Intervista a Maurizio de Giovanni per “Il canto del mare” (Salani), di Cristina Marra (foto Ciro Orlandini)

Che voce ha il mare? Forse quella attraente del canto delle mitologiche sirene o quella misteriosa e senza tempo capace di narrare di incontri  e scambi, di amore e meraviglia, di sogni e sacrifici, di attrazioni e sparizioni. Maurizio de Giovanni reinterpreta a modo suo la favola poetica, dolce e “salata” “Maruzza Musumeci”di Andrea Camilleri e la dedica al maestro e ai giovani lettori che, accompagnati dalle illustrazioni di  Mariolina Camilleri, si tufferanno in una storie di parole e di stelle, di acqua e di terra,  in cui il sentimento dell’amore è perpetuo come le onde del mare.

Maurizio benvenuto su Il Randagio.

Che sfida è stata e che emozioni hai provato a narrare a modo tuo e per giovani lettori la favola di Andrea Camilleri?

E’ stata un’emozione enorme vedere il mio nome sulla copertina insieme al più grande narratore italiano degli ultimi cinquanta anni, è stata una cosa che vale più di un premio letterario. Non ho provato a ricalcare le orme di Andrea e del genio che è, ma ho soltanto provato a raccontare a modo mio e con il mio tono la sua favola.

Quanto ti senti un narratore randagio?

 Penso di essere randagio come qualsiasi narratore. I narratori girano per la vita incontrando le storie e raccontano le storie belle che incrociano. Uno non decide di essere scrittore e poi cerca una storia; semplicemente incontra una storia e ha l’esigenza di narrare. E questo già di per sé è randagio.

Emigrazione, sogno, mito, crimine e amore ma anche tanto altro ne Il canto del mare. La Terra di Gnazio incontra il Mare di Maruzza. La conchiglia e l’ulivo si uniscono. Su tutto prevalgono la consapevolezza e la forza dl sentimento più bello del mondo?

La modalità della favola  è sempre la semplificazione dei sentimenti, va alla radice e trova i sentimenti per quello che sono. Ogni scrittore dovrebbe misurarsi con la favola che è di per sé qualcosa che porta chi ascolta, bambini o adulti, a ritrovare  sentimenti nella loro semplicità e immediatezza. Mi piace moltissimo giocare su questo, sull’amore, sulla paura, sui sentimenti più basilari. Credo che la favola sia il modo giusto per raccontare i sentimenti e specificamente l’amore.

Ti sei interfacciato con l’illustratrice o è stato un lavoro autonomo? 

Mariolina Camilleri è una meravigliosa illustratrice. Alcune tavole mi erano state sottoposte prima per farmi vedere il tratto, per farmi capire che tipo di storia avrebbe raccontato lei, in sottofondo e collateralmente a quella che avrei raccontato io. Poi le ho dato il testo e lei sulla base del testo ha scritto una straordinaria storia per immagini che secondo me nobilita il testo. Sono molto felice di avere lavorato con lei.

Il personaggio di Nonnamà, narratrice senza età né tempo incanta i bambini che si riuniscono a casa sua per ascoltare le storie.

Che valore e che importanza ha la narrazione oggi?

Io credo che la narrazione in questa epoca di immagini non sia stata mai così importante. La narrazione per parole lascia lavorare l’immaginazione e questo accade sia nella narrazione orale che in quella scritta. Abbiamo bisogno di immaginare, di non essere soltanto passivi nella ricezione di quello che vediamo. Abbiamo bisogno di elaborare perché soltanto elaborando ci facciamo  una nostra idea e posizione. Quindi l’immaginazione è fondamentale e lo è naturalmente la scrittura.

Un libro randagio che consigli ai nostri lettori? 

Vorrei consigliare Un paese felice di Carmine Abate straordinario narratore calabrese di lingua arbëreshë (lingua parlata dalle popolazioni di origine greco-albanese stanziatesi nel Sud Italia) ma scrive meravigliosamente in italiano. Lui vive in trentino ma rimane affondato nelle sue radici e nella sua terra . Consiglio volentieri ai lettori della rivista Il Randagio questo bellissimo romanzo.  

Cristina Marra

Intervista a Michele D’Ignazio autore di “Fate i tuoni”, di Cristina Marra

A volte è necessario incresparsi come il mare e diventare tumultuosi come il cielo per evitare l’indifferenza e seminare poesia”.

Con “Fate i tuoni” (Rizzoli)  Michele D’Ignazio torna in libreria e racconta la storia corale di un paesino della Calabria affacciato sul mare che farà incontrare i due giovani protagonisti Murad e Zaira. Col suo stile unico e il suo giocare con le parole l’autore ci invita a scatenare tempesta, a farci sentire e ad allargare le braccia per accogliere come fa il mare quando si lascia raggiungere dai piccoli di tartaruga Caretta Caretta che in questa storia sono un esempio da seguire e un patrimonio da proteggere.  

    

Michele benvenuto su Il Randagio. La prima domanda ti calza a pennello: quanto ti senti un autore randagio?

Tanto. Oltre che scrivere mi piace molto viaggiare. Ho un passato un po’ fricchettone, di viaggi fatti con amici, spendendo poco o quasi nulla. Sono stati un grande insegnamento per me, una palestra di vita, un’inesauribile fonte di ispirazione. Adoro i cani e ogni volta che vedo un randagio ammiro la loro libertà e il loro vivere alla giornata.

La storia di “Fate i tuoni” comincia da un frammento di barca?

Esatto. È un dono che mi hanno fatto alcuni anni fa e io lo considero un amuleto, per due motivi: innanzitutto, osservandolo e toccandolo, è come se mi facesse vedere ciò che è successo su quella barca, come se fossi stato lì, durante il lungo viaggio sul mar Mediterraneo e nei momenti concitati dello sbarco. In secondo luogo, perché mi ha tenuto ancorato a questa storia: a volte me ne allontanavo, seguendo tanti altri progetti, ma quel piccolo frammento di barca mi ricordava che dovevo scrivere questo libro. 

La storia del romanzo rimanda a una celebre frase di Carlo Levi a te cara “Il futuro ha un cuore antico”. Il passato deve servire per costruire bene il futuro? 

Io volevo raccontare una storia bella, così come è stata l’accoglienza degli abitanti di Badolato quando, nel lontano 1997, avevano ospitato nelle case del paese vecchio tantissime persone sbarcate con la nave Ararat. Davanti a ciò che è successo a Cutro rimane un senso di amarezza e rabbia, perché non tutti, purtroppo, hanno avuto il destino felice di Murad, uno dei due protagonisti di “Fate i tuoni”. Non tutti, su quella barca, sono riusciti a raggiungere la costa.

In questi ultimi anni, si sono fatti dei passi indietro e la mia speranza, e uno dei motivi per cui ho scritto il libro, è che si possa tornare a quello spirito solidale e a quella genuinità che hanno ispirato “Fate i tuoni”, rispecchiandosi nelle persone che vivono d’amore, in Calabria, e non solo qui, e che tutti i giorni, lontani dai riflettori, fanno sì che il mondo sia un posto bello e accogliente, un posto dove i bambini possano sorridere e giocare. 

La tua è una storia di terra e di mare?

Sì, c’è un continuo scambio tra il mare e la terra. Vengono lanciate in mare 302 bottiglie con dentro un messaggio e dopo pochi giorni sbarcano 302 persone. Con la schiusa delle uova, 92 piccole tartarughe raggiungono il mare e, dopo pochi attimi, 92 persone raggiungono la costa. Tutto è collegato. Tutto, a suo modo, comunica. Accoglie e restituisce. In un mondo che va troppo di fretta e sembra essere unidirezionale, a volte ce ne dimentichiamo.

Prologo, diviso in tre parti e con Epilogo, il romanzo può considerarsi anche a finale aperto, in progress?

Io amo i finali aperti. Questo in realtà, rispetto ad altri miei libri, lo considero abbastanza compiuto. In ogni caso, non so ancora se ci sarà una continuazione. Non lo sapevo quando ho pubblicato “Storia di una matita”, che poi ha avuto due seguiti. Così come non lo sapevo quando è uscito “Il secondo lavoro di Babbo Natale”, anch’esso poi diventato trilogia. Vedremo…


Sei anche un grande lettore, quali sono i libri che ti hanno segnato e ai quali non rinunceresti mai?

Ce ne sono tantissimi. Forse uno di quelli che mi ha segnato di più è “Martin Eden” di Jack London.
Racconta la vita di Martin Eden, un passato da marinaio, senza aver frequentato mai una scuola, che un giorno legge per caso un libro di poesie. E gli piace, gli piace tanto. E si mette a scrivere. Scrive cose belle, ma vengono rifiutate da ogni editore. Scrive ancora e manda agli editori e viene sempre rifiutato, per lo più perché fuori dagli ambienti letterari. Accumula rifiuti e viene respinto anche dalla ragazza di cui è innamorato. È una vita di rifiuti. Il mondo, tutto il mondo che ha intorno, gli sembra sbagliato, ipocrita. Però la cosa incredibile è che Martin Eden anziché demoralizzarsi, acquista forza da questi rifiuti, sembra che tutte le sfortune gli diano sempre più forza. Si fa in quattro, in otto, lavora come un matto di giorno e scrive senza pause di notte. È stupefacente! Quando lo lessi, intorno ai 24 anni, mi immedesimai totalmente in quel personaggio, vissuto 100 anni prima di me, in California. E ne trassi forza! Mi insegnò il coraggio, a volte l’ostinazione. E la grande fiducia nelle proprie capacità. Infine, per concludere, va detto che ha un finale sconvolgente. Un libro da leggere ancora oggi, soprattutto oggi, in un’epoca in cui spesso si cercano (e vengono esaltate) facili scorciatoie.

A quale dei personaggi che racconti senti di somigliare di più?
Direi a Nik, un’artista che mette la sua arte a disposizione della comunità e che crede in un mondo migliore.


“Fate i tuoni” ha tante parole conchiglia, ne regali una ai lettori de Il randagio?
Le parole-conchiglia sono quelle parole che, a poggiarci l’orecchio, scopri che contiene in sé il suono dolce di un’altra parola. Vi regalo “abbandono”: dentro accoglie la parola “dono”. Quasi una contraddizione! Chi può pensare all’abbandono come a un dono? Eppure il paese vecchio che descrivo nella storia, ormai abbandonato, può essere donato. In qualche modo, può diventare un regalo. Ma per chi?

Cristina Marra

Strega 2024 – Intervista a Eduardo Savarese, di Daniela Marra

Le Madri della Sapienza di Eduardo Savarese, Wojtek edizioni, proposto allo Strega 2024 da Riccardo Cavallero, è stato spesso definito un romanzo distopico. Eppure appare evidente già dalle prime pagine che qualsiasi vestito risulta imperfetto. Troppo corto, troppo stretto, troppo alla moda o troppo largo, questo accade perché il romanzo di Savarese che ha la forma di vero romanzo tradizionale otto-novecentesco, in particolare ricorda per alcuni versi la produzione russa, è un’opera trasformista, che attinge a una moltitudine di registri diversi ma sapientemente armonizzati.
Visionario, surreale, imprevedibile, racconta una storia-mondo, attraverso un ricchissimo sottobosco di personaggi e trame. Un inno sacro e provocatorio alla potenza dell’amore non come sentimento ma come forza trasformativa, come silenzioso sacrifico, nel senso più classico della parola: Sacer Facio, fare sacro, rendere sacro.

Abstract romanzo:
Il primo ministro Anselmo Riccardi ha l’ossessione di rifondare la famiglia tradizionale. Dietro di lui, dentro di lui, agisce Ulrica Neumond, maga e fondatrice della Casa Europea dei Nuovi Ariani.
Il loro famelico disegno di conquista si abbatte sul monastero delle Madri della Sapienza, ordine laico fondato da tre maturi omosessuali: Luciano (Cinzia), Giorgio (Olimpia) e Fernando (Gridonia).
Le Madri non sono sole: al loro fianco si schierano Licia, undicenne e mistica figlia del premier, e Barbara, moglie combattiva che, da alleata, si trasforma in antagonista di Anselmo.
Aleggia su di loro Fosco Nunziante, intellettuale morto da tempo, come l’ombra del demonio sul destino dei vivi.
Dramma wagneriano, racconto esoterico e commedia fantastica, Le Madri della Sapienza oppone, alla paura indotta da un potere politico magico-autoritario, un neo-monachesimo libertario e umanista, antidoto allo sradicamento della vita interiore.

Nell’introduzione all’ intervista ho parlato di vestito, ma l’obiettivo di rintracciare una categoria di appartenenza per il tuo romanzo, malgrado lo sforzo, è stato vano. Non sono riuscita a trovare un abito appropriato. E allora ho deciso di procedere per sottrazione. È solo spogliandolo che il lettore può osservarlo, trovandosi davanti a una complessa stratificazione. La forma romanzo si colorisce di tante sfumature, si forma, trasformandosi continuamente. Perciò sarebbe interessante raccontarci quando è stato concepito Le Madri della Sapienza e qual è stata la sua gestazione.

Questa tua considerazione, così appropriata, circa la natura sfuggente delle Madri a una
categorizzazione mi fa molto piacere. I mezzi di costruzione del racconto, in questo romanzo, sono, all’apparenza, molto classici. E d’altra parte, nella mia formazione e nella mia ‘pratica’ artistica, ricerco, nell’articolare il pensiero, nello scegliere le parole, nel comporre le figure e le scene, quel che generalmente diciamo il ‘classico’. In altri termini, tutto qui sembra molto convenzionale (nel senso letterale di aderenza a certe convenzioni consolidate del romanzo), però poi il punto di arrivo spiazza (o i vari punti di arrivo, parziali e finali). Posso dire questo: la gestazione nasce da un input molto chiaro dato a me stesso. Sentiti libero di osare, di complicare, di immaginare rispettando profondamente la dignità del tuo immaginario. Sentiti libero di divertirti. Non preoccuparti di esaudire un’aspettativa esterna al tuo processo creativo.

Ci sono alcune categorie che attraversano tutto il romanzo. Una di queste è il potere. Il potere che distrugge e crea assuefazione, illusione, menzogne. Il potere per il potere ricorda per alcuni versi il Macbeth. Quanto la coppia Anselmo-Barbara è ispirata alla tragedia shakespeariana?

Moltissimo, ed in modo evidente, anche mediante riferimenti espressi, variazioni su citazioni quasi letterali (anche dalla versione operistica di Macbeth, quella di Verdi). Il potere è uno dei pilastri del romanzo: ed il potere in coppia mi ha sempre solleticato la fantasia e la meditazione. Per cui Anselmo e Barbara non potevano non avere quel referente.

Chiaramente l’autore di questo romanzo è un nuovo Eduardo, o meglio un Eduardo più completo, forse anche più vero, che mette in luce per la prima volta nella scrittura ogni sua sfaccettatura. Memoria emotiva, memoria intellettiva e realtà quotidiana si fondono e si confondono, ma sono sempre raccontate attraverso la lente dell’ironia, un’ironia garbata che rende ogni provocazione delicata. Che cosa consente questa chiave di scrittura ironica e oserei anche autoironica?

Che bella domanda… l’ironia (e soprattutto l’autoironia, anche del narratore circa i processi narrativi attuati: vedi la citazione schizofrenica che oscilla da Borges ad Angela da Foligno) nasce dallo sguardo compassionevole sul mondo. Lo sguardo che, da tempo, mi interessa di più è quello. Lo sguardo che può lenire la crescente violenza del mondo.

Realtà inquiete, sante, maghe e visioni profetiche, la sensazione spesso è di trovarsi catapultati in un’opera lirica, dove l’irrazionale e il fantastico sono dimensioni che conferiscono potenza alla realtà, ancora più del realismo puro. Quanto ha influito l’amore per l’Opera nella tua scrittura?

Enormemente. Ma me ne sono accorto in una fase avanzata della prima stesura (le stesure sono state tre, in tre anni). E me ne sono accorto precisamente nel punto in cui decidevo di superare
l’autocensura sull’irruzione della presenza fantastica nel monastero delle Madri. Il teatro lirico ha rilasciato il salvacondotto all’espressione del mio immaginario, in termini di possibilità del racconto… poi ci sono le incursioni più decifrabili (il nome verdiano della maga Ulrica, o la presenza, in un sogno, delle fanciulle fiore wagneriane…).

Le Madri della sapienza insegnano senza essere didascaliche. Con la riscoperta del monachesimo ci ricordano l’importanza della dimensione comunitaria, che oggi è sempre più infranta e dimenticata. Quanto è importante recuperare questa dimensione?

Mi pare sia vitale. Disintegrati a questo modo possiamo solo continuare a disintegrarci fino
all’estinzione nell’ignominia. La dimensione comunitaria, fondata su valori altamente spirituali, e su forme di disciplina condivise, oggi avrebbe molto da darci: certo, va reinventata, ma è una bellissima sfida del pensiero e dell’azione.

Parliamo di Amore, sembrerebbe una grande categoria universale e sentimentale, eppure nelle
Madri della Sapienza l’amore è sapienza. Un ritorno all’ordine nel disordine quotidiano dove
sembra sparita ogni bussola. Amare nella verità è un ritorno all’essenziale. Quanto e come risulta salvifico l’amore nel tuo romanzo?

L’amore è sempre stato al centro di tutto quello che ho scritto finora, anche nel saggio-racconto sul fine vita, Il tempo di morire. L’amore che dà salvezza, nelle Madri, deriva dalla combinazione tra verità e misericordia: è l’amore di Cristo. Io ho fame e sete di occasioni per parlarne con libertà, consapevolezza, passione e ironia. In questo romanzo ho provato a ritagliarmi una piccola, grande occasione.

Dimensione onirica, ironia, favola nera e surrealismo, solo alcuni ingredienti dell’alchimia delle
Madri della Sapienza. Sul grande schermo immaginerei una regia di Terry Gilliam e tu?

Terrence Malick. Magari… E, forse ancor più: Alice Rorhwacher.

Con quale personaggio del tuo romanzo andresti all’Opera e a cena e quale Opera andresti a
vedere?

Nessun dubbio: andrei con Ulrica Neumond e andremmo a vedere I maestri cantori di Norimberga di Wagner. Forse Ulrica però non cenerebbe, berrebbe soltanto, quello sì, ma in niente di meno che nel calice del Graal…

Daniela Marra

Eduardo Savarese (1979) vive e lavora a Napoli. Ha pubblicato i romanzi “Non passare per il sangue” (2012) e “Le inutili vergogne” (2014) per e/o, “Le cose di prima” (2018, minimum fax) e il racconto “La camera di Ondino” (Tetra, 2022). È autore anche di ibridazioni tra saggio e narrativa, su temi etico-giuridici (“Lettera di un omosessuale alla Chiesa di Roma”, e/o, 2015; “Il tempo di morire”, Wojtek, 2019), o intorno alla propria melomania (“È tardi!”, Wojtek, 2021). Scrive per «Il Riformista» e «L’Indice dei Libri del Mese».

Intervista a Marcello Simoni autore di Morte nel chiostro (La nave di Teseo), di Cristina Marra

Definito da Antonio D’Orrico “l’unico erede legittimo di Umberto Eco”, Marcello Simoni con Morte nel chiostro il suo secondo romanzo edito da La nave di Teseo, offre un altro scorcio della Ferrara di fine 1100, con un romanzo che indaga il secolo dentro un monastero femminile in cui “gravosi interrogano l’anima” della novizia Beatrice e della badessa dopo due crimini avvenuti nei pressi del chiostro. Come una sorta di delitto della camera chiusa, Simoni con grande maestria narrativa racconta le figure femminili di un secolo che regala ancora tanto da scoprire. 

Marcello benvenuto su Il randagio.

 “Morte nel chiostro” è il tuo secondo romanzo con La nave di Teseo. Quanto offre ancora il territorio di Ferrara a uno scrittore di gialli?

Tantissimo. Le terre del Ferrarese sono fatti di sogni e nebbia. Materiale effimero che si moltiplica all’infinito nella fantasia di un narratore. Soprattutto se parliamo di storia e di misteri.

Stupire e divertire sono i tuoi obiettivi? Il Medioevo è un’età che si presta?

Tutto si presta a suscitare lo stupore. L’importante è la prospettiva che si adotta nel raccontare. Ma il Medioevo, in special modo, è uno scrigno inesauribile di meraviglie. Da Oriente a Occidente, sul mare e lungo le città costiere dell’Italia, la Spagna, e l’Africa, per non parlare della Terrasanta, non esiste un solo istante di questo arco di mille anni in cui non si possa ambientare un’avventura. Almeno, se si guarda dal mio punto di vista.

La figura di Ildegarda di Bingen quanto è stata per l’epoca ed è tuttora un esempio di donna indipendente?

Ildegarda è stata molto di più di una donna indipendente. Ha dimostrato, con la sua vita, con le sue profezie e con le sue opere scritte, che una donna poteva gareggiare in sapienza con i grandi studiosi e teologi dell’Evo di Mezzo. È un esempio di libertà intellettuale che trascende l’epoca in cui è vissuta, restando tuttora attualissima.

Nei tuoi romanzi spesso ti soffermi su personaggi femminili ma in questo le donne sono protagoniste sia da vittime che da investigatrice. Com’è stato approcciarsi alla donna medievale e perché hai scelto di dedicare loro questa storia?

Desideravo da tempo scrivere un romanzo in cui i protagonisti principali fossero donne. L’ho cercato, progettato e inseguito finché non mi sono sentito pronto ad approcciarmi a questo complicatissimo e squisito universo. È stata, per la mia crescita di narratore, una boccata d’aria fresca. E un’esperienza che desidero al più presto ripetere.

Brevi capitoli e ritmo incalzante nonostante la scena narrativa sia chiusa dentro un convento. Hai usato uno stile cinematografico?

Ho usato uno stile alla Marcello Simoni. Quello che sono abituati a leggere i miei lettori dai tempi del primo Mercante. Una scrittura che si traduce facilmente in immagini.

Le due consorelle detective sono anche due generazioni a confronto?

Non le ho concepite come un confronto generazionale, ma come due punti di vista differenti a confronto: quello della badessa matura educata in uno scriptorium e quello della giovane vedova diventata novizia. Si tratta di “modelli” coesistenti nella maggior parte dei chiostri medievali. Realtà vive e pulsanti, capaci di suscitare curiosità e fascinazione.

Gli animali hanno ruoli simbolici nei tuoi romanzi?

Assolutamente sì. Del resto, ci troviamo nel Medioevo. Falchi, gufi, colombe e civette, ma anche cani, cavalli e pipistrelli appartengono non solo alla quotidinaità dell’uomo dell’Evo di Mezzo, ma anche al suo immaginario e alla sua cultura simbolica. Che per inciso, è molto più ricca e profonda di quella attuale, dove tutto viene omologato dalla IA. I tuoi disegni accompagnano la narrazione

Quanto ti senti uno scrittore randagio nella tua ricerca storica?

Un randagio apparente, perché ho sempre in tasca la mia bussola di ricercatore storico. Quando scrivo, so sempre come e dove muovermi. E per quanto possa vagabondare dentro la mia fiction, tengo sempre di vista una foresteria o una locanda in cui poter riposare.

Cristina Marra