Gianni Rodari: un manuale per inventare favole per genitori e nonni di scarsa fantasia, di Gigi Agnano

Oggi, 23 ottobre, Gianni Rodari avrebbe compiuto 104 anni. Quel giorno non c’ero. A dire il vero, non c’era neanche mio padre, che sarebbe nato quasi tre anni dopo e che mi avrebbe suggerito di leggerlo. Però ho l’età per ricordarmi di quando Rodari è morto, nella primavera del 1980, e del titolo del Paese Sera: “Abbiamo perso l’amico poeta”. L’articolo era firmato da Mario Lodi, che con Rodari si scambiava infiniti attestati di stima. Anche Lodi era maestro elementare e scrittore. In quella commemorazione, scriveva: “Penso soprattutto ai bambini di scuola che perdono un poeta e uno scrittore che li aveva capiti nel profondo, perché aveva conservato intatta, in un mondo che queste cose distrugge, la fantasia propria dei bambini.

Sempre su Paese Sera, per il quale Rodari scrisse dal ’58 al ’68, nel 1962 uscì in due puntate il “Manuale per inventare favole”, indirizzato a nonni e genitori “di scarsa fantasia”.

Il primo dei metodi suggeriti era quello del “duello di parole”, che sarebbe poi diventato il celebre “binomio fantastico”: “si gettino due parole l’una contro l’altra e si osservino le varie combinazioni”.

Il secondo metodo era quello del “sasso nello stagno”, che consiste nel lanciare una parola e osservare le reazioni, come un sasso che crea cerchi nell’immobilità solo apparente della fantasia.

Il terzo metodo era l’“insalata di favole”, che “consiste nel combinare i personaggi di favole diverse per crearne di nuove, dove l’intreccio nasce dallo scontro delle caratteristiche dei vari personaggi”.

Infine, c’era il metodo del “cosa succederebbe se…”, una tecnica che apre la strada all’immaginazione e alla narrazione creativa.

Ad esempio, Rodari scriveva:

Che cosa succederebbe se la Sicilia cominciasse a navigare? Una mattina, gli abitanti di Messina, al risveglio, si accorgono che Reggio Calabria, dall’altra parte dello Stretto, si è allontanata di parecchie miglia. La Sicilia ha salpato le ancore, ha spiegato le vele al vento e naviga in direzione di Gibilterra. Allarme geografico-internazionale! Episodio marginale di un ‘ferry boat’ che insegue la Sicilia attraverso il Mediterraneo. Passerà da Gibilterra? Non passerà? E così via.

E ancora:

“Che cosa succederebbe se la Sicilia volasse? O se perdesse tutti i bottoni?” Questo ultimo spunto nasce dall’accostamento casuale tra il soggetto e una domanda presa da un libro. Apparentemente incoerente, ma una facile riduzione al concreto permette di raccontare la storia del giorno in cui, per un magico segnale, tutti i bottoni di tutti i vestiti in Sicilia abbandonarono il loro posto di lavoro. Altri esempi? Che cosa succederebbe se un coccodrillo bussasse alla vostra porta chiedendovi un po’ di rosmarino? O se il vostro ascensore precipitasse al centro della Terra o schizzasse fin sulla Luna? E così via.”

In quei due articoli del ’62 ci sono molti temi poi sviluppati nella Grammatica della fantasia, pubblicata nel ’73 da Einaudi, l’unico saggio di Rodari tra le sue molte opere narrative. In questo saggio, lo scrittore esplora i meccanismi che determinano i processi creativi. A me piace ricordare in particolare il brano sull’errore creativo, quell’errore che genera originalità e diventa un’opportunità d’innovazione.

Rodari scrive:

Da un lapsus può nascere una storia, non è una novità. Se, battendo a macchina un articolo, scrivo ‘Lamponia’ invece di ‘Lapponia’, ecco scoperto un nuovo paese profumato e boschereccio: sarebbe un peccato espellerlo dalle mappe del possibile con una gomma; meglio esplorarlo, da turisti della fantasia. Se un bambino scrive nel suo quaderno ‘l’ago di Garda’, ho la scelta tra correggere l’errore con un segnaccio rosso o blu, o seguire l’ardito suggerimento e scrivere la storia e la geografia di questo ‘ago’ importantissimo, segnato anche nella carta d’Italia. La Luna si specchierà sulla punta o nella cruna? Si pungerà il naso?…”

L’errore creativo ci invita ad accogliere con curiosità l’incertezza e l’imprevisto. Ci ricorda che l’imperfezione, in molti casi, non solo nell’arte, può rappresentare una via verso la scoperta e il cambiamento. Rodari conclude dicendo che, se un tempo reggeva il proverbio “sbagliando s’impara”, oggi bisognerebbe dire “sbagliando s’inventa”. E noi Randagi gli siamo grati anche per questo. 

Gigi Agnano

Intervista a Michele D’Ignazio autore di “Fate i tuoni”, di Cristina Marra

A volte è necessario incresparsi come il mare e diventare tumultuosi come il cielo per evitare l’indifferenza e seminare poesia”.

Con “Fate i tuoni” (Rizzoli)  Michele D’Ignazio torna in libreria e racconta la storia corale di un paesino della Calabria affacciato sul mare che farà incontrare i due giovani protagonisti Murad e Zaira. Col suo stile unico e il suo giocare con le parole l’autore ci invita a scatenare tempesta, a farci sentire e ad allargare le braccia per accogliere come fa il mare quando si lascia raggiungere dai piccoli di tartaruga Caretta Caretta che in questa storia sono un esempio da seguire e un patrimonio da proteggere.  

    

Michele benvenuto su Il Randagio. La prima domanda ti calza a pennello: quanto ti senti un autore randagio?

Tanto. Oltre che scrivere mi piace molto viaggiare. Ho un passato un po’ fricchettone, di viaggi fatti con amici, spendendo poco o quasi nulla. Sono stati un grande insegnamento per me, una palestra di vita, un’inesauribile fonte di ispirazione. Adoro i cani e ogni volta che vedo un randagio ammiro la loro libertà e il loro vivere alla giornata.

La storia di “Fate i tuoni” comincia da un frammento di barca?

Esatto. È un dono che mi hanno fatto alcuni anni fa e io lo considero un amuleto, per due motivi: innanzitutto, osservandolo e toccandolo, è come se mi facesse vedere ciò che è successo su quella barca, come se fossi stato lì, durante il lungo viaggio sul mar Mediterraneo e nei momenti concitati dello sbarco. In secondo luogo, perché mi ha tenuto ancorato a questa storia: a volte me ne allontanavo, seguendo tanti altri progetti, ma quel piccolo frammento di barca mi ricordava che dovevo scrivere questo libro. 

La storia del romanzo rimanda a una celebre frase di Carlo Levi a te cara “Il futuro ha un cuore antico”. Il passato deve servire per costruire bene il futuro? 

Io volevo raccontare una storia bella, così come è stata l’accoglienza degli abitanti di Badolato quando, nel lontano 1997, avevano ospitato nelle case del paese vecchio tantissime persone sbarcate con la nave Ararat. Davanti a ciò che è successo a Cutro rimane un senso di amarezza e rabbia, perché non tutti, purtroppo, hanno avuto il destino felice di Murad, uno dei due protagonisti di “Fate i tuoni”. Non tutti, su quella barca, sono riusciti a raggiungere la costa.

In questi ultimi anni, si sono fatti dei passi indietro e la mia speranza, e uno dei motivi per cui ho scritto il libro, è che si possa tornare a quello spirito solidale e a quella genuinità che hanno ispirato “Fate i tuoni”, rispecchiandosi nelle persone che vivono d’amore, in Calabria, e non solo qui, e che tutti i giorni, lontani dai riflettori, fanno sì che il mondo sia un posto bello e accogliente, un posto dove i bambini possano sorridere e giocare. 

La tua è una storia di terra e di mare?

Sì, c’è un continuo scambio tra il mare e la terra. Vengono lanciate in mare 302 bottiglie con dentro un messaggio e dopo pochi giorni sbarcano 302 persone. Con la schiusa delle uova, 92 piccole tartarughe raggiungono il mare e, dopo pochi attimi, 92 persone raggiungono la costa. Tutto è collegato. Tutto, a suo modo, comunica. Accoglie e restituisce. In un mondo che va troppo di fretta e sembra essere unidirezionale, a volte ce ne dimentichiamo.

Prologo, diviso in tre parti e con Epilogo, il romanzo può considerarsi anche a finale aperto, in progress?

Io amo i finali aperti. Questo in realtà, rispetto ad altri miei libri, lo considero abbastanza compiuto. In ogni caso, non so ancora se ci sarà una continuazione. Non lo sapevo quando ho pubblicato “Storia di una matita”, che poi ha avuto due seguiti. Così come non lo sapevo quando è uscito “Il secondo lavoro di Babbo Natale”, anch’esso poi diventato trilogia. Vedremo…


Sei anche un grande lettore, quali sono i libri che ti hanno segnato e ai quali non rinunceresti mai?

Ce ne sono tantissimi. Forse uno di quelli che mi ha segnato di più è “Martin Eden” di Jack London.
Racconta la vita di Martin Eden, un passato da marinaio, senza aver frequentato mai una scuola, che un giorno legge per caso un libro di poesie. E gli piace, gli piace tanto. E si mette a scrivere. Scrive cose belle, ma vengono rifiutate da ogni editore. Scrive ancora e manda agli editori e viene sempre rifiutato, per lo più perché fuori dagli ambienti letterari. Accumula rifiuti e viene respinto anche dalla ragazza di cui è innamorato. È una vita di rifiuti. Il mondo, tutto il mondo che ha intorno, gli sembra sbagliato, ipocrita. Però la cosa incredibile è che Martin Eden anziché demoralizzarsi, acquista forza da questi rifiuti, sembra che tutte le sfortune gli diano sempre più forza. Si fa in quattro, in otto, lavora come un matto di giorno e scrive senza pause di notte. È stupefacente! Quando lo lessi, intorno ai 24 anni, mi immedesimai totalmente in quel personaggio, vissuto 100 anni prima di me, in California. E ne trassi forza! Mi insegnò il coraggio, a volte l’ostinazione. E la grande fiducia nelle proprie capacità. Infine, per concludere, va detto che ha un finale sconvolgente. Un libro da leggere ancora oggi, soprattutto oggi, in un’epoca in cui spesso si cercano (e vengono esaltate) facili scorciatoie.

A quale dei personaggi che racconti senti di somigliare di più?
Direi a Nik, un’artista che mette la sua arte a disposizione della comunità e che crede in un mondo migliore.


“Fate i tuoni” ha tante parole conchiglia, ne regali una ai lettori de Il randagio?
Le parole-conchiglia sono quelle parole che, a poggiarci l’orecchio, scopri che contiene in sé il suono dolce di un’altra parola. Vi regalo “abbandono”: dentro accoglie la parola “dono”. Quasi una contraddizione! Chi può pensare all’abbandono come a un dono? Eppure il paese vecchio che descrivo nella storia, ormai abbandonato, può essere donato. In qualche modo, può diventare un regalo. Ma per chi?

Cristina Marra

Kestutis Kasparavicius: Storia a strisce, traduzione Adriano Cerri (i Miniborei di Iperborea), di Cristina Marra

Surreale e eccentrico, eppure capace di calarsi nella quotidianità con i suoi acquerelli e le
sue storie intrise di humour con animali umanizzati che insegnano valori e sentimenti, è
questa la grandezza dello scrittore e illustratore lituano Kestutis Kasparavicius.

Autore di oltre sessanta libri di cui quindici tradotti in venticinque lingue, vincitore di premi
internazionali tra cui Illustratore dell’anno dell’Unicef nel 2003, entra nella collana i
Miniborei della casa editrice Iperborea, dedicata ai giovanissimi lettori con l’albo illustrato
Storia a strisce.

La collana di sei uscite annue nata per festeggiare i trent’anni d’attività include grandi voci della narrativa nordeuropea, accompagnate da altrettante eccellenze artistiche e ottime traduzioni che raccontano tematiche come la diversità, il pregiudizio, i sentimenti affrontate da autori quali Ulf Stark, Astrid Lindgren, Selma Lagerlof.

Formato più largo ma con la stessa altezza delle pubblicazioni Iperborea, i libri della collana I
miniborei hanno illustrazioni in bianco e nero o a colori.

“Storia a strisce” è uno spaccato di vita, un episodio della quotidianità vissuta in una famiglia di zebre e in particolar modo dalla piccola di casa.

Protagonista è la piccola Zebrina nata con le strisce e abituata a vederle ovunque.

Una mattina d’estate si reca al mercato con la mamma a fare la spesa, il mercato è così grande che ci si poteva trovare facilmente di tutto, Zebrina attratta dalla quantità di verdure va a curiosare e si perde tra i tavoli e le bancarelle.

“Se per caso ci perdiamo, cerca delle strisce” le aveva raccomandato la madre, eppure Zebrina circondata da strisce sulle cravatte, su calzini, su indumenti non riesce a individuare le strisce della sua mamma.

La ricerca di Zebrina procede nel parco, nella vicina spiaggia dove le strisce abbondano. Ci si somiglia in molti pur essendo di specie diverse , le strisce appartengono a tanti e le ritroviamo su abiti o pellicce.

Il tratto inconfondibile di Kasparavicius, la pienezza dei colori, le illustrazioni a tutta pagine
fanno emergere un’arte fatta di dettagli ben rappresentati, dell’utilizzo di un surrealismo
perfettamente amalgamato con la realtà.

Ma allora anche la musica può essere a strisce? Non serve uniformarsi o cercare i nostri simili ma basta sentirci tutti a strisce, tutti uguali nelle piccole diversità e quindi il quotidiano e la galoppante fantasia si fondono in un racconto che è poesia .

Cristina Marra

Intervista a Antonio Talia autore di  La stagione delle spie – Indagine sugli agenti russi in Italia (Minimum Fax) di Cristina Marra

Antonio Talia, giornalista e scrittore, si occupa di affari esteri e criminalità transnazionale. Ha trascorso 7 anni a Pechino lavorando come corrispondente per un’agenzia di stampa italiana ed è autore di reportage e di storie sul jihadismo in Indonesia, su Singapore, sulle proteste a Hong Kong e sul riciclaggio di denaro tra Europa e Asia. Nel 2012 è uscito I Giorni del Dragone (Informant), un ebook sulla lotta per il potere all’interno del PCC. Per Minimum Fax ha pubblicato nel 2019 Statale 106. Viaggio sulle strade segrete della ‘ndrangheta; nel 2021, Milano sotto Milano. Viaggio nell’economia sommersa di una metropoli. La sua ultima fatica è La stagione delle spie, un reportage sui casi di spionaggio avvenuti in Italia dal 2016 a oggi. Lavora per Radio24_news (Nessun luogo è lontano).

Dopo la fine della Guerra fredda, il numero di spie russe in Italia è aumentato.  Come spieghi questo fenomeno? Da dove inizia la tua indagine per scrivere il libro?

 L’idea del libro è nata da una conversazione con il prefetto Adriano Soi, docente di intelligence all’Università di Firenze, in cui mi raccontava proprio di questo aumento del numero di agenti russi registrato nella nostra intelligence negli ultimi anni. 

Il caso di Walter Biot, il sottufficiale della Marina militare italiana sorpreso a rivendere informazioni riservate ai russi, quello di Frederico Carvalhão Gil, alto funzionario dei servizi d’informazione portoghesi arrestato a Roma in compagnia di un agente russo al quale stava cedendo documenti Nato, oppure ancora la storia di Maria Adela Kuhfeldt-Rivera, agente infiltrata nella base Nato di Napoli, sono solo alcune delle vicende avvenute in Italia negli ultimi anni. Probabilmente il fenomeno si spiega con una serie di fattori storici (l’Italia è sempre stata una potenza dialogante con la Russia) e contingenti (alcuni recenti governi italiani hanno manifestato una certa simpatia per Putin): per questo ho pensato che andasse indagato e raccontato

Chi sono le spie oggi? Perchè si diventa una spia e si arriva anche a tradire il proprio Paese?

Ci sono gli agenti dei servizi d’intelligence, in Italia sono l’Aise e l’Aisi, coordinati dal DIS: quella è gente che fa il proprio mestiere, che consiste nel reperire informazioni da condensare al Presidente del Consiglio in dossier professionali utili per prendere decisioni politiche. E questa è la fisiologia, la normalità dei servizi di informazione di tutto il mondo democratico; anche se siamo abituati comunemente a chiamare “spia” chi fa questo lavoro, si tratta di gente che viene reclutata attraverso percorsi professionali e ha un addestramento di un certo tipo, ma anche una routine e una quotidianità lontana dai film di genere. Si calcola che in Italia ci siano tra i 4mila e i 5mila agenti. Poi ovviamente esiste il momento patologico, ossia quando un agente decide di passare dall’altra parte, e per quanto si tratti di vicende drammatiche, che sottindendono gravissime crisi personali, dal punto di vista del giornalismo narrativo sono le storie più interessanti da raccontare. Si dice che si tradisce per quattro motivi, che sono riassunti nell’acronimo inglese “MICE” (Topini): “Money” (denaro), “Ideology” (ragioni ideologiche), “Coercion” (si viene ricattati) e “Ego” (il caro vecchio ego). Ovviamente queste quattro lettere possono comprendere quasi tutta la tavolozza delle emozioni umane, e forse è questo che rende le storie di spie ancora più affascinanti. 

Che succede quando si intercetta una talpa?

Fonti del mestiere dicono che possono succedere varie cose. La prima è che la talpa viene individuata, messa davanti alle sue responsabilità e poi “riutilizzata” per fornire informazioni false al nemico; sono quelli che chiamano “agenti tripli”. Oppure si può decidere di mandare un chiaro segnale al Paese avversario, è una decisione che spetta alla Presidenza del Consiglio, e allora si allerta l’Autorità Giudiziaria e si arrestano la talpa e l’agente che la gestiva, il cosiddetto “supervisore”. Ultimamente l’Italia ha scelto questa strada in alcuni casi, proprio per mandare un segnale al Paese avversario, nella fattispecie la Russia. 

Roma è la città preferita dai russi, per quale motivo?

Non so se lo è ancora, ma di sicuro è tra le preferite. Ci sono vari fattori; il primo è che a Roma non c’è una sola sede diplomatica presso la quale accreditarsi, ma ce ne sono addirittura tre: se un agente russo (o di altra nazionalità) vuole nascondersi dietro l’immunità diplomatica può accreditarsi presso la Repubblica Italiana, ovviamente, ma anche al Vaticano o alla sede della FAO. Questo ovviamente moltiplica le possibilità di nascondersi. Poi c’è un fattore che ha a che vedere con lo spionaggio vecchio stile, quello che pensavamo sorpassato dalla tecnologia: Roma abbonda di ristoranti e bar affollati con tavoli all’aperto, darsi appuntamento per scambiarsi velocemente dei documenti è molto più semplice che altrove. 

Nella tua ricerca che metodo hai usato e quanti contatti diretti con ex spie hai avuto?

Ho usato un metodo giornalistico rigoroso, sono andato a caccia di documenti aperti e di documenti riservati e poi ho cercato di costruire un andamento narrativo, capace di tenere desta l’attenzione del lettore intrecciando anche le vicende di spionaggio con l’attualità politica internazionale. I contatti sono stati diversi, ma ovviamente bisogna fare sempre del proprio meglio per evitare di innamorarsi della versione fornita dalle fonti e raccontare tutto al lettore in maniera distaccata. 

Che connessione c’è tra alternanza delle fasi politiche e le dinamiche dell’intelligence? 

Il collegamento è diretto: in un ordinamento democratico l’intelligence obbedisce alla politica, le priorità vengono dettate dalla politica, quindi se in una certa fase politica si teme di più, per dire, la minaccia economica a quella del terrorismo, l’intelligence obbedisce e fornisce più informazioni su quei temi. 

Spionaggio tradizionale e cyber, oggi si usano entrambi?

Con i casi Snowden e Assange sembrava che ormai tutte le questioni di intelligence si svolgessero esclusivamente dietro lo schermo di un computer. Gli ultimi anni ci hanno dimostrato che non è affatto così: le attività cyber sono fondamentali, ma quello che Graham Greene chiamava “Il fattore umano” rimane centrale. È solo “il fattore umano” che spiega che cosa spinga qualcuno a passare al campo avverso; solo “il fattore umano” spiega come sia possibile attirare qualcuno in una trappola della fiducia oppure convincerlo che la propria ideologia è più giusta di quella del Paese in cui si vive. Era questo l’aspetto che mi interessava di più nello scrivere il libro: mettere in luce il fattore umano, capire com’è possibile che certe persone scelgano di trasformarsi in quello a cui avevano sempre dato la caccia. Mi pare un percorso molto affascinante. 

Quali sono le città coinvolte e i casi di cui ti sei occupato?

Roma è al centro di tutto, ma per scrivere il libro ho fatto ricerche e incontrato fonti a Lisbona, Parigi e Napoli, mentre altre fonti le ho raggiunte per via telematica a Washington, Mosca, Cincinnati e Helsinki. Le storie sono cinque storie di agenti russi in Italia e vanno dal 2016 al 2023. Si passa da scambi di documenti Nato a furti di tecnologie militari, ma come abbiamo detto prima ogni storia di spie è anche una storia di politica, e quindi nel raccontarle ci si imbatte anche in molte controversie politiche di questi anni, dai tentativi di influenza di Donald Trump alle politiche di Conte, Draghi e Meloni. 

La copertina del libro richiama alla vecchia Unione Sovietica, perchè questa scelta?

Per tre ragioni: la prima è che il simbolo dell’Unione Sovietica e del vecchio KGB è sempre più riconoscibile rispetto a quelli della Russia attuale. La seconda è che c’è una certa continuità tra quella Russia e la Russia di oggi. La terza è un richiamo ai vecchi romanzi di un maestro come John Le Carré, che adoro. Ma questi non sono romanzi: sono tutte storie vere. 

Cristina Marra

Lasciami andare, quando le orche arrivarono a Genova – Intervista a Claudia Fachinetti di Cristina Marra

Claudia Fachinetti, giornalista e biologa marina è appassionata di natura e animali e a loro dedica romanzi rivolti principalmente a giovani lettori. “Lasciami andare” edito da Il battello a vapore è la storia dell’arrivo di un gruppo di orche nei pressi del porto di Genova a dicembre del 2019. E’ quest’episodio a suggerirle il racconto di un approdo che presto diventerà una nuova partenza, di una famiglia unita e disorientata che nell’amore trova il suo faro, di una ragazza coraggiosa e fragile che sa ascoltare e non si arrende al dolore.  

Claudia, benvenuta su Il Randagio, i tuoi libri partono sempre da storie vere. Dopo il riccio e il gatto stavolta dedichi un romanzo alle Orche. Quando hai incrociato la loro storia? Come ti sei documentata per scriverla?

Sì da giornalista mi piace scrivere partendo da fatti di cronaca e storie vere. La storia delle orche l’ho seguita in diretta perché da ex biologa marina sono ancora in contatto con molti ricercatori che studiano balene e delfini in Mediterraneo quindi ero costantemente aggiornata. In quel periodo stavo scrivendo Vito il gatto bionico e tra questo e la pandemia inizialmente non ho avuto modo di pensare che la vicenda delle orche di Genova potesse diventare un libro. Poi, un anno fa, ho capito che era il momento giusto e ho ricontattato tutti i biologi che in quei giorni hanno lavorato per aiutare e studiare le orche con i quali ho ripercorso passo passo la storia.

Alaska è la 14enne protagonista. Quanto la sua passione per i cetacei la aiuta nella sua formazione alla vita e al dolore?

Secondo me studiare la natura e seguire le sue regole aiuta a vedere con più distacco e onestà anche la vita umana. Spesso tendiamo a metterci al di sopra di tutto ma in fondo siamo anche noi creature animali di questo mondo. In generale poi, occuparsi di qualcun altro aiuta a distogliere l’attenzione dai propri problemi e alleggerirne il peso. 

Lasciare andare significa anche ricominciare?

Esattamente. La vita è fatta di saliscendi, di ostacoli da superare e non accettare un evento che ci genera sofferenza ci impedisce di andare avanti. L’accettazione è la parte più dolorosa e difficile di un lutto, di una difficoltà, ma per andare avanti dobbiamo necessariamente attraversare il dolore e viverlo, solo così si ricomincia a vivere davvero.

Giganteschi, eppure le orche sono anche animali fragili?

Le orche sono i rappresentanti più grandi della famiglia dei delfini, hanno una società e socialità complesse e tecniche di caccia altamente specializzate, non hanno nemici naturali e possiedono una grande intelligenza e adattabilità, eppure la loro vita dipende dall’ambiente in cui vivono. Per cui l’inquinamento e la riduzione delle prede può mettere in pericolo intere popolazioni. In Canada, per esempio, la pesca eccessiva dei salmoni ha messo in crisi la popolazione di orche residente nell’area e che si nutriva di questi pesci.

Il romanzo ha la prefazione della biologa marina Lanfredi. Ti sei ispirata a lei per il personaggio di Caterina?

Assolutamente sì, lei è Caterina anche se la sua parte è romanzata e in quei giorni non si è dedicata realmente alla faccenda delle orche come, al contrario, hanno fatto Sabina Airoldi, Alessandro Verga, Alessandro Violi e Guido Gnone, anche loro protagonisti nel libro e anche nella realtà.

La storia familiare delle orche si intreccia con quella di Alaska. Quanto ci insegna la forza dell’unione familiare delle orche?

Gli animali cosiddetti sociali danno spesso grandi insegnamenti di solidarietà tra membri di un gruppo o di una famiglia. Per sopravvivere l’aiuto e il sostegno reciproco sono fondamentali così come dovrebbe essere anche per noi ma spesso facciamo prevalere l’egoismo e gli interessi personali.

Nel romanzo ci sono anche i sentimenti di amicizia e amore. Diego è un personaggio chiave nella storia di Alaska?

Sì, Diego è un personaggio chiave della storia e aiuta Alaska a mettere a fuoco i suoi obiettivi e a liberare le sue emozioni. Condividono una grande passione per i cetacei e questo inevitabilmente li unisce. Per una ragazza chiusa e in trasformazione come Alaska questo legame è fondamentale per crescere, per assaporare sentimenti mai provati.

Le orche nuotano in un mare a loro sconosciuto. La loro storia le accomuna ai migranti e ci esorta ad accogliere e comprendere?

Mi sembra un paragone corretto. Non deve essere affatto semplice trovarsi lontano dal proprio mondo, in balia delle correnti e in contatto con individui sconosciuti magari con abitudini molto diverse dalle nostre. Lo è stato per le orche e lo è per le persone costrette a fuggire da guerra e povertà con la sola forza della speranza.

La storia è intervallata da schede sulle Orche chi ti ha supportata? 

A parte il box sul catalogo delle pinne per l’identificazione, per gli altri box è stato sufficiente approfondire con articoli scientifici e di cronaca quello che già sapevo. Le orche sono da sempre i miei animali preferiti e ho sempre letto e studiato molto su di loro anche se talvolta scopro cose di questi incredibili animali che ancora mi stupiscono.

Cristina Marra