L’incipit di “Pnin” di Vladimir Nabokov, traduzione di Elena De Angeli (Adelphi)

“L’attempato passeggero seduto accanto al finestrino sul lato nord di quella carrozza ferroviaria inesorabilmente in corsa, con un posto vuoto a fianco e due posti vuoti di fronte, altri non era che il professor Timofej Pnin. Mirabilmente calvo, abbronzato e rasato con cura, aveva un inizio piuttosto imponente, con la gran cupola brunita del cranio, gli occhiali cerchiati di tartaruga (che mascheravano un’infantile assenza di sopracciglia), il labbro superiore da primate, il collo solido e il torso muscoloso serrato in una giacca di tweed attillata, ma fine un po’ deludente, con due gambette sottili (al momento rivestite di flanella e accavallate) e due piedi dall’apparenza fragile, quasi femminei.

Le calze, cascanti, erano di lana scarlatta a losanghe lilla; le scarpe nere, tradizionali, gli erano costate più o meno quanto tutto il resto dell’abbigliamento (compresa la sgargiante cravatta da gorilla). Prima degli anni ’40, durante la compassata fase europea della sua vita, aveva sempre indossato mutande lunghe, con gli orli accuratamente infilati dentro quelli di impeccabili calzini di seta con la baguette, dai colori sobri, fermati da giarrettiere ai polpacci inguainati nel cotone.

In quei giorni, lasciar trapelare una fugace visione di quel candido indumento intimo tirando su più del dovuto una gamba dei calzoni sarebbe parso a Pnin non meno sconveniente che apparire davanti a una signora senza solino e cravatta; perfino quando accadeva che la malandata Mme Roux – concierge dello squallido caseggiato del XVI’ Arrondissement di Parigi dove Pnin, dopo essere fuggito dalla Russia leninizzata e aver completato gli studi universitari a Praga, aveva vissuto per quindici anni – saliva a riscuotere l’affitto in un momento in cui lui non indossava il faux-col, il verecondo Pnin ricopriva con mano pudica il bottone della camicia. Tutto questo era mutato radicalmente nell’impetuosa atmosfera del Nuovo Mondo. Oggi, a cinquantadue anni, Pnin andava pazzo per i bagni di sole, portava camicie e pantaloni sportivi, e quando accavallava le gambe esibiva studiatamente, deliberatamente, sfrontatamente un’ingentissima estensione di stinco nudo.

Così sarebbe potuto apparire a un compagno di viaggio; ma, se si eccettuano un soldato che dormiva a un’estremità e due donne completamente assorbite da un bambino all’estremità opposta, Pnin aveva la carrozza tutta per sé.”

Vladimir Nabokov: “Pnin”, traduzione Elena De Angeli (Adelphi)

Un assaggio di “Storia confidenziale dell’editoria italiana” di Gian Arturo Ferrari (Marsilio, 2022)

“Come alle origini di Roma, alle origini dell’editoria libraria italiana del Novecento ci sono due gemelli, o quasi. Come può succedere, e a volte succede tra gemelli, si odiano cordialmente per tutta la vita. Il primo chiama il secondo «quel gangster», il secondo si rifiuta anche solo di pronunciare il nome del primo. Angelo Rizzoli e Arnoldo Mondadori nascono a distanza di due giorni sul finire del 1889 e a distanza di otto mesi muoiono, entrambi ottantunenni. Sempre per primo Rizzoli, in nascita e in morte.

Angelo Rizzoli

Entrambi proletari, con le pezze sul sedere. Povero Mondadori, figlio di un contadino e calzolaio ambulante, analfabeta fino a cinquant’anni. Poverissimo Rizzoli che addirittura nasce già orfano perché suo padre, ciabattino e anche lui analfabeta, sconvolto da un licenziamento è andato mesi prima a uccidersi. Al cimitero di Musocco, per maggiore comodità. Le origini infime verranno più volte e orgogliosamente rivendicate da entrambi («una miseria nera, che non si può immaginare» dirà Rizzoli), secondo un cliché comune a molti capitani d’industria otto- e novecenteschi. Ma non comune nel caso degli editori: è vero che Louis Hachette, il più ricco editore dell’Ottocento, era figlio di una lavandaia, ma lei lavorava per il liceo Louis-le-Grand, grande di nome e di fatto, cosa che permise al figlio di frequentarlo. E da questa solida base di avviarsi alla gloria editoriale.

Arnoldo Mondadori

I nostri invece sono entrambi incolti. Mondadori ha la quinta elementare e molti anni dopo se ne lamenterà di frequente, civettando, con il suo banchiere e amico Raffaele Mattioli. Il quale un bel giorno, di fronte all’ennesima replica, gli dice: «Ma senta, caro Mondadori, secondo me lei ha studiato troppo. Guardi Rizzoli, che ha solo la seconda, e veda un po’ la strada che ha fatto.» (Per la verità in altre occasioni Rizzoli rivendicherà di avere anche lui la quinta, presa però alle serali.)

Entrambi, e questo è decisivo, all’origine tipografi, adepti dell’arte nera, con nel naso l’odore acre degli inchiostri. Arnoldo comincia da garzone nel retrobottega di una cartoleria di Ostiglia, nel mantovano, dove troneggia un torchio a mano in disuso, tra casse di caratteri impolverati e, più tardi, una macchina a manovella. Si stampano carte intestate, biglietti da visita, partecipazioni, moduli, registri, manifesti. Angelo, appena uscito dai Martinitt dove gli hanno insegnato il mestiere, compera in società con un altro operaio una pedalina usata. A rate e firmando un bel numero di cambiali, naturalmente. Rischiano anche di spaccarla quando cade dal carretto su cui la spingono dalla Stazione Centrale alla stanza in via Cerva che è la loro prima sede.

Smanovellando e pedalando entrambi, Mondadori e Rizzoli, prendono buona nota del fatto che tra il prezzo cui si può vendere la carta stampata e il costo della carta e della stampa c’è una bella differenza, ossia un possibile e notevole guadagno.”

brano tratto da Storia confidenziale dell’editoria italiana di Gian Arturo Ferrari (Marsilio editore)

Gian Arturo Ferrari, classe 1944, dopo essersi dedicato dal 1974 all’insegnamento universitario, sceglie nel 1989 l’editoria libraria, iniziando il proprio percorso professionale presso la casa editrice Boringhieri in qualità di assistente dell’editore. Direttore Libri alla Rizzoli, nei primi anni Novanta passa alla Mondadori Libri dove sarà dal 1997 al 2009 direttore generale e dal 2015 al 2018 vicepresidente. È stato editorialista del Corriere della Sera ed è presidente del Collegio Ghislieri di Pavia. È autore di Il libro (Bollati Boringhieri 2014), Ragazzo italiano (Feltrinelli 2020) e Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio 2022). Ad aprile 2024 è uscito La storia se ne frega dell’onore (Marsilio), un giallo sull’editoria durante il fascismo. 

Milan Kundera: La festa dell’insignificanza (Adelphi, 2013 – trad. Massimo Rizzante), di Gigi Agnano

Non fatevi ingannare dall’apparente semplicità di questo libretto di un centinaio di pagine, il decimo ed ultimo romanzo del grande scrittore ceco, il quarto scritto direttamente in francese, pubblicato da Adelphi nel 2013, prima ancora che uscisse in Francia con Gallimard nell’aprile del 2014. Se proprio volessimo parlare di “semplicità” dovremmo fare ricorso alla fin troppo abusata leggerezza o alla “squisita semplicità” di un piatto di gnocchi di pane o di una zuppa di cipolle preparati da uno chef stellato. Semplici sono solo le cose della vita che però bisogna saper raccontare e Kundera lo fa da grandissimo scrittore, aggiungendo poesia e complessità, mescolando banale ed essenziale, malinconia e felicità traboccante, tragedia e farsa.

Ma La festa dell’insignificanza, questo “non romanzo” costruito come un’opera teatrale in sette parti, non è affatto semplice. Ci sono infatti molti più significati di quanti possiate immaginarne in questa insignificanza, un’insignificanza che svela sorridendo l’assurdità dell’esistenza, un’insignificanza che, come dice Ramon, uno dei protagonisti, è “l’essenza dell’esistenza.”

Il romanzo si apre con Alain che camminando per le strade di Parigi osserva affascinato e turbato che la moda del momento per le ragazze è di mettere in mostra l’ombelico, “come se il loro potere di seduzione non fosse più concentrato nelle cosce, nelle natiche o nel seno, ma in quel buchetto tondo situato al centro del corpo.” Ma mentre riesce a spiegarsi il motivo per cui un uomo possa essere sedotto dalle cosce , dalle natiche e dal seno, viceversa si chiede: “come definire l’erotismo di un uomo (o di un’epoca) che vede la seduzione femminile concentrata nell’ombelico?”

Mentre Alain riflette sulle diverse fonti della seduzione femminile, Ramon, l’intellettuale in pensione, passeggia senza meta nei giardini di Lussemburgo perché ha appena rinunciato alla visita di una mostra dedicata a Chagall a causa della coda “disgustosa” alla biglietteria, di cui non vuole essere parte. Dice: “Guardali! Pensi che, d’un tratto, abbiano cominciato ad amare Chagall? Sono disposti ad andare ovunque, a fare qualsiasi cosa, solo per ammazzare il tempo che non sanno come impiegare. Non hanno idea di nulla, quindi si lasciano guidare. Sono splendidamente guidabili.”

Camminando Ramon incrocia D’Ardelo, il narcisista, che per il solo piacere di mentire finge di confessargli di avere un cancro, ma nel contempo lo invita alla sua festa di compleanno, chiedendogli se conosce qualcuno in grado di organizzarne il catering.

Dopo un’ora, Ramon è a casa di Charles, l’amico che sogna di mettere in scena una commedia di marionette su un aneddoto della vita di Stalin, da cui emergerebbe un dittatore ironico e burlone, che si prende gioco dei suoi più stretti collaboratori che non osano ridere per servile ossequio (metafora della nostra incapacità di cogliere il senso dell’ironia). I due osservano che tra questi lacchè c’è Kalinin, il funzionario con la vescica debole, che dà ancora oggi il nome alla città natale di Kant (Kaliningrad), mentre invece, ironia della Storia, il tiranno baffuto pare svanito dalla memoria soprattutto dei più giovani.

A casa di Charles c’è poi l’attore disoccupato Caliban, che si diverte a inventare nuove identità e a creare lingue immaginarie. I due fanno saltuariamente i camerieri per sbarcare il lunario.

Ecco così presentati dal narratore i protagonisti del racconto, omuncoli insignificanti che non fanno o dicono granché, sprofondati nell’inconsistenza della vita quotidiana. Tutti loro si incontreranno durante la festa nel salotto di D’Ardelo, osservatori di un mondo troppo pieno di vanità, della vacuità di un divertimento per cui ogni ospite si dà delle arie per apparire più importante di quanto non sia, si compiace dei propri successi e fa sfoggio della propria felicità intorno ai bicchieri di alcol appoggiati su un vassoio. La festa è il pretesto per Kundera per sorridere della banalità del nostro tempo, che è “comico proprio perché ha perso ogni senso dell’umorismo”.

Nonostante le poche pagine, il libro è ricco di passaggi indimenticabili come quello su Quaquelique, il seduttore, che conquista le donne con osservazioni banali, che non richiedono risposte intelligenti o presenza di spirito perché l’essere brillante le sfida a competere, mentre l’insignificanza le tranquillizza, le rilassa, rendendole più facilmente abbordabili.

È la consueta misoginia dell’autore già emersa nei precedenti romanzi e “spiegata” ne L’arte del romanzo, dove si ricorderà la distinzione tra maschilista e misogino: il primo adora la femminilità archetipa (maternità, debolezza, ecc…), esalta la propria virilità e la famiglia, mentre il secondo ha orrore della femminilità e il suo ideale è restare celibe con molte amanti…

Nel romanzo infatti, mentre gli uomini sono amici (“solo una parola è sacra: ‘amicizia’”), le donne sono per lo più assenti, personaggi secondari, a volte anche un po’ spaventosi. C’è la madre di Charles che sta morendo, quella di Alain che l’ha abbandonato alla nascita e con la quale Alain ha un dialogo immaginario, una tale M.me Frank, la vedova allegra, che ha trasformato la morte del marito in un’opportunità per dimostrare agli altri il proprio valore.

Le poche relazioni uomo-donna appena accennate sono all’insegna dell’ incomunicabilità: quella tra Alain e Madeleine per la differenza di età, quella di Caliban con la cameriera portoghese perché i due parlano lingue diverse. Più che personaggi del racconto, le figure femminili sembrano bozzetti funzionali solo a dimostrare un più generale disagio maschile.

Arte (sottratta all’individuo dalla massa), sessualità, erotismo, desiderio (un tempo piaceri assoluti, oggi banalizzati), amicizia, ironia, rapporti problematici tra uomo e donna, tra madri e figli, la politica, la vecchiaia (“le sue dichiarazioni non conformiste, che un tempo lo ringiovanivano, facevano ora di lui, malgrado l’ingannevole apparenza, un personaggio inattuale, fuori dal tempo, perciò vecchio.”) sono tra le tematiche trattate in questo libretto, in una sorta di compendio finale o di manifesto della poetica di Kundera, che, all’età di 84 anni, sa che quello che sta scrivendo potrebbe essere il suo ultimo romanzo.

I protagonisti ricordano i tempi di Stalin, di Krusciov e dell’Unione Sovietica (“un’epoca di cui non rimarranno più tracce”), elaborano discutibili teorie sulla seduzione (quanta distanza da scene ad alto contenuto erotico come quella de Il libro del riso e dell’oblio del 1978 con Karel che guarda Eva che si masturba sulle note di una suite di Bach!), riflettono sull’insignificanza e sul suo impatto sulla felicità, si confrontano sul posto che deve assumere nella vita l’assurdo e il riso, quest’ultimo tema cui, com’è noto, Kundera ha dedicato almeno tre romanzi: Lo scherzo, La vita è altrove, ma soprattutto Il libro del riso e dell’oblio. Secondo Ramon, ispirato da Hegel, “il vero umorismo è impensabile senza l’infinito buonumore, l’ “unendliche Wohlgemutheit”. Non lo scherno, non la satira, non il sarcasmo. Solo dall’alto dell’infinito buonumore puoi osservare sotto di te l’eterna stupidità degli uomini e riderne.”

Tutto finisce nell’inno di Ramon all’insignificanza, con la celebrazione della vita che in fin dei conti non significa nulla. In realtà non c’è un vero e proprio finale, così come a volerla dire tutta non c’è una trama. Non c’è descrizione fisica dei personaggi, rappresentati solo attraverso le loro discussioni e introspezioni. Nessuna parola di troppo, nessun superlativo, nessun abuso di aggettivi. Ci sono però i pensieri e le domande di sempre, sospesi come la piuma che gli ospiti della festa osservano galleggiare nell’aria in lentissima caduta. Pensieri sintetizzati, domande riformulate da un uomo consapevole di essere alle battute finali.

La festa dell’insignificanza, questa piccola grande eredità di Kundera, ricorda per la leggerezza del tocco e la vivacità della prosa gli ultimi lavori – perdonate l’azzardo – di Woody Allen, meno brillanti dei suoi film migliori, ma sempre attraenti per sapore e personalità, fascino ed eleganza. “L’insignificanza, amico mio, è l’essenza della vita. È con noi ovunque e sempre. È presente anche dove nessuno la vuole vedere: negli orrori, nelle battaglie cruente, nelle peggiori sciagure. Occorre spesso coraggio per riconoscerla in condizioni tanto drammatiche e per chiamarla con il suo nome. Ma non basta riconoscerla, bisogna amarla, l’insignificanza, bisogna imparare ad amarla. Qui, in questo parco, davanti a noi, guardi, amico mio, è presente in tutta la sua evidenza, in tutta la sua innocenza, in tutta la sua bellezza. Sì, la sua bellezza. L’ha detto anche lei: l’animazione perfetta — e del tutto inutile —, i bambini che ridono — senza sapere perché —, non è forse bello? Respiri, D’Ardelo, amico mio, respiri questa insignificanza che ci circonda, è la chiave della saggezza, è la chiave del buonumore…».”

Gigi Agnano

L’incipit de La festa dell’insignificanza di Milan Kundera, traduzione di Massimo Rizzante (Adelphi, 2013)

Oggi 1 aprile sarebbe stato il compleanno di Milan Kundera, nato a Brno nel 1929 e scomparso a Parigi lo scorso 11 luglio. Per l’occasione pubblichiamo l’incipit di “La festa dell’insignificanza”, il decimo romanzo del grande scrittore ceco, il quarto scritto direttamente in francese, pubblicato da Adelphi – per la traduzione di Massimo Rizzante – nel 2013, prima ancora che uscisse in Francia, il 3 aprile del 2014, edito da Gallimard. Nel titolo c’è tutta la spiegazione del libro: l’insignificanza, come dice Ramon, è “l’essenza dell’esistenza”.

Alain medita sull’ombelico

“Era il mese di giugno, il sole del mattino spuntava dalle nuvole e Alain percorreva lentamente una via di Parigi. Osservava le ragazze, che mettevano tutte in mostra l’ombelico tra i pantaloni a vita molto bassa e la maglietta molto corta. Era affascinato; affascinato e persino turbato: come se il loro potere di seduzione non fosse più concentrato nelle cosce, nelle natiche o nel seno, ma in quel buchetto tondo situato al centro del corpo.

La cosa lo fece riflettere: Se un uomo (o un’epoca) vede il centro della seduzione femminile nelle cosce, come descrivere e definire la peculiarità di tale orientamento erotico? Improvvisò una risposta: la lunghezza delle cosce è l’immagine metaforica del cammino, lungo e affascinante (per questo le cosce devono essere lunghe), che conduce alla realizzazione erotica; infatti, si disse Alain, anche in pieno coito la lunghezza delle cosce conferisce alla donna la magia romantica dell’inaccessibilità.

Se un uomo (o un’epoca) vede il centro della seduzione femminile nelle natiche, come descrivere e definire la peculiarità di tale orientamento erotico? Improvvisò una risposta: brutalità; allegria; il cammino più breve verso il traguardo; traguardo tanto più eccitante perché duplice. 

Se un uomo (o un’epoca) vede il centro della seduzione femminile nel seno, come descrivere e definire la peculiarità di tale orientamento erotico? Improvvisò una risposta: santificazione della donna; la Vergine Maria che allatta Gesù; il sesso maschile inginocchiato davanti alla nobile missione del sesso femminile.

Ma come definire l’erotismo di un uomo (o di un’epoca) che vede la seduzione femminile concentrata al centro del corpo, nell’ombelico?”

Milan Kundera: “La festa dell’insignificanza”, traduzione Massimo Rizzante (Adelphi)