Intervista a Régis Jauffret di Teresa Lussone e Christophe Reig per l’uscita in Francia di “Maman” (Éditions Récamier, Parigi)

«Mia madre è un romanzo»

Dopo Papà (Edizioni Clichy, 2020), Régis Jauffret prosegue le sue incursioni nella memoria familiare con Maman, appena uscito in Francia. L’intervista rivela uno scrittore alle prese al tempo stesso con i segreti familiari e con gli sconvolgimenti tecnologici che rimettono in discussione l’atto stesso di scrivere. Tra rivelazioni postume su una madre dal doppio volto e interrogativi sul futuro della letteratura di fronte all’intelligenza artificiale, Jauffret esplora territori in cui l’autenticità umana resiste ancora agli algoritmi.

In Maman, lei costruisce un’architettura temporale complessa: la narrazione procede per ritorni a spirale su eventi fondativi, rivelando dettagli contraddittori, e sovrappone sei temporalità distinte (memoria, scrittura, storia, mito, genealogia, anacronismo). Questa struttura è incarnata da una forma frammentaria, fatta di sequenze brevi separate da spazi bianchi. Come ha concepito e assemblato questa tessitura narrativa? Era una cornice prestabilita, o si è imposta progressivamente nel corso della scrittura?

Régis Jauffret: La genesi è stata meno metodica di quanto la vostra domanda potrebbe lasciar supporre. Il libro si è formato come una conchiglia attorno a un nucleo inatteso. Nel gennaio 2020, sul modello del dry January, avevo deciso di tenermi a distanza dai social per un mese e di tenere un diario su questa presunta astinenza. Tre giorni dopo, mia moglie mi ha svegliato all’alba per annunciarmi la morte di mia madre. D’un tratto, quel diario ha cambiato natura. Ho abbandonato ogni riflessione sulla dipendenza digitale, che peraltro era immaginaria, per annotare quotidianamente le reazioni, le incombenze, il dolore, ma anche quella constatazione quasi glaciale: non ero così sconvolto come avrei creduto. Per tre mesi ho scritto ogni sera, poi in modo più sporadico, fino a costituire un quaderno che è servito da base al libro. Vi si è innestata l’esperienza centrale: quella del tradimento, scoperta a piccole dosi, grazie alla serie di aneddoti e indizi, fino al momento in cui l’immagine che avevo di mia madre si è incrinata.

Nel romanzo, questo momento di svolta è evocato come una rivelazione determinante. Può descriverlo?

RJ: Si riduce a un ritaglio di giornale ritrovato in fondo a uno scatolone. Prima di allora avevo messo insieme racconti in cui mia madre era una salvatrice: diceva di aver accolto suo nipote, cacciato a quattordici anni da sua sorella a causa della sua omosessualità, mentre in realtà fino ai ventisette anni era rimasto a casa dei genitori, i quali non lo avevano mai allontanato. Questo genere di storia legava la sua malvagità a una sorta di gusto per la finzione morbosa. Ma quel ritaglio di giornale ritrovato in fondo a uno scatolone provava che mi aveva tradito fin dalla mia infanzia. Preferisco lasciarne il contenuto al mistero del libro. Mi limito a dire che mi ha colpito come un atto di doppiezza impossibile da giustificare.

L’ammissione esplicita – «Sembra che ne faccia un personaggio utilitaristico. Lo chiamo quando ho sete del suo amore e lo ripongo in una scatola per il resto del tempo» (p. 45) – testimonia una piena coscienza delle poste in gioco etiche che attengono alla scrittura cosiddetta “autobiografica”. Come ha bilanciato questa tensione tra fedeltà memoriale e necessità romanzesca, in particolare in un’opera che espone la sua intimità familiare al pubblico?

RJ: – Si trattava di un dilemma, sì: lasciare questo quaderno ai miei figli, sapendo che avrebbero potuto pubblicarlo dopo la mia morte, oppure chiedere loro di distruggerlo, cosa che probabilmente non avrebbero fatto. Ho scelto di trasformarlo in libro, il che mi permetteva di padroneggiarne la forma. Col tempo, il mio risentimento si è attenuato. Pur avendo la prova del suo tradimento, una parte di me voleva scusarla, trovare in quella menzogna un gesto d’amore. So che è illusorio, ma preferirei ricordarla come la madre amorevole che avevo creduto di conoscere per sessantaquattro anni. Anche al prezzo di una bugia che direi a me stesso. Credo, del resto, che sia così.

