Ritenuta per molto tempo un’opera marginale, Le Voci di Marrakech (Die Stimmen von Marrakesch, pubblicato nel 1967) è invece senz’ombra di dubbio uno dei libri più belli e affascinanti di Elias Canetti. Ed essendo anche il più accessibile, può sicuramente considerarsi come il miglior viatico per affrontare l’universo complesso del pensiero del Premio Nobel bulgaro, naturalizzato inglese, di lingua tedesca.
Nato come resoconto di un viaggio del 1954 al seguito di una produzione cinematografica, queste note, meglio dire queste impressioni e riflessioni offrono, in quattordici racconti senza alcuna trama, un sorprendente ritratto della città marocchina e dei suoi abitanti, con straordinarie descrizioni di piazza Djema El Fna, del suk, della Mellah (il quartiere ebraico) e dei loro frequentatori, mendicanti ciechi, bambini, poeti di strada, asini picchiati brutalmente e cammelli portati al macello, tutti, uomini e bestie, accomunati da una drammatica lotta per la sopravvivenza.

Ma non si pensi di poter ridurre il libro di Canetti ad una guida turistica per quanto splendida, in quanto la descrizione della città è personale e disorganica e trascura luoghi d’interesse che il turista potrebbe ritenere imperdibili. Inoltre, le osservazioni della città sono spesso solo lo spunto per digressioni di carattere filosofico universale.
Quegli scorci, quelle piazze e quelle strade, quei vicoli dove perdersi è la normalità, quelle terrazze dei caffè, quei cortili che offrono rifugio dal caos e dai rumori, stimolano non solo l’esplorazione dei luoghi, ma soprattutto invitano ad intraprendere un percorso a ritroso in cui lo straniero viaggia verso se stesso:
“Davvero in quel momento mi sembrò di essere altrove, di aver raggiunto la meta del mio viaggio. Da lì non volevo più andarmene, ci ero già stato centinaia di anni prima, ma lo avevo dimenticato, ed ecco che ora tutto ritornava in me. Trovavo nella piazza l’ostentazione della densità, del calore della vita che sento in me stesso. Mentre mi trovavo lì, io ero quella piazza. Credo di essere sempre quella piazza.”
In questo labirinto di strade e di mercati, di posti incantevoli e desolati, Canetti – un po’ flaneur alla Benjamin, un po’ Orwell che nel ‘39 aveva scritto di un suo viaggio in Marocco – tesse una ragnatela di storie vivaci, compone una sinfonia con le voci e i bisbigli, i mormorii e le urla di dolore e di gioia di una vasta gamma di personaggi; inquadra peraltro con le sue acute sequenze anche la pena degli animali, all’ultimo gradino nella scala degli sfruttati e dei derelitti.
Le prime pagine del libro immergono il lettore tra la folla di Djemaa el Fna, la piazza centrale di Marrakech, un microcosmo della città stessa con una sua particolare vitalità. Qui i cantastorie ipnotizzano e catturano il pubblico col racconto di antiche epopee, mentre acrobati, incantatori di serpenti, musicisti e artisti offrono il proprio talento a locali e turisti.
Dalla piazza il narratore si sposta verso il suk, il labirinto di stradine dove riecheggiano le grida melodiche dei venditori d’acqua o i ritmi ipnotici di musica Gnawa che si fondono coi suoni anche religiosi della città, la chiamata alla preghiera dai minareti o i canti mistici sufi.
Una moltitudine di voci ma anche una mescolanza di lingue incomprensibili di mercanti e artigiani e musicisti rivenienti da diversi contesti etnici, comunità culturali distinte che lavorano, vendono, contrattano, suonano gli uni accanto agli altri.

Ci sono uomini che cantano il nome di Allah; o un mendicante cieco, un marabù che si infila in bocca e mastica la moneta ricevuta in elemosina per identificarne il valore ma anche per dare la sua benedizione al donatore:
“Il vecchio aveva finito di masticare e sputò fuori la moneta. Si girò verso di me e il suo volto era raggiante. Recitò per me un versetto di benedizione che ripetè sei volte. La gentilezza e il calore da cui mi sentii pervaso mentre lui parlava, non li ho mai ricevuti da nessun altro essere umano.”
L’atmosfera è decisamente diversa nella Mellah, il quartiere ebraico che peraltro oggi è scomparso. Essendo Canetti sefardita di origine spagnola, la visita alla comunità giudaica di origine iberica dà al suo viaggio il sapore di un ritorno a casa, alle origini. In tal senso Marrakech non è un qualsiasi posto esotico, ma un luogo legato profondamente alla sua storia personale.
Qui lo sguardo dell’autore avverte l’urgenza di penetrare spazi privati, di andare nelle case e nei cortili, catturando momenti reconditi di vita familiare, di solidarietà tra vicini, di relazioni interpersonali. Se nella descrizione della varia umanità osservata negli spazi aperti Canetti ci costringe a confrontarci con i nostri pregiudizi, ad abbracciare la diversità, ad imparare la lezione di convivenza di Marrakech; dall’altra parte, nel mostrarci lo svolgersi nella Mellah della vita a porte chiuse, ci invita ad apprezzarne il senso della comunità, ad essere genuinamente empatici, a predisporci positivamente all’ascolto dei meno fortunati. Scrive: “La mancanza di tempo è mancanza di empatia per il mondo.”
Occupandosi di una città ancora all’ombra del protettorato francese, Il libro suscita e ha suscitato giocoforza dibattiti sulla difficile questione dei rapporti tra Oriente e Occidente, tra islam, ebraismo e cristianesimo, tra colonialisti e colonizzati, sfruttatori e sfruttati. L’autore è stato da più parti accusato, forse a ragione, di un approccio “orientalista”, secondo la definizione di Edward Said, per aver adottato un certo numero di stereotipi e di cliché: l’Oriente misterioso del genere Mille e una notte, il potere erotico delle donne orientali, la pigrizia degli arabi, i cammelli, i bazar, la violenza sugli animali, ecc… Un’altra accusa mossa all’autore è di scarso interesse per i problemi sociali, politici ed economici, non avendo tenuto conto delle forti tensioni tra popolazione locale e colonizzatori (il viaggio è del ’54 e l’indipendenza del Marocco verrà conseguita nel ’56). C’è stato anche chi ha tacciato Canetti di razzismo e di misoginia, laddove invece ci sembra che abbia proposto, come già detto, una visione sensibile ed empatica, mai giudicante, sottolineando gli aspetti di pluralità etnica, culturale e religiosa. Potremmo senz’altro sbagliare, ma non crediamo infatti che Le voci di Marrakech abbiano una finalità “ideologica”, o che l’intenzione di Canetti, fatta salva la dimensione etnologica e antropologica, fosse quella di produrre un lavoro di saggistica erudita, bensì un’opera decisamente letteraria, poetica e narrativa, che celebra la gioia per tutto ciò che è umano.
“Quando si viaggia si prende tutto come viene, lo sdegno rimane a casa. Si osserva, si ascolta, ci si entusiasma per le cose più atroci solo perché sono nuove. I buoni viaggiatori sono gente senza cuore.”

Le voci di Marrakech, infatti, sono prima di tutto un’esperienza mistica e sensoriale, che immerge i lettori nelle immagini, nei suoni e negli aromi di spezie e d’incenso. Un mondo in cui lingue, tradizioni, storie e religioni si fondono armoniosamente, creando un patchwork di vita ricco e complesso. Dalle vivaci piazze ai vicoli stretti e ai mercati, la capitale culturale del Marocco del ’54 emerge come una città che esalta le differenze e abbraccia la moltitudine. Un felice esempio di convivenza che vedrà un punto di rottura proprio nel ’67, l’anno di pubblicazione del libro che coincide con la guerra dei sei giorni; e che risulta di grande attualità ed interesse oggi se si considera col senno di poi il manifestarsi di integralismi e fanatismi nell’ultima parte del Novecento e in questo primo scorcio di millennio.
Voci, citazioni acustiche, suoni che sopravvivono a tutti gli altri suoni: ogni pagina del romanzo è come la traccia di una playlist o l’episodio di un podcast, ogni racconto mette il lettore all’ascolto. E a me che non amo particolarmente gli audiolibri è capitato tra l’altro di avvicinarmi a Le voci di Marrakech nella versione recitata a Radio 3 (“ad alta voce”) da Toni Servillo, che è un’esperienza facile da recuperare e che, in questo caso specifico, mi sento di consigliare. Segnalo infine che su YouTube è possibile reperire stralci di una lettura del 1985 dello stesso autore, vecchio, provato, ansimante, che risulta commuovente anche per chi non mastica alcuna parola di tedesco.
Gigi Agnano


