Poesia in danza, di Serena Cirillo

Pensare che una coreografia sia scaturita da poesia contemporanea è commovente, ancor più quando si comprendono le tematiche per esperienza vissuta, per radici comuni e per il richiamo ancestrale della propria terra, lo stesso che ha ispirato il poeta Vittorio Bodini e il coreografo Fredy Franzutti, direttore del Balletto del Sud. Leccese, da sempre attento alla cultura e alle tradizioni della sua terra e, più in generale, del suo Sud, ha portato in scena la creazione più fortemente intrisa dell’humus delle sue origini. 

Si tratta della coreografia “La luna dei Borboni”, ispirata dall’omonima raccolta di poesie, pubblicata nel 1952, del grande scrittore, traduttore, giornalista, poeta Vittorio Bodini, suo conterraneo e fondatore, nel 1932, del “Futurblocco leccese”, vivace movimento futurista locale. La poesia di Bodini parla, in modo struggente e appassionato, di un Sud immobile, indifferente persino all’unità d’Italia, incatenato ai suoi riti e tradizioni, coraggioso nel suo dolore e tenace nella speranza. Un Sud in cui i riti pagani si mescolano e si fondono con una cristianità severa che permea il contesto sociale e condiziona la vita quotidiana. La continua attrazione tematica del sud e la dimensione memoriale allontanano Bodini dall’oscuro ermetismo post guerra, avvicinandolo ad una struttura in versi più vicina alla testimonianza.

Ma l’estremo lembo di terra nel quale il poeta ha vissuto gran parte della sua esistenza, è anche tema denso di tristi riflessioni e di dolori esistenziali lancinanti “Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese, / così sgradito da doverti amare; / lento piano dove la luce pare / di carne cruda / e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno.” Supremo cantore di un sud mitico, ancestrale, ma, nel contempo, limitante e castrante, uno dei più rappresentativi di quella linea meridionale che da molti critici è stata definita una delle intuizioni più suggestive del nostro secondo novecento letterario.

Vittorio Bodini

Ciò che caratterizza la poesia, e più in generale il pensiero di Bodini, è la sua concezione del Sud, con mille contraddizioni, le tante difficoltà, i molteplici limiti, ma anche con l’irresistibile fascino ed il fortissimo richiamo; una sorta di attrazione-avversione, di odi et amo, una denuncia tanto sincera quanto dolorosa della situazione del Sud e della sua gente. E’ una poesia dai forti contrasti, e in ogni verso il poeta mostra l’ambivalenza nei confronti della sua terra e racconta il suo Sud metafisicamente sospeso in una tristezza schiacciata dal tempo che sembra essersi fermato.

“La luna dei Borboni 

Col suo viso sfregiato tornerà 

Sulle case di tufo, sui balconi.

Sbigottiranno il gufo delle Scalze

E i gerani – la pianta dei cornuti – 

E noi, quieti fantasmi,

discorreremo dell’unità d’Italia”

Le stesse suggestioni vengono evocate dalla coreografia di Franzutti, che tramuta in movimento le parole del poeta e dà loro vita mediante il corpo dei ballerini che la realizzano. Per questa produzione che l’artista ha creato in esclusiva per la sua compagnia,  “Il balletto del Sud”, il Maestro ha usato il linguaggio moderno della danza contemporanea e del teatro-danza.

Lo spettacolo si apre con la voce fuori campo dell’attore Andrea Sirianni, che recita i versi di Bodini e subito trasporta il pubblico nell’atmosfera dell’epoca. Segue il passo a due dei primi ballerini, Nuria Salado Fusté e Matias Iaconianni, che descrive l’amore in tutte le sue fasi, passando dal romanticismo alla sensualità delicata che si fa via via più accentuata. Non mancano le crisi, le riprese e la frattura, l’epilogo finale dal lirismo potente affidato alle capacità drammatiche del collaudato sodalizio tra i due artisti. La forte teatralità, sebbene importante in una produzione del genere, non prende il sopravvento sulle capacità tecniche dei due protagonisti.

Il racconto muto del coro che li circonda narra la vita di un paese del sud, coi suoi rituali, col suo popolo, a volte entusiasta, a volte disperato, segnato da una vita dura che alterna speranza a rassegnazione. I volti parlano, i corpi comunicano al pubblico un caleidoscopio di sentimenti e sensazioni. E’ evidente nei pezzi dei solisti Ovidiu Chitanu e Christopher Vasquez, che ipnotizzano il pubblico con la loro plasticità. I musicisti dell’ensemble “Brancaleone Project”, Giuseppe Spedicato, Rocco Nigro e Giorgio Distante, sono presenti in scena, sullo sfondo, come unico elemento di un allestimento volutamente scarno come scarno era il sud del dopo guerra raccontato dal poeta. La musica, originale, composta per l’occasione da Rocco Nigro e Giuseppe Spedicato per fisarmonica e tromba, riprende le melodie delle feste di piazza dal sapore antico e nostalgico e delle processioni religiose. Ricordando motivi balcanici, ritmati e sensuali, comuni a tanta tradizione del nostro meridione, alternati da brani dall’atmosfera sognante alla maniera di Nino Rota, a suggerire qua e là elementi futuristi (corrente tanto cara a Bodini).

I linguaggi di poesia, teatro e danza, tenuti insieme dalla musica, si rincorrono tra loro, si intrecciano senza mai sovrapporsi e sono complementari, come ad esprimere la complessità della vita, fatta di tanti elementi uniti dalla forza dei sentimenti e della passione.

Serena Cirillo

Serena Cirillo: già consulente per la comunicazione istituzionale al Consolato Americano di Napoli. Giornalista pubblicista, traduttrice, scrittrice, ghost writer. Laureata in lingue e letteratura, specializzata in didattica della lingua italiana agli stranieri. Esperta di letteratura, arte e spettacolo; scrive, anzi narra, di teatro, musica, arti figurative e soprattutto di balletto classico. Ha pubblicato racconti in antologie e ha in cantiere un romanzo ambientato nel mondo della danza. Scrive sulla pagina culturale del quotidiano Cityweek e della rivista Le Sociologie

Lorenzo Marone: Sono tornato per te (Einaudi), di Bernardina Moriconi (foto di Ciro Orlandini)

Se mi fosse dato di descrivere  con una parola “Sono tornato per te”, l’ultimo romanzo di Lorenzo Marone per Einaudi, quella parola sarebbe profondità: la profondità del bene e del male, della saggezza e della fede religiosa di quei semplici che nulla hanno degli umili manzoniani ma che pure comprendono e applicano nella prassi quotidiana, anche in modo inconsapevole, il messaggio di Cristo; e, ancora, la profondità degli affetti – domestici, amicali e soprattutto dell’amore -, la profondità della rabbia e della capacità di resistere e, grazie a questa, di continuare a esistere. 

Tutto questo mi pare, infatti, ottimamente rappresentato attraverso una narrazione ricca di eventi al punto che, come spiega lo stesso autore nella postilla conclusiva, l’opera sembrerebbe contenere  due romanzi scissi, a sé stanti, se non fosse per la brevissima introduzione, in cui incontriamo Cono Trezza, il protagonista, intento a tirare pugni e a schivare quelli dell’avversario in improvvisati e appassionanti incontri di boxe all’interno del Lager nazista in cui si trova prigioniero: una premessa che fa diventare tutta la successiva prima parte del romanzo una lunga analessi, attraverso la quale viene raccontata adolescenza e prima giovinezza di Cono in un paesino di poche case a ridosso del fiume Tanagro, nella zona del Vallo di Diano. Soprattutto, questa parte della narrazione ci mostra in fieri il formarsi di una salda coscienza nutrita di dignità e coraggio che gli derivano in primis dall’esempio domestico e presto anche dall’amore per Serenella, che sarà la motivazione forte a tornare, a non essere sopraffatto nell’inferno del campo in cui il giovane protagonista resta internato per un anno e più e che costituisce incandescente materia narrativa della seconda parte dell’opera.

Un romanzo quindi articolato e che si snoda su due piani tematici distanti eppure consequenziali. Nella parte iniziale lo scrittore napoletano ci trasporta in una realtà rurale e povera della seconda metà degli anni Trenta: un mondo che ricorderebbe un po’ il Verga novelliere, per quei soprannomi più significanti dei nomi di battesimo, per il contatto diretto, costante, a volte affettivo con le bestie che diventano parte della famiglia, per la ruvidità di una esistenza di ristrettezze e di fatica quotidiana subordinata ai cicli atmosferici e alla volontà dei padroni e anche per una certa ineluttabilità della sorte umana cui è difficile scampare: “la storia è un carnaio, a qualcuno va bene e a qualcuno va male, e di tutte le strade percorribili da quella sera Cono imboccò la più disgraziata”. Eppure, in Marone il rapporto con l’ambiente naturale del luogo -i campi, il fiume, l’intero paesaggio che avvolgi con lo sguardo – conserva un tratto se non bucolico certo rigenerante e vivificante, addirittura poetico se cogliamo i rimandi sparsi qui è lì al  Montale di “Meriggiare pallido e assorto”, al Cardarelli di “Autunno”, addirittura al Leopardi della “Quiete dopo la tempesta”:  il tutto, accentuato dal contrasto con la grigia realtà dei tempi in cui gli aspetti più truci del regime trovano modo di affermarsi anche in un piccolo centro di campagna apparentemente lontano dai grandi eventi storici che precipitavano vorticosamente verso la catastrofe.

Nello stesso tempo, proprio in forza di quella permessa iniziale, il lettore non può fare a meno di domandarsi cosa possa accadere al protagonista, quale successione di eventi di lì a poco lo renderanno un prigioniero costretto ad assistere e a sperimentare la ferocia degli aguzzini nazisti.

Ed è in questa successiva sezione del romanzo che Marone conferma una ormai pienamente matura capacità di padroneggiare la materia narrativa. Perché il racconto del viaggio nei treni piombati e quindi l’esistenza, ch’è poi una sopravvivenza, dei prigionieri nel campo tedesco implica per noi lettori l’inevitabile raffronto con le tante (ormai troppe) narrazioni letterarie e cinematografiche che ci parlano dei crimini nazisti. Eppure, giusto per restare nell’ambito letterario più recente, oltre – ma per altri aspetti – al romanzo “Che cosa c’è da ridere” di Federico Baccomo, mi sembra che pochissimi autori siano riusciti al pari di  Marone a trattare con tanta “medietas” argomenti cosi agghiaccianti, senza cedimenti retorici ma con un tratto di esemplare delicatezza e con la capacità di coinvolgere emotivamente il lettore grazie anche alla vividezza dei personaggi che l’autore ci fa incontrare e diventare via via familiari: ciascuno di essi col proprio bagaglio di ricordi rimpianti speranze illusioni e disillusioni ad accompagnarli nella nudità psichica e fisica con cui macerano quel poco di esistenza che giornalmente viene loro concessa dagli aguzzini: è questo il piccolo mondo di amicizie tenaci e disperate che ruota intorno a Cono. E, ancora una volta, è la profondità, questa volta degli affetti nuovi e imprevedibili, a farla da padrona e a fornire a Cono la forza,  di volontà più che fisica, di inventarsi pugile per sopravvivere e per riscattare con l’esultanza momentanea delle vittorie l’orgoglio dei sommersi. 

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.

“Addio a Berlino” di Christopher Isherwood (Adelphi, trad. Laura Noulian) e “Cabaret” nella versione di Arturo Brachetti e Luciano Cannito, di Serena Cirillo

Anche la danza può essere un piacevole ed efficace strumento per avvicinarsi alla letteratura. Aver visto di recente il musical “Cabaret”, ha suscitato la mia curiosità spingendomi a leggere il romanzo da cui prende spunto: “Addio a Berlino” di Christopher Isherwood nella traduzione di Laura Noulian pubblicata da Adelphi.

Si tratta di un racconto autobiografico dello scrittore inglese che nel 1930 si stabilisce a Berlino per viverci un paio d’anni. Si trova improvvisamente a frequentare il “sottobosco” della società berlinese con i suoi personaggi da corte dei miracoli. In cerca di ispirazione, tenta di scrivere un romanzo mentre, per sbarcare il lunario, dà lezioni di inglese a personaggi dell’alta borghesia. La sua esperienza berlinese si traduce in una sorta di bipolarismo: una parte della sua vita si svolge nei salotti borghesi dei suoi clienti, un’altra in compagnia di personaggi strani e ambigui, spesso equivoci, che popolano i bassifondi, i locali da lui frequentati e le pensioni dove alloggia, sempre più modeste man mano che si assottigliano le sue risorse. L’ambiente, i personaggi e le situazioni sono descritti con un realismo a tratti angosciante. Le situazioni tragiche vengono trattate con ironia e apparente leggerezza; i temi sociali e politici sono appena accennati, proprio per non far perdere all’opera il suo carattere di romanzo di formazione. Il senso di decadenza e di precarietà si respira ovunque: sia presso la famiglia della classe operaia che gli affitta una camera del proprio appartamento per arrotondare, assillata dai debiti e dalla vita di espedienti ai limiti della legalità che conducono i figli, sia nell’ambiente altolocato in cui transita, in cui sono tutti angosciati dalla pericolosa piega che sta prendendo la scena politica nazionale. Il triste presagio di una guerra imminente si fa sempre più concreto, avvalorato dalle varie manifestazioni di protesta a sfondo politico da parte dei nazisti o dei comunisti, o, peggio ancora dalle rappresaglie antisemite. Così l’autore si aggira tra ladruncoli, faccendieri, prostitute e protettori, truffatori di tutti i livelli e nazionalità, ma anche tra umili e onesti lavoratori, mantenendo sempre lo stesso atteggiamento di osservatore esterno super partes, che si rivelerà completamente alla fine, quando tornerà nel suo paese subito prima dello scoppio della guerra per evitare di esserne coinvolto.

La prosa è scorrevole, fluida, asciutta ma attenta ai dettagli e ad ogni minimo particolare. Lo stile moderno si rispecchia nella forma e nei contenuti, innovativi e a tratti persino scandalosi per l’epoca. Il lessico è infarcito di neologismi e colloquialismi, la storia di Sally, la co-protagonista, è quella di una ragazza di facili costumi e degli uomini lascivi a cui si accompagna nella speranza di fare carriera nel mondo dello spettacolo. L’atteggiamento di sfida apertamente anticonformista è tipico delle donne che all’epoca volevano essere emancipate.

Lo spettacolo “Cabaret” nella nuova versione firmata da Arturo Brachetti e Luciano Cannito, è stato strepitoso. Entrato nella storia del teatro e della filmografia internazionale grazie al musical proposto a Broadway e al film di Bob Fosse del 1972 con Liza Minnelli, vincitore di otto Oscar, viene ripresentato nei teatri italiani con un format del tutto originale. La trama ha subito delle variazioni nell’adattamento teatrale, rendendo la sceneggiatura estremamente efficace. La grande novità della versione attuale è la proposta di Arturo Brachetti protagonista nel ruolo di Emcee, presentatore ambiguo e sfrontato del Kit Kat Club. Brachetti, mito vivente della visual performing art, che spazia dal teatro comico al musical ed è considerato il più grande trasformista contemporaneo, diventa maestro di cerimonie del famoso locale berlinese in un’atmosfera di eccessi, decadenza e contraddizioni, in un momento storico in cui l’euforica disperazione del dopo guerra stava per cedere il passo agli orrori della dittatura nazista. Lo spietato presentatore, che strumentalizza la dilagante libertà sessuale e i giochi di potere, altro non è che una metafora della crescente minaccia del terzo Reich. Ruolo drammaticamente attuale espresso in tutta la sua completezza con Brachetti, che interpreta perfettamente il mood contemporaneo e provocatorio, esplorando temi di politica, amore e libertà personale in un’epoca di grande incertezza. Con lui condivide la scena Diana Del Bufalo nel ruolo che fu di Liza Minnelli: la ragazza di facili costumi, soubrette che nel musical vive con lo scrittore (americano nella trasposizione teatrale) una relazione destinata poi a diventare una grande storia d’amore. La cantante dà un’interpretazione tutta sua al personaggio di Sally, incantando il pubblico con la sua voce straordinaria e la sua imponente presenza scenica. Nel cast ottimi cantanti, attori e ballerini. Ognuno di essi ha dato un tocco particolare al suo personaggio mantenendo un perfetto equilibrio tra comicità e tragedia, tra l’ironia e la drammaticità che rimane sempre sullo sfondo, data la delicatissima tematica che Isherwood ha inteso solo tratteggiare nel suo romanzo.

“E’ uno spettacolo di rottura, che può diventare impegnativo, con riferimenti politici sempre presenti” – afferma il Maestro Cannito – “pertanto ho preferito dare spazio alla leggerezza, senza sottolineare la tragicità del contenuto che è comunque evidente”.

Di grande impatto emotivo il finale, evocativo di un momento storico che ha segnato per sempre le sorti dell’umanità. Una trovata geniale che lascia il pubblico senza fiato.

Serena Cirillo

Serena Cirillo: già consulente per la comunicazione istituzionale al Consolato Americano di Napoli. Giornalista pubblicista, traduttrice, scrittrice, ghost writer. Laureata in lingue e letteratura, specializzata in didattica della lingua italiana agli stranieri. Esperta di letteratura, arte e spettacolo; scrive, anzi narra, di teatro, musica, arti figurative e soprattutto di balletto classico. Ha pubblicato racconti in antologie e ha in cantiere un romanzo ambientato nel mondo della danza. Scrive sulla pagina culturale del quotidiano Cityweek e della rivista Le Sociologie

Lorenzo Marone: Il bosco di là (Aboca), di Bernardina Moriconi

Con Il bosco di là, romanzo uscito nel 2021 per i tipi dell’Aboca,  Lorenzo Marone sembra aderire perfettamente al progetto editoriale di far raccontare a scrittori tra i più rappresentativi del panorama attuale una storia partendo dall’ambiente campestre e addirittura da un albero. Lo scrittore napoletano appare infatti a proprio agio nell’immergersi in un universo quasi naturalistico, dove a comunicare e a intessere relazioni sono animali, piante e agenti atmosferici, riprendendo quasi quel percorso di immersione nella natura, nei suoi misteri e nei suoi prodigi, avviato con il suo precedente romanzo La donna degli alberi (Feltrinelli).

Marone con gusto che sembra rimandare al Virgilio bucolico, per quella trasfigurazione dell’ambiente rurale in un luogo mitico e partecipe delle vicende umane, ci racconta una storia senza storia, come quella dei racconti mitologici e fiabeschi. Ma proprio come quelli, i fatti hanno spesso un’origine tutta terrena e umana. La storia del presente, cioè quella di Matteuccia, ormai vecchia e segnata nel corpo e nello spirito, si intreccia continuamente con le vicende che hanno attraversato la sua infanzia e la prima giovinezza: gli anni della guerra e della lotta partigiana, cui la ragazza  aveva dato il suo contributo con l’entusiasmo e l’ingenuità dell’adolescenza, quando la paura non la conosci e per questo più facilmente essa ti agguanta. Matteuccia porta con sé un segreto e un dolore profondo legato a quei tempi e che l’hanno allontanata dal consorzio umano del paese, il quale la considera pazza o stralunata anche per quel mutismo in cui si è chiusa. Il suo mondo di relazioni si è estinto con la morte dei suoi pochi e forti affetti familiari: il padre partigiano, la mamma e i nonni. Ora cerca conforto nel bosco che si trova oltre la valle, il bosco di là, appunto: e in quel breve avverbio di luogo c’è tutto il senso di distacco, separazione e incomprensione della gente pensante e parlante. E’ con le piante che la proteggono, gli animali che la ascoltano e i venti, ora gentili ora tempestosi, che l’accompagnano, che la vecchia Matteuccia intrattiene un dialogo intenso e misterioso. 

Marone con questo breve romanzo offre ai lettori un testo struggente e delicato, andando a scovare con gusto quasi alessandrino miti meno o poco noti, soffermandosi in particolare sul mondo delle ninfe boschive e acquatiche, svelandoci che nell’epoca del consumo rapido ed effimero di modi gusti finanche affetti, il mondo campestre ancora conserva tratti arcaici e durevoli  e che, trovando il suo cantore, anche la realtà attuale può essere narrata in forma di mito: basta allontanarsi di poco, nel bosco di là, e ascoltare le sue voci.

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.

Vincenzina ora lo sa di Maria Rosaria Selo (Rizzoli) di Vincenzo Vacca

Non voglio anticipare troppo del bel libro di Rosi Selo “Vincenzina ora lo sa”. Mi limito a dire che è una straordinaria storia di solidarietà femminile e di appartenenza a un ceto sociale, quello operaio. Lo scenario è quello dell’ Ilva di Bagnoli. Un luogo esistenziale oltre che un mero posto di lavoro. Con la sua nuova fatica letteraria Rosi Selo racconta la dignità del lavoro, ma anche la sua durezza e i danni mortali alla salute di chi ci lavora.

Uno sguardo al femminile del mondo del lavoro in anni di lotte sociali e di sviluppo del movimento femminista. E uno sguardo femminile non può non narrare i sentimenti, le gioie, gli amori, le delusioni, le relazioni belle e terribili tra uomini e donne. Ho trovato il libro avvincente e per nulla nostalgico, capace di attraversare molto bene i personaggi e il momento storico. A me è sembrato di intuire che la trasformazione interiore dei personaggi nel loro rapporto tra loro stessi e con la fabbrica siano stati stati tale che, pure con la cessazione dell’ attività produttiva, diventa preziosa per la costruzione di una vita futura.

 Il romanzo affronta in modo convincente lo scenario sociale anche all’ esterno della fabbrica, in quanto la dialettica sociale, politica all’ interno della azienda — potremmo dire la conflittualità sociale organizzata- produce degli effetti importanti anche all’ esterno dell’ Ilva. La presenza plurisecolare della plebe napoletana, un problema che non è stato mai affrontato efficacemente dalle diverse classi dirigenti, ha costituito un forte freno alla creazione di una città partenopea nel solco di una comunità cittadina significativamente integrata in un ordine regolare di una vita pienamente civile. Invece, come ben messo in luce dalla narrazione letteraria di Rosi Selo, la presenza della fabbrica con il suo corredo fatto di dialettica sindacale e politica influenza il territorio circostante, perché non solo il lavoro dà una dignità alla persona che lo esercita e crea una coscienza di diritti e di doveri, ma rappresenta un esempio di vita e di impegno civile per il resto della cittadinanza. 

Rosi Selo con il suo libro, pur essendo un romanzo a tutto tondo, ci parla di una straordinaria pagina di storia di Napoli e dell’ Italia, di un protagonismo operaio e femminile foriero di acquisizione di diritti sociali e civili.

L’ autrice, però,  ci trasmette anche tutti i significativi segnali di una epoca che si stava esaurendo e ne nasceva un’altra.

Leggere “Vincenzina ora lo sa” ci offre uno spaccato storico – sociale di anni formidabili e ci dice molto di cosa siamo diventati, ma il libro può rappresentare un passaggio di testimone tra generazioni diverse. 

Vincenzo Vacca