Lei insiste spesso sulla necessità di non dare l’impressione di un’infanzia infelice.

RJ: – Esattamente. Diffido della “sindrome Vipera in pugno”: far passare un’infanzia protetta per un inferno. Molti bambini, ancora oggi, conoscono la fame, l’abbandono, la violenza. Anche in Francia, alcuni vivono in una tale precarietà da avere accesso a un pasto completo solo durante i periodi scolastici, alla mensa. Nel mio caso, sono cresciuto al riparo dalle privazioni e dalle guerre. Sarebbe indecente travestire questo in un dramma fondativo. 

Quali sono secondo lei i veri ingredienti del successo letterario oggi? Bisogna ormai adeguare i propri soggetti alle preoccupazioni immediate dei lettori per sperare di raggiungere un pubblico?

RJ: Il successo è qualcosa di più sottile, per esempio in Europa si è convinti che un soggetto letterario possa interessare solo se accomodante. Ho letto recentemente il libro di un giovane autore italiano in cui si parlava dell’acquisto di un appartamento da una vecchia signora con un prezzo inferiore a quello di mercato. Il soggetto mi è parso finemente adattato a un giovane pubblico in cerca di un acquisto immobiliare. L’autore ha notato che le giovani coppie hanno un progetto immobiliare comune prima ancora di avere il desiderio di avere figli o di sposarsi. La coppia del romanzo riuscirà nell’impresa di trovare allo stesso tempo un alloggio gradevole, alla propria portata, facendo più soldi di quelli necessari per pagare il mutuo? Ecco un elemento di suspense adatto a un pubblico giovane.

D’altronde, un pubblico giovane avrà lunga vita, si prenderà il tempo di diventare maturo, adulto, vecchio, completamente smorzato prima di morire e rivelarsi ormai incapace di comprare il minimo libro. Non posso dirvi se nel romanzo questa coppia riesca nel suo intento o se la proprietaria abbia un nipote capace di metterle la pulce nell’orecchio, perché ho perso l’opera all’aeroporto di Milano prima di averla terminata (risate). Ormai non ricordo più nomi e titoli e non posso ricomprarlo ma poco importa, dato che parlavamo di formato, ecco un formato adatto al giovane pubblico d’oggi. Nella mia giovinezza non avremmo potuto provare la minima empatia per questi giovani che ci sarebbero sembrati una vera schifezza.

Di fronte a questo desiderio universale di «formato» che descrive, non stiamo forse assistendo all’emergere di un concorrente temibile, le tecnologie dell’IA, che potrebbero padroneggiare questi codici meglio di quanto facciamo noi stessi?

RJ: In realtà, l’IA ci ha messi con le spalle al muro. Sa già raccontare meglio di molti scrittori. Ho certo la vanità di pensare di scrivere un po’ meglio di CHATGPT-4, ma nel momento in cui vi parlo, la quinta versione non è ancora disponibile. Ho fatto semplici prove con la precedente, del tipo: «Scrivete una microfiction con aereo alla maniera di Régis Jauffret». Il risultato era perfetto – se me l’avessero presentata come mia, avrei detto: sì, è senza dubbio mia. Ho trovato, tuttavia, che quella storia faceva un po’ la caricatura al mio modo di scrivere. Mi sono detto anche che mi era senza dubbio capitato, senza che lo sapessi, di fare la caricatura di me stesso. L’IA rimette completamente in questione la letteratura, tanto quanto la filosofia. Non capisco perché non si siano scritte nuove opere di Kant o di Leibniz – tutto il corpus esiste e alla sua maturità un filosofo non fa che sviluppare il suo pensiero partendo dalla base di dati che costituisce la sua opera, le sue note, la sua corrispondenza, i suoi abbozzi. Nello stesso spirito, si potrebbe prolungare la Commedia umana, la Ricerca del tempo perduto, l’opera di chi volete. Se avete diciotto anni oggi, non avete più bisogno di saper scrivere: raccontate una storia, alla meno peggio, l’IA ne migliora la trama, ne rifinisce le frasi: lo stile è la cosa più facile da ottenere.

Di fronte ai sospetti crescenti riguardo l’uso dell’intelligenza artificiale da parte di alcuni romanzieri contemporanei, non pensa che bisognerebbe apporre una sorta di etichetta “100% (cervello) umano” per rassicurare i lettori?

RJ: Ma non c’è nemmeno più bisogno di sapere scrivere, basta la voce. Già adesso, la maggior parte degli sceneggiatori ricorre all’IA e i giornalisti idem. La maggior parte degli editorialisti fa almeno migliorare il proprio pezzo dall’IA. Il vantaggio è che non vengono più commessi errori di francese, i participi passati vengono accordati e talvolta le frasi sono più eleganti. Non farò nomi, dato che non leggo quasi nulla di quello che viene pubblicato – quando non perdo i libri nel corso dei miei spostamenti – posso assicurarvi che non ho nessuna lista di nomi in tasca, ma è chiaro che da qualche mese escono in Francia, come altrove, numerosi romanzi che devono un po’, molto, quasi tutto all’IA. Dico quasi tutto, ma la tragedia – che bella parola – è che fra una settimana, tre mesi, anzi sei o sette, l’IA scriverà meglio dei migliori tra noi. E che, tra, diciamo, un anno, un anno e mezzo forse, per ragioni che sarei assolutamente incapace di spiegarvi, la forza creatrice, innovatrice, inventrice, rivoluzionaria, sconvolgente dell’IA sarà superiore a quella dell’umano. Superiore, una litote. Questo è lo stato delle cose. Non ne penso nulla. È così. Quelli che pensano il contrario sono dei terrapiattisti, ma non è perché loro non distinguono la curvatura della terra in fondo al loro giardino che la terra è una tartina imburrata. Allora, allora, allora? Allora, questa rivoluzione di cui ignoriamo le conseguenze sul destino degli uomini deve metterci in uno stato di esaltazione millenarista. Il letterato deve spaccarsi la testa a colpi di martello per esporne la materia al primo venuto. Questo modo di aprire la «factory», di far visitare l’atelier, risponde alla mia volontà di ritrovare una libertà totale. In ogni caso, quando si parla della propria madre, l’IA non può far nulla per voi. Si scrive col proprio cervello. Ma di fronte a ciò che nessuna macchina potrà dire – la relazione carnale, irriducibile, a una madre reale -, la scrittura umana detiene ancora il proprio territorio.

Lei viene accusato spesso di forzare la mano, di scivolare nell’iperbole sistematica. Questa tendenza all’eccesso non rischia di nuocere alla finezza del vostro discorso letterario?

RJ: Tutto quello che ho appena detto nelle ultime risposte è esagerato, provocatorio, ingiusto ed è così che si può sperare di progredire nell’analisi della realtà. Esagerandola. Pensare è esagerare, esagerare smisuratamente. Come fanno la lente d’ingrandimento e il microscopio. […] Mi sento come qualcuno che è appeso a un filo. C’è un tempo nella vita in cui non si sta più vivendo ma morendo. Un’agonia vivace, lesta e che può protrarsi per anni – siamo folli – diversi decenni probabilmente, ma poi ci si stacca, il frutto cade e ci si chiede se non si stia solo vivendo la caduta. Nessuna paura, nessun dolore. Spensieratezza, sete di scrivere. Scrivere, di per sé, è una gioia. Qualche settimana fa ho pubblicato questo post su X: D’ora in poi, si possono scrivere opere di finzione con l’IA. Per quanto mi riguarda, questo mi fa pensare alla strana idea di mandare un robot a fare l’amore al mio posto.

Mi resta poco tempo. Prima di partire devo farmi elefante e non lasciare dietro di me che briciole in questo negozio di porcellana che è la letteratura. Ecco ancora un’immagine. Che dopo la mia morte sia srotolata all’infinito come una stampa magica. 

Teresa Lussone e Christophe Reig

Teresa Lussone è ricercatrice di Lingua e traduzione francese alla Università di Bari Aldo Moro. Specialista delle opere postume di Irène Némirovsky, ha curato con Olivier Philipponnat la nuova edizione di “Suite française” (Denoël, 2020) e di “Les Feux de l’automne” (Albin Michel, 2014).
Con Laura Frausin Guarino ha tradotto “Tempesta in giugno”, prima parte di Suite française (Adelphi, 2022). Ha scritto svariati articoli sull’autobiografia di Sartre e attualmente sta  preparando l’edizione di due opere di Sophie Cottin per Classiques Garnier. Ha curato per Adelphi la raccolta di racconti “Il Carnevale di Nizza” in libreria dal 21 gennaio scorso.

Christophe Reig insegna Letteratura francese all’Università di Perpignan (Francia). Ha dedicato numerosi studi a Jacques Roubaud, Raymond Roussel, ma anche all’Ouvroir de Littérature Potentielle (OuLiPo) e ai suoi membri (tra cui Marcel Bénabou, Paul Fournel, Jacques Jouet, Hervé Le Tellier, Harry Mathews, Georges Perec…). Ha pubblicato saggi su scrittori contemporanei come Emmanuel Carrère, Régis Jauffret, Jean Lahougue e Christian Oster… Particolarmente interessato alle teorie della finzione e della transfinzione, alle varie forme di riscrittura così come ai rapporti tra arte contemporanea e scrittura (Closky, Levé…). Dopo aver codiretto fino al 2017 la rivista Formules – Revue des créations formelles con Christelle Reggiani, Hermes Salceda e Jean-Jacques Thomas, ha curato o co-curato numerosi volumi sulla letteratura e la narrativa contemporanee.

Hannah Crafts: ‘’Memorie di una schiava’’ (Edizioni Clichy, 2025), di Claudio Musso

Questo è un libro che arriva a noi con un ritardo che fa rumore. 

Scritto a metà Ottocento da una donna afroamericana fuggita dalla schiavitù, il manoscritto rimane nascosto per oltre un secolo e mezzo, senza trovare lettori, senza ricevere ascolto. Nessuno lo pubblica o può confrontarsi con quella voce non mediata, non corretta da editori o accademie, che conserva intatto lo stupore, la rabbia, la grazia di chi ha molto vissuto e che poco ha potuto dire. 

Fino al 2002 quando, grazie alla scoperta di uno studioso, quelle pagine sono diventate leggibili. Particolarissima è la capacità di questa donna di osservare il mondo in modo obliquo, silenzioso, come se la comprensione più profonda non passasse per l’evidenza, ma per la vibrazione sotterranea delle cose. Lo sguardo di Hannah, la narratrice di queste pagine, è affinato dalla necessità: non potendo studiare sui libri, legge volti e gesti; non potendo esprimersi liberamente, impara a distinguere le intenzioni nei toni della voce, nei silenzi, nei movimenti impercettibili.

Questa voce scrive per testimoniare, per esistere, per usare finalmente parole che le sono sempre state negate. Scrive con urgenza, con lucidità, con il desiderio profondo di raccontare ciò che vede e ciò che intuisce, pur sapendo che forse nessuno avrebbe mai letto quelle pagine. Proprio questa condizione originaria, quella di un libro nato senza lettori, lo rende oggi così prezioso. Leggerlo significa colmare una mancanza, restituire spazio e ascolto a una coscienza silenziata.

Hannah non lavora nei campi, non conosce direttamente la brutalità delle piantagioni, ma la osserva da vicino. È una schiava “privilegiata”, se così si può dire: una cameriera personale, una donna di servizio al fianco di diverse padrone bianche, impiegata negli interni delle grandi case del Sud schiavista. Vive negli spazi del potere, ascolta conversazioni, osserva relazioni, impara a leggere i segni dell’autorità e della finzione morale. Dalla soglia su cui si trova, può vedere tutto ciò che si muove sopra e sotto di lei: la rigidità razziale, la fragilità dei rapporti, la crudeltà dissimulata dietro l’eleganza e il benessere dei bianchi. Vede anche le baracche dove vengono stipati gli altri schiavi, l’indigenza, la fatica. Non li vive, ma li intuisce, li respira. E ne porta il peso sulla pagina.

Colpisce il fatto che il vero oggetto del suo sguardo, e forse anche il vero protagonista del libro, sia il mondo bianco. ‘Memorie di una schiava’ più che un racconto, con risvolti autobiografici, della sofferenza nera è una radiografia della società bianca che si nutre di schiavi ma è schiava essa stessa, delle ricchezze, del pettegolezzo, delle carriere pubbliche, di una posizione a tutti i costi. Hannah osserva i suoi padroni con un’intelligenza silenziosa ma impietosa: ne coglie la generosità artefatta, ma anche la complicità con un sistema che considera lo schiavo come proprietà e oggetto. Crafts inoltre non descrive solo la schiