Francesca Chiesa: “Diversamente sole” (Edizioni Open), di Francesca Chiesa

Abbiamo chiesto alla nostra amica Francesca Chiesa, veneta da Syros nelle Cicladi, di parlarci del suo ultimo libro “Diversamente sole” (Edizioni Open) da qualche giorno in libreria.

LA QUINTA STORIA

Borges individua, in El oro de los tigres, quattro racconti che percorrono la storia dell’umanità, Los cuatros ciclos.

  • L’inutile difesa di una città assediata. Achille sa che il suo destino è morire prima della vittoria. Omero e Yeats la canteranno.
  • La storia di un ritorno. Quella di Ulisse; e quella degli dei del Nord.
  • La storia di una ricerca. In passato, fortunata – Giasone e il Vello. Nella modernità, sconfitta – l’Achab di Melville, il K. di Kafka.
  • La storia del sacrificio di un dio. Attis, Odino, Cristo.                                        

Inevitabilmente, ne manca una: l’innamorato di Maria Kodama forse l’ha dimenticata, forse non la conosceva. Anche noi vorremmo dimenticarla e invece va trasformata in racconti, in una quantità di racconti, nella maggiore quantità di racconti possibile: tutte le storie di tutte le solitudini di tutte le donne.

Per raccontare si possono usare romanzi o racconti. Anche poesie, che sono tuttavia racconti per immagini. Io ho scelto i racconti. Un racconto non è un romanzo breve, un racconto quando riesce proprio bene è un pugno allo stomaco, un lampo che ti lascia il segno sul fondo della retina. Un romanzo è progettato per un ambiente, un racconto è prodotto da un ambiente.

L’ambiente che produce le mie storie è un’ampia area che comprende il mondo indoiranico, la Russia a nord, a sud e ovest la penisola araba e l’Africa orientale, e in parte l’area mediterranea. Le terre in cui ho trascorso la mia vita, ma anche il mondo dove il racconto è nato, in forma di novella.

Il romanzo, che in un tempo assai lontano fu poema epico e successivamente romanzo alessandrino o greco-romano che dir si voglia, poi da roman cortese divenne romanzo borghese e tutto questo percorso fece senza che mutassero gli elementi che lo caratterizzano: essere un concatenarsi di eventi in forma causale e svolgimento temporale; essere l’espressione degli strati dominanti della società di una determinata epoca.

La novella/racconto è il memorandum della vita quotidiana, ciò che si annota per fissare la memoria, per conservare il ricordo. Il racconto mi ė sempre apparso lo strumento ideale per narrare un mondo in cui il reale ė ciò che accade.[1]

I miei racconti sono prodotti dai luoghi in cui sono vissuta. Dal tentativo di cogliere le forme di vita che fanno di ogni luogo ciò che ē.

Se fossi stata brava a usare matita e pennello, avrei disegnato l’eleganza delle euforbie in Eritrea, la fioritura degli Alberi di Giuda che tinge di sangue le strade del centro di Teheran, l’oro del brevissimo autunno di Mosca, l’azzurro del crudele mare di Libya.

Se fossi stata metodica, avrei annotato le ricette della cucina greca che amalgama oriente e occidente; le tradizioni della nostra cucina di campagna, arte di nonne che custodivano il segreto del soffritto; la chiave dello zafferano persiano che profuma e del colchico che uccide; il mosaico di colori del fattush libanese che fa dimenticare e si prepara insieme, sedute intorno a un tavolo a tagliuzzare.

Invece mi piace scrivere e così racconto quello che conosco meglio: le donne, perché sono donna, e la solitudine, sostantivo di genere femminile. Cercando di capire, donna dopo donna, chi davvero sostiene il peso di questa solitudine.

Dalla presentazione di Diversamente sole:

“Diversi sono i modi di essere donna che puoi incontrare sulle strade del mondo, ma c’è un aspetto dell’esistenza che ci accomuna tutte e appartiene solo a noi: la solitudine.

Questo è un libro scomodo, non racconta storie a lieto fine, anzi, le storie che racconta appartengono al genere di quelle che non finiscono mai.

Di tutte una soltanto, a mio giudizio, si risolve in una speranza di serenità: potrebbe essere definita fiaba di una nipotina che trova un nonno, ma questa è solo la seconda parte di La vergine di Malindi e La figlia della vergine.

Delle altre posso dire che offrono un’unica rassicurazione, si svolgono in una realtà molto lontana dalla nostra. Tranne l’ultima, che appartiene al passato povero della mia terra, il Veneto, al tempo in cui la solitudine si mescolava con la povertà e generava mostri: Tre + due ragazze belle, vendono il poco che hanno.

La trovi ovunque, la solitudine, negli interstizi della vita altrui e ovunque ci sia da portare pesi, nascoste agli occhi del mondo o appena appena sogguardate, come la donna che sputa quasi di nascosto sui dittatori (Ma i dittatori sognano isole sbagliate?) e le ragazze di Tripoli che rifiutano quelle di un altro colore.

Il mare che divide la Libia dalla Sicilia ne sa qualcosa, di solitudine: dentro uno di quei gusci di noce che ballonzolano disperatamente sulle onde, ho lanciato uno sguardo e ho trovato una novella Sherazade, il suo nome è Haben e rappresenta tutte le mie allieve eritree, e ricorda Tutte quelle in fondo al mare.

Ogni donna vive con la sua peculiare solitudine: non fa molta differenza che gliel’abbia regalata il mondo o se la sia ella stessa confezionata, come accade ad esempio a Sikina, la protagonista del racconto Di corsa, che ha sposato un uomo speciale ma se n’è accorta troppo tardi.

Ci sono le solitudini coraggiose, nobili, fiere e c’è la solitudine delle donne che vivono in mondi meschini che le hanno plasmate ma di loro non sanno che farsene: sono Quelle del Waddan, appendici di un mondo che si sente privilegiato

La solitudine ti guarda sempre con lo stesso volto, ma non tutte le storie di solitudine si assomigliano. Ci sono quelle che ti lacerano dentro e ti fanno sentire corresponsabile di quanto accade: ad Afra di Tawergha e alla figlia di Rosa, a Ghinda, cui è stato fatto assaggiare l’amaro Frutto di passione. Alle donne che mangiano insieme Fattush a Beiruth: sono amiche, in compagnia, allegre e felici: non dura.

C’è la gioia di Azadeh, che significa libertà in persiano: libera di vagare sola tra i misteri e gli incantamenti del Gran Bazar di Teheran. La mia gioiosa e stordita euforia – sì, la protagonista di Acido lisergico sono io – che sogna donne colorate, danzanti intorno al mio letto d’ospedale. E ancora Federica e Tahereh, senza uomini e senza soldi, che ubriacano di Uova sode la loro solitudine e lanciano le bucce giù dal ponte che congiunge Massawa e Taulud.

Ci sono anime rinsecchite, come quell’anziana ricca e colta persiana che non ha più nulla per cui vivere se non l’organizzazione del più perfido Matrimonio d’amore. C’è La solita vecchia storia degli uomini che inventano malignità sulle donne, e quella più lontana che racconta Come muoiono le regine. Sole, come volete che muoiano: all’ora sesta, quando tutti muoiono.

E poi vi racconto di una madre che non capisce, in Quelle della Qabila, e di una che s’innamora di Alex/Iskandar detto Alessandro Magno

C’è una sola storia, in questa raccolta, che narra di una solitudine condivisa, tra un pirata e una principessa: l’Isola Verde esiste, potete cercarla in Eritrea, loro due li ho solo sognati”.


[1] Ludwig Wittgenstein, Tractatus logicus-philosophicus 1.1, 1922.

Francesca Chiesa

Francesca Chiesa, classe 1955, laureata in filosofia. 

Ha lavorato per il Ministero degli Affari Esteri in Iran, Russia, Grecia, Eritrea, Libia, Kenia. Dal 2019 vive col marito prevalentemente a Syros, nelle Cicladi. 

Pubblicazioni recenti:

Dalla Russia alla Persia – storia di un viaggiatore per caso: Peripezie di un marinaio olandese al tempo di Alessio I Romanov e Suleiman I Safavide, La Case Books, 2023

Una storia di donne persiane: Il romanzo di Humāy e Nahid, La Case Books, 2023

Massawa e il Regno delle Isole, di Francesca Chiesa

A un anno dall’arrivo in Eritrea, ero diffidente verso Massawa, cittadina che mi appariva come una meta troppo abituale per i fine settimana di stranieri d’ogni genere. Mi sono decisa solo in un giorno di maggio, già caldo ma non soffocante di umidità.
Appena arrivata ho ignorato l’albergo e mi sono diretta verso il vecchio centro turco-italiano, accolta dalle strade deserte del mezzogiorno, prima incantata e poi abbacinata. Fu il momento, quello, in cui il fiume del mio tempo deviò per sempre dal suo alveo e si avvolse su stesso, come si avvolge il drago intorno alla perla che custodisce sul fondo dell’oceano.
Ho attraversato vari mondi da allora, fino a quest’ultima isola da cui ora scrivo, ma non ho mai lasciato Massawa, l’antica Ba’di, persiana prima di essere turca e italiana.


L’isola è la forma della solitudine voluttuosa. Un insieme d’isole non costituisce di per sé un arcipelago. In ogni isola qualcosa accade. Le isole differiscono fra loro in passato e futuro, parole e pensieri.

L’isola è la forma e Massawa il nome. Circondata dal mare, compiuta in sé. Sull’isola sorge una città che porta il suo stesso nome. L’isola ha forma di parallelepipedo, con una sorta di coda che si allunga a un angolo. È collegata per mezzo di un terrapieno a un’altra isola di forma più irregolare, a sua volta unita alla terraferma da un lungo ponte. La Città medievale, in arabo Madina al-Qadīma, occupa meno di metà della superficie dell’isola ed è circondata da mura che risalgono al periodo della dominazione turca. Sono quindi più recenti dell’abitato, che si è sviluppato a partire dalla occupazione fenicia. Nella parte restante dell’isola si è sviluppata la città nuova, un armonico agglomerato di case e piazze e chiese sorte in epoca relativamente recente, al tempo degli ultimi colonizzatori. Quando sorse la Città, il Regno delle Isole era ormai in piena decadenza. A nulla erano valsi gli sforzi che gli ultimi sultani avevano moltiplicato per assicurarsi il controllo della terraferma. Il Regno delle Isole si era sviluppato nel settimo secolo dell’era cristiana, primo dell’Egira, popolando di giardini e mercati isole madreporiche dai nomi incerti e fluttuanti. Fu inizialmente punto di approdo e stazione di rifornimento per i mercanti di schiavi ed ebano, rifugio di schiavi ribelli e principi in fuga, terra di confino e carcere imperiale. Si trasformò ben presto nel primo trampolino di lancio della fede islamica in terra d’Africa. Tutto ciò che era lusso vi era commerciato, tutte le navi che transitavano vi depositavano tasse ingenti. Tutte le duecento nove isole di cui era composto vantavano almeno un palazzo, una moschea e un bazar, ad eccezione dell’Isola delle Punizioni, dove infelici di ogni razza e paese morivano affannosamente nel tentativo di uscire da pozzi adibiti a prigione. Solo pochissimi riuscivano a salvarsi. Il Regno delle Isole raggiunse il suo massimo splendore dopo l’anno Mille, decadde dopo mezzo secolo, insieme a Venezia ma più velocemente.


Gli esseri viventi cui le isole danno ospitalità e rifugio appartengono per lo più al genere femminile. Proprio al centro di una di queste isole, la più grande, si apre una radura costellata di pozzi. C’è chi sostiene che siano stati scavati al tempo dei Persiani. Il numero dei pozzi è uguale al numerodelle isole. Ogni settimana, dopo il giorno del riposo, gli abitanti delle altre isole attraversano i bracci di mare che li separano dall’Isola dei Pozzi per fare provvista d’acqua. Si muovono su imbarcazioni che sembrano fatte di paglia e fango. L’isola dei pozzi è custodita dalle pari, bellissime fanciulle. Tutti gli uomini dell’arcipelago s’innamorano di una pari almeno una volta nella vita, senza essere mai ricambiati. Perché loro sono fate. 
C’è un’isola, nel Mare d’Africa, di cui nessuno conosce il nome. Quando vi sbarcai la prima volta, era tutta sabbia e palme e oro e verde e azzurro. Gli abitanti vivevano di commerci e favole, di cui erano ghiotti. Usavano ospitare, con grande piacere, i corsari di tutti i mari. Quelli che viaggiano trascinandosi appresso enormi carichi di racconti che non vedono l’ora di depositare in qualche taverna o in qualche isola. Sull’isola s’insediò, un giorno, un predone. Quando vi ritornai, la trovai circondata da un muro di cemento. Ho incorniciato la mia isola, si vantava il predone. Nessuno più, tra gli isolani, ricordava il profumo e il colore del mare.
Gli armatori di navi, arabi e persiani, sanno quando è il momento di salpare, lasciandosi alle spalle la costa dei banadīr. Non ignorano che l’Oceano Indiano – violento e tenebroso tra i due equinozi – si rischiara e si calma quando il sole arriva al segno del Sagittario. Quanto è profonda la loro conoscenza dei movimenti del mare, tanto è inesplicabile il fatto che tutto ignorino della configurazione di quella vasta distesa d’acqua. Spendono lunghe ore a immaginarne i contorni, nelle notti di bonaccia, e la paragonano ora a un uccello ora a una foglia ora al profilo di una giara. Tratteggiano linee sulla carta, sulla seta, sul legno e il tracciato non è mai lo stesso. A eccezione dell’Isola dei Tre Desideri: non c’è chi non ne abbia una conoscenza particolareggiata e tutti disegnano con accuratezza il profilo delle sue coste. Completo di golfi e seni e rientranze, corsi d’acqua e pozzi e villaggi, rilievi e macchie di vegetazione. Una croce cremisi sta a indicare la pietra su cui si deve posare il capo per dormire e sognare l’avverarsi di tre desideri.


Tra le tante isole binarie che affollano il Gran Mare, l’Isola degli Haiku e quella dei Poemi attirano sovente la mia attenzione. Mi perdo tra le due, non sapendo quale preferire.
Nell’isola dove sostano a novembre i marinai di Rum, di ritorno dall’India; dove scambiano con eccelsi profumi i loro abiti usati e qualche vetro colorato. Qui vive una donna. Coperta malamente da una stola di tela di sacco, trascina i lunghi capelli nella sabbia. Passa la maggior parte del suo tempo in faccia al mare, sdraiata sopra un mucchio di rifiuti. Ha gli occhi persi e quelli che sembrano rifiuti sono in realtà balle di merce, invenduta e dimenticata. Il lino finissimo di cui è intessuta la stola che porta è tutto incrostato di sabbia. Molte cose vengono scordate nei porti e lei su questo contava, quando è rimasta indietro al momento di reimbarcarsi.
Nell’Isola delle Sottili Scaltrezze vivono una cortigiana e la sua pupilla. La cortigiana è una donna molto magra. Si copre con vestiti ampi per celare la sua magrezza e sorride sempre. Si dice che un tempo questa fosse l’isola dove un ghul opprimeva gli abitanti con il pretesto di proteggerli. Un ghul dal volto bruciato, il cui padre si era impadronito dell’isola arrivando dal paese degli obelischi, quel paese che non ha sbocco al mare.
Nell’Isola dei sessantasette scalini si preparano al combattimento in boschetti ariosteschi, e così le loro donne; si lanciano insulti e provocazioni e così le loro donne. Il Bianco e il Nero combattono: il Nero è alto e possente, il Bianco di fronte a lui è una sottile verga d’acciaio. Nessuno dei due vince ma entrambi muoiono oppure se ne vanno. Rimangono le donne, vestita una di rosso e una di azzurro e non si sa chi amava chi.
So per certo che l’Isola di Shajara un tempo era un albero e mutava di colore con il succedersi delle stagioni. D’autunno, al tramonto, s’infuocava d’oro rosso e i naviganti costruivano leggende su di lei. Anche Shajara è scomparsa, com’è scomparso il mare insieme al profumo del fuoco.
C’è un’isola di cui non ricordo nome e posizione ma solo che è cinta da un quadruplice ordine di colonne di marmo antico, coperte da venature azzurre e verdi. Di antica umidità. È abitata da un jinn di nome Jamīl. Questo so di lui: se c’è chi lo guarda immediatamente sparisce, lasciando dietro di sé un piccolo gorgo di luce. Molti pensano di averlo visto, in molti luoghi diversi. A tirare un carretto nel bazar di Tehrān, per esempio. È anche raffigurato tra i dignitari che salgono, a passi lenti, la scalinata ormai inutile dell’Apadana.
L’Isola delle Trasparenti Presenze deve il suo nome a una diafana specie di granchio, del colore che hanno le perle prima di essere tali. Ieri sera c’è stata una festa sull’Isola delle Perle che hanno il colore delle rose. Della festa questa mattina rimane soltanto un tavolo coperto da una tovaglia bianca. A lato del tavolo, due bottiglie e un calice. Nessun ricordo, invece, della luna gigantesca e rossa che si è levata all’improvviso nella notte. Come sempre accade in quella parte di mare che alcuni chiamano Golfo Arabo, altri Oceano Indiano, altri ancora Mare Eritreo.

Francesca Chiesa

Francesca Chiesa, classe 1955, laureata in filosofia. 

Ha lavorato per il Ministero degli Affari Esteri in Iran, Russia, Grecia, Eritrea, Libia, Kenia. Dal 2019 vive col marito prevalentemente a Syros, nelle Cicladi. 

Pubblicazioni recenti:

Dalla Russia alla Persia – storia di un viaggiatore per caso: Peripezie di un marinaio olandese al tempo di Alessio I Romanov e Suleiman I Safavide, La Case Books, 2023

Una storia di donne persiane: Il romanzo di Humāy e Nahid, La Case Books, 2023