona potesse materializzarsi là, nel soggiorno…”.

La Tóth riesce a far percepire al lettore anche un tipico clima dei regimi assolutistici facendo riferimento a una certa entità, superiore a tutto e a tutti, che per l’intero libro viene indicata solo con un acronimo: “GUN”. E solo alla fine del libro viene svelato (anche questo lo scoprirà il lettore proseguendo la lettura). Può sembrare una cosa di poco conto, invece, a parere del sottoscritto, questo artificio letterario, considerato il contesto, rende l’intera narrazione ancora più immersa in una realtà sinistra, fortemente foriera di angoscia se non di terrore.

La lettura de “Gli occhi della scimmia” è stimolante. Ci pone di fronte a gravi domande sul presente e sul futuro prossimo. Ci fa assaporare cosa possono diventare, e in parte già sono diventate, le nostre vite in un contesto sociale e politico opprimente.

Vincenzo Vacca

Miklós Mészöly: “La morte dell’atleta” (Hopefulmonster, trad. Mariarosaria Sciglitano), di Vincenzo Vacca

Miklós Mészöly (1921 – 2001) è stato un importante scrittore ungherese che ha segnato significativamente la narrativa internazionale e non solo quella ungherese. Non a caso è stato considerato dalla generazione successiva di scrittori uno dei più importanti maestri. 

Egli ha sempre gelosamente conservato una indipendenza intellettuale dal regime comunista. Ha fatto parte di quella generazione che visse in giovane età la Seconda guerra mondiale e la variante ungherese dello stalinismo, subendo a lungo la censura. Fu relegato al margine e costretto alla situazione forzata di dover coltivare generi letterari di sussistenza. 

Ma questo non gli ha impedito di scrivere degli autentici capolavori, tra cui “La morte dell’ atleta”. In realtà, Mészöly giunse tardi a costruirsi un nome, solo negli anni sessanta. Tra l’ altro, di lui fu molto apprezzato il fatto che, come già accennato, non scese mai ad imbarazzanti compromessi con il regime comunista nemmeno dopo il 1956.

Il romanzo di cui sto scrivendo (tradotto da Mariarosaria Sciglitano), terminato nel 1961, vide le stampe solo nel 1966 e soltanto perché era stato già pubblicato in francese. 

Questo convinse le autorità ungheresi che sarebbe stato più un danno vietarne la pubblicazione che permetterla.

Alla fine, il libro risulta tradotto in ben dieci Paesi.

Il libro racconta della morte di un famoso atleta avvenuta in circostanze misteriose. Una morte preceduta da eventi strani che contribuiscono, ed è una caratteristica dell’ intero libro, a creare una atmosfera satura di ambiguità che dà al lettore la precisa sensazione che di tutto quello che si dicono i protagonisti, in realtà, c’è sempre qualcosa che non viene fino in fondo esplicitato. 

A questo proposito, è il caso di precisare che la storia è parte integrante di un soffocante clima postbellico sfociato in una dittatura.

Pertanto, si rendono protagonisti anche coloro che leggono il libro. Li si invita, implicitamente, a immaginare cosa c’è dietro al non detto.

La voce narrante del libro è Hildi, la compagna innamorata di Bálint Őze, il corridore che viene trovato morto e del quale Hildi ripercorre tutta la sua vita anche nel disperato tentativo, nel raccontarla, di scoprire le circostanze vere che hanno causato la morte.

Hildi, infatti, è stata incaricata da una casa editrice di scrivere un mémoire e anche nelle modalità di questo incarico traspaiono delle zone d’ombra, delle reticenze da parte di chi affida questo compito letterario.

Hildi dimostra fin dall’ inizio di avere una ammirabile capacità di comprensione dell’ altro conquistando il lettore. Lei dice: “…questo non è ancora il libro che vorrei scrivere su di lui. È piuttosto una raccolta dati esitante per conoscere finalmente colui con il quale ho convissuto dieci anni… gli uomini non si staccano mai definitivamente da un periodo della loro vita o da un altro. Si portano dietro tutto come se per qualche motivo ne dovessero aver bisogno di continuo…”

Il testo, a conferma di ciò, restituisce al lettore una giustapposizione di diversi piani temporali costruita anche in modo inquietante.

Un testo non lineare che decostruisce e ricostruisce, nel senso che offre una storia senza preamboli, senza un inizio, uno sviluppo e una conclusione, un vero e proprio smantellamento della forma narrativa unitaria. 

Anche qui sta la genialità dello scrittore in questo libro, nella sua capacità di scrivere l’ essenziale accettando la frammentarietà e l’ oscurità che ne consegue.

La lettura consente di entrare in pieno nel contesto ambientale descritto, senza alcun infingimento. Fa assaporare, non facendo sconti di sorta e non sconfinando nella retorica, l’ assetto pumbleo e asfittico in cui vivono i protagonisti del romanzo. 

Credo che questa scelta stilistica sia dipesa molto dal rifiuto del cosiddetto realismo socialista che voleva dettare le scelte artistiche e che ha dominato per tanti anni l’ Ungheria.

Parte fondamentale del libro è il gruppo di amici di Bálint. Una amicizia nata da quando erano poco più che bambini, la cui natura e intensità furono tali da aver segnato in modo significativo quello che diventerà un famoso atleta.

Amici accomunati da un imprescindibile desiderio: raggiungere un primato nella vita, ma questo, paradossalmente, fece maturare in Bálint un carattere solitario. 

Un corridore di successo che era sostanzialmente un uomo che affrontava senza riguardi le domande fondamentali della vita. 

Infatti, era una persona che non si crogiolava nel successo sportivo ottenuto, mantenendo uno sguardo sui rapporti interpersonali e sull’ ambiente sociale che questo generava.

Una persona che aspirava alla purezza, se non addirittura all’ assoluto e, conseguenzialmente, cozzava con le impurità degli esseri umani che incontrava.

Lo stile di scrittura affascinante e coinvolgente di Mészöly è tale che non tratteggia lo stato d’animo, l’ umore di un personaggio, bensì lo scrittore lo proietta sull’ ambiente circostante e, mediante questa modalità di narrazione, il personaggio viene caratterizzato indirettamente dalla descrizione di ciò che si vede confermando, quindi, che ci si affida alla capacità interpretativa del lettore.

Leggere “La morte dell’ atleta” diventa una imperdibile occasione per riscoprire Miklós Mészöly. Temo che in Italia sia per lo più sconosciuto. 

È un vero peccato, perché dalla lettura di questo libro si percepisce nettamente la sua grandezza letteraria e aver impedito da parte del regime ungherese dell’ epoca la libera espressione artistica di Mészöly per molti anni ha sottratto a tutti i suoi lettori, per tutto quel periodo, di nutrirsi di un pezzo importante della letteratura mondiale. 

È giunto il tempo di recuperare anche perché, a mio avviso, se si tiene conto del rapporto tra passato e presente, “La morte dell’ atleta ” può fornirci altresì qualche elemento di riflessione sulla odierna illiberale situazione ungherese.

Vincenzo Vacca