Alexandre Dumas: Inciuci e cose truci, di Bernardina Moriconi

Da poco si è concluso l’ennesima fiction sul Conte di Montecristo. Ennesima già, perché una storia così ben architettata, straripante di passioni trame oscure e vendette, fa impallidire molte delle sceneggiature di film e serie attuali, e questo spiega il proliferare di versioni e riletture del buon Montecristo.  Ci voleva la fervida mente di Alexandre Dumas per un simile parto. Il quale però si faceva aiutare da numerosi ghostwriter, che al tempo erano  chiamati “negri”:  gran bel paradosso per chi, come Alexandre, era effettivamente di colore, essendo mulatto per lato paterno poiché la nonna era una schiava nera di Haiti soprannominata la femme du mas  (donna della masseria):  quel “du-mas” era diventato poi il cognome  del padre del futuro scrittore, che per disaccordi familiari aveva ripudiato nome (e titolo nobiliare) paterno  a vantaggio del soprannome della mamma caraibica.

Ordunque, Alexandre era un vero mezzo “negro” che si serviva di finti “negri” che per guadagnare lo aiutavano nella sua sconfinata attività letteraria. Fra questi il più famoso, e che collaborerà anche alla stesura del Conte di Montecristo, risulta Auguste Maquet, scrittore in proprio ma che si arricchì grazie alla collaborazione con Dumas, almeno fino a che i rapporti fra i due si guastarono e finirono in tribunale, rivendicando, il Maquet, la paternità (o copaterintà) di numerose opere del suo datore di lavoro.  

Maquet non riuscì ad avere il suo nome sulla copertina di alcun libro di Dumas, ottenne però  una lauta ricompensa in quattrini e pare che il Castello di Sainte-Mesme in cui morrà nel 1888 lo avesse acquistato coi proventi dei romanzi  cui aveva messo mano,  mentre il papà dei tre moschettieri, sommerso da debiti, fu costretto a mettere all’asta lo splendido  “Castello di Montecristo”, che si era fatto costruire in un terreno da lui acquistato appositamente, e a riparare frettolosamente sebbene temporaneamente all’estero, inseguito da un’orda inferocita  di oltre centocinquanta creditori. 

Al di là comunque degli scrittori fantasma, un aiutino per le sue opere Dumas lo ricavava anche da testi altrui  (vedi il ciclo dei Tre moschettieri per cui si ispirò alle Mémoires de Monsieur d’Artagnan, versione romanzata di un moschettiere realmente vissuto) o  da fatti di cronaca.  Come nel caso di Montecristo per cui attinge a una efferata vicenda di crimini e vendette. Questa in breve la storia. 

Un poveretto, tal Pierre Picaud di professione calzolaio,  viene accusato di essere una spia al soldo britannico da tre amici invidiosi delle prossime nozze del loro “amico” con una ricca donzella di nome Marguerite. Pierre viene così messo in catene proprio il giorno degli sponsali per ordine del duca di Rovigo, generale e già a capo della gendarmeria imperiale nonché fedelissimo di Napoleone da cui aveva ottenuto il titolo nobiliare. Picaud, ignaro dell’accusa, rimane incarcerato per ben sette anni nella Fortezza  di Fenestrelle, in Val Chisone. Qui, come accadrà al suo emulo letterario, scavando una galleria finisce nella cella attigua dove si trova  in catene un uomo di chiesa, parimenti italiano come l’abate Faria, tal padre Torri, il quale in punto di morte gli lascia in eredità il suo tesoro che si trova nascosto a Milano. Nessuna fuga rocambolesca per Picaud:  liberato dopo la caduta di Napoleone nel 1814, forte del tesoro e di una falsa identità, progetta una feroce vendetta. Elimina a uno a uno coloro che lo avevano tradito, lasciando come unica traccia del suo delitto  una scritta con numero progressivo (numero uno, numero due, numero tre).

 

La vendetta più lunga e subdola è quella ordita ai danni di Mathieu Loupian, il quale, all’epoca di fatti iniziali, vedovo e con due figli a carico, aveva messo gli occhi sulla ricca fidanzata di Pierre, Marguerite che ora è sua moglie. In più, è diventato proprietario di un bel ristorante nel quale, sempre tramite raggiri, Picaud si fa assumere come cameriere. A questo punto si scatena: fa sedurre e metter incinta la figlia da un delinquente che si era spacciato per un aristocratico italiano e che il giorno delle nozze riparatrici scompare non prima di aver inviato un biglietto a ciascun invitato svelando la sua reale identità; riesce a traviare l’altro figlio di Loupian  con cattive frequentazioni e un furto per cui finisce in carcere per lunghi anni; fa poi incendiare il ristorante dell’uomo riducendolo sul lastrico e mentre Marguerite era nel frattempo morta di crepacuore, Picaud, fingendosi sempre solidale e affezionato al suo datore di lavoro, si offre di mantenere lui e la figlia in cambio però dei favori di quest’ultima. Non pago, durante una passeggiata notturna giunge al culmine della sua vendetta uccidendo  anche il Loupian (il numero tre). Ma poiché il male genera male, anche Picaud farà una brutta fine, ucciso da Allut, cioè colui che, in cambio di un diamante, aveva svelato  a Picaud appena tornato dal carcere sotto falsa identità  tutta la storia del suo arresto e delle persone coinvolte. Rifiutandosi di sottostare al ricatto di Allut che pretende altri soldi in cambio del silenzio, Picaud viene ucciso diventando il quarto e ultimo morto della tragica sequenza.

E l’isola di Montecristo, direte voi, con tutto il suo fascino e mistero, non c’entra proprio nulla? No, no, qualcosina riguarda anche l’isola toscana,  perché alla mente fervida di Dumas non doveva essere sfuggita  una leggenda relativa a Montecristo, in cui si vagheggiava di un tesoro presente nell’isola, frutto di donazioni ecclesiastiche, che era stato custodito e poi nascosto dai monaci dell’abbazia di San Mamiliano, edificata nel V secolo e poi abbandonata nel ‘500 a cause di frequenti incursioni piratesche. 

E giacché nelle leggende si nasconde spesso un fondo di verità, qualcuno di voi che abbia avuto bontà di leggere fin qui potrebbe decidere – ipso facto – di tentare la fortuna cercando la fortuna nell’isola di Montecristo. Buona fortuna! 

Ma, al rientro, niente vendette, per carità!

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.

Luigi Natoli: I Beati Paoli, di Sonia Di Furia

Nessun romanzo d’appendice fu mai tanto popolare quanto I Beati Paoli che Luigi Natoli, con lo pseudonimo di William Galt, scrisse appositamente per il Giornale di Sicilia, pubblicandolo in 239 puntate dal 6 maggio 1909 al 2 gennaio 1910. Qui viene proposto nell’edizione della Flaccovio editore che si fregia dell’introduzione di Umberto Eco (Rizzoli, nel 2024, ne ha proposto una nuova edizione con prefazione di Giorgio Vasta). 

L’autore si ispirò alle gesta dei componenti di una società segreta, il cui ricordo ancora oggi è mantenuto vivo da una costante tradizione orale; di una, quella dei Beati Paoli, che il popolo, con ostinazione, pretende essere stata formata da giustizieri e non da sicari.

Gramsci afferma che il romanzo d’appendice favorisce il fantasticare dell’uomo del popolo sull’idea di vendetta e punizione dei colpevoli dei mali sopportati; dobbiamo allora convenire che nel romanzo di Natoli ci sono tutti gli elementi per favorire tali fantasticherie e propinare un narcotico che attenui il senso del male.

Luigi Natoli, attento conoscitore della storia e dei costumi del popolo siciliano, non si limitò nella sua narrazione a prendere lo spunto delle leggendarie vicende della misteriosa setta, ma sviluppò l’intera trama del romanzo ambientandola con scrupolosa aderenza alla realtà storica e a quella topografica,  da cui l’azione dei numerosi protagonisti si discosta soltanto eccezionalmente e solo in quei pochi casi in cui esigenze letterarie lo impongono. Pochissimi i personaggi immaginari, ma anch’essi così abilmente inseriti nel carosello storico settecentesco da far sì che il lettore non distingua più la realtà dall’immaginazione.

Il romanzo di Natoli, sin dal suo primo apparire, fu seguito con grande interesse. Non entrò soltanto nelle case della povera gente e nelle portinerie delle abitazioni del medio ceto, ma conquistò l’interesse anche della borghesia siciliana. Per gli abitanti del quartiere del Capo, che per tradizione si ritenevano i legittimi discendenti della setta, il romanzo divenne al contempo sillabario e testo sacro, tenuto al capezzale del pater familias che, nelle lunghe sere d’inverno, ne leggeva i diversi capitoli a parenti e vicini che lo attorniavano ascoltandolo nel più religioso silenzio.

Il periodo in cui si svolgono i fatti narrati nel romanzo va dal 1698 al 1719. Esso segna una delle epoche più complesse per contrasti di idee e di principi. La guerra tra la Spagna e la Francia era finalmente cessata ma, dopo qualche anno, a Carlo III, morto senza lasciare eredi, era succeduto Filippo di Borbone, secondogenito del Delfino di Francia, che assunse il nome di Filippo V, riconosciuto ed acclamato a Palermo come re di Sicilia, inaugurando così il dominio della dinastia borbonica nell’isola, dove però esplodevano e venivano soffocate nel sangue sedizioni e rivolte.

Furono giustizieri o sicari i componenti di questa setta? Certamente l’uno e l’altro contemporaneamente. Giustizieri, quando operarono per vendicare delitti impuniti ed impedire soprusi; sicari, quando invece si prestarono ad eseguire vendette personali o allorché si servirono dell’alone di mistero che li circondava e dell’indubbio favore popolare per compiere delitti comuni.

Poche sono le notizie sulla setta dei Beati Paoli, ancora minori sono quelle relative ai suoi appartenenti. Si sa per certo che un famoso vetturino di nome Vito Vituzzu, probabilmente fu uno degli ultimi Beati Paoli. Il motivo per il quale i componenti della setta si chiamassero così e la data di inizio della loro attività rimangono alquanto incerti.

La Palermo settecentesca in cui sono ambientate le vicende è resa da Natoli, che si rivela profondo conoscitore della topografia coeva della città, in modo talmente reale da identificare perfino i più minuti particolari. Nel romanzo rivivono le piazze, le strade, i vicoli, i cortili, i palazzi dei nobili, i conventi e i monasteri, le misere abitazioni del popolo, ma anche la vita dei suoi abitanti, i loro usi e i costumi oggi i gran parte scomparsi.

All’inizio del XVIII secolo, epoca in cui, come già detto, si svolgono i fatti narrati, la città era ancora compresa entro la cinta muraria secentesca, ma era già scomparsa la sua divisione nei quartieri dell’antico nucleo punico-romano, del periodo arabo e di quello sorto sulle aree del naturale interramento dell’antico porto.  Sontuosi palazzi di nobili potenti, grandiosi complessi conventuali occupavano buona parte dell’area urbana. I poveri, gli artigiani, i piccoli borghesi si concentravano nelle umili abitazioni degli antichi quartieri dove gli artigiani, riuniti in maestranze e congregazioni, innalzavano altre chiese ai loro santi protettori. Vicino al quartiere militare sorgeva l’antica reggia normanna, palazzo del viceré; in una delle piazze principali aveva il suo palazzo il Tribunale della Santa Inquisizione con le sue tremende prigioni.

Ma le vicende, i fatti e le azioni che vengono narrati non riguardano soltanto la città che emerge dal suolo. C’è un’altra Palermo nascosta, fatta di grotte, di cripte, di lunghi e tortuosi cunicoli; una vera e propria città sotterranea misteriosa e sconosciuta; regno incontrastato dei Beati Paoli che qui avevano il loro tremendo tribunale e attraverso la quale raggiungevano ogni luogo interno ed esterno di Palermo.

Dov’era precisamente il tribunale dei Beati Paoli? Secondo la tradizione il luogo di riunione dei componenti la setta fu identificato in una cavità sotterranea esistente nel quartiere del Capo, in prossimità della chiesa di S. Maria di Gesù. L’ingresso alla Palermo sotterranea era fornito dal primo piano di un’abitazione privata, casa Baldi, attraverso una porticina che percorre la superficie che copre una grotta sottostante. Giunti a una grata di ferro si ridiscendono cinque scalini di pietra rustica che portano a un piccolo altare, anch’esso di pietra, al lato del quale si trova una piccola stanza oscura che funge da nascondiglio. Al centro, un tavolo sul quale venivano poggiate le carte degli atti e dei segreti di quei micidiali giudici. Da lì si entrava nella grotta principale dove si trova un’ampia camera con sedie lungo tutto il perimetro, nicchie e scansie alle pareti, per deporvi le armi sia da fuoco che da taglio. Qui si riuniva la setta a lume di candela allo scoccar della mezzanotte. Oltre all’ingresso di casa Baldi, la grotta aveva un altro accesso attraverso una porticina che si apriva nel vicolo degli Orfani, ancora oggi esistente.

Sarebbe facile considerare I Beati Paoli un prodotto tardo del romanzo storico, ma la chiave giusta per leggerlo sta nel considerarlo un esempio di romanzo popolare, i cui ascendenti sono Dumas, Siie, Gramegna. Le vicende narrate si svolgono a partire dal 1713. Cavalcando il suo scheletrico ronzino, lo spadone al fianco, Blasco di Castiglione, cuore tenero, buontempone e testa calda, fa il suo ingresso a Palermo. Volendo scoprire il segreto della sua nascita, incontrerà don Raimondo della Motta che, pur di cingere la corona ducale, ha commesso ogni tipo di crimine; la splendida e turbolenta Donna Gabriella, che sa cosa vuol dire amare fino a morire; lo sbirro Matteo Lo Vecchio, campione di scelleratezza; Violante, bella come un sogno di purezza; il misterioso Coriolano della Floresta. Scoprirà una città di palazzi arabi, di chiese spagnole, di fortezze normanne, con i suoi quartieri e le sue catacombe dove si riunisce la setta dei Beati Paoli.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Luigi Natoli: “I Beati Paoli” (Sellerio), di Bernardina Moriconi

Ogni tanto ne sentivo parlare, di questo romanzo, o meglio del titolo, I Beati Paoli: per la verità, non ne  conoscevo né l’autore né l’epoca di scrittura. Poi me ne dimenticavo. Insomma, per anni appariva e scompariva, proprio come i misteriosi (leggendari?) adepti della società segreta da cui prende titolo il romanzo. Quando per caso ho letto che anche Umberto Eco si era interessato all’opera agli inizi degli anni Settanta, curandone  la prefazione per le edizioni Flaccovio, ho deciso che era giunto il  momento di leggerlo. Mi sono procurata il libro e mi sono ritrovata nel bel mezzo di un romanzone d’appendice (così nacque in effetti), composto dallo scrittore siciliano Luigi Natoli che, con lo pseudonimo di William Galt, lo pubblicò in 239 puntate  sul ‹‹Giornale di Sicilia›› tra il maggio del 1909 e  il gennaio del 1910.

 

L’opera è ambientata tra la fine del’ 600 e il primo quindicennio del XVIll  secolo, in particolare in quel brevissimo periodo in cui la Sicilia, dopo la pace di Utrecht, passò nelle mani dei Savoia,  di Vittorio Amedeo lI, per la precisione: un assaggio o una prova generale di un qualcosa che sarebbe giunto a compimento cento e passa anni dopo, ma con già tutte le premesse di quello che avrebbe comportato il processo di piemontizzazione di un territorio con una storia, un’economia e un ambiente umano e naturale assai diverso e lontano, non solo geograficamente, dalle terre sabaude. 

Il romanzo è avvincente, intrigante, appassionante addirittura. Ovviamente con debiti smisurati verso autori canonici del genere, in primis il buon  Dumas (in particolare quello dei Tre moschettieri con qualcosa del Conte di Montecristo), e poi non poteva mancare l’impronta dei maggiori rappresentanti del romanzo sociale: lo Hugo dei Miserabili e il Dickens (in particolare penso a Le due città e più in generale alla dicotomia dickensiana  tra personaggi buonibuonissimi e cattivicattivissimi).

Poco o nulla, invece, dei grandi autori conterranei, precedenti o successivi, che hanno raccontato con sapienza e passione la Sicilia. Non c’è per esempio, l’ironia raffinata e a tratti quasi impercettibile che Tomasi di Lampedusa quarantotto anni dopo (e quindi quando già il Natoli era passato a miglior vita) avrebbe disseminato con elegante e innata perizia nel Gattopardo (ironia che in gran parte si è persa  anche nel patinato e pur sempre splendido film di Visconti) e manca il lucido e spietato affresco epocale dei Viceré di De Roberto.

C’è da dire che il Natoli di società segrete se ne intendeva, essendo stato egli stesso massone e provenendo da una famiglia di ardente spirito mazziniano e risorgimentale, al punto che nel 1860 – Luigino era nato da soli tre anni – tutta la famiglia venne arrestata dai soldati borbonici avendo indossato la camicia rossa per festeggiare il prossimo arrivo di Garibaldi coi suoi uomini.

Dato il successo di pubblico, Natoli scrisse anche una continuazione che credo, a fiuto, costituisca più una sorta di spin off ante litteram e che si intitola Coriolano della Floresta ovvero il segreto del romito. Per la cronaca, dal romanzo I beati Paoli nel 1947 è stato tratto anche un film, dall’accattivante titolo I cavalieri dalle maschere nere, diretto da Pino Mercanti, regista di film di cappa e spada, di musicarelli e di drammoni sentimentali.  Esiste inoltre una versione a fumetti del romanzo realizzata nella metà degli anni Settanta da Nino Calabrò in 192 tavole che uscirono poi negli anni Ottanta in forma di inserti allegati al ‹‹Giornale di Sicilia››.

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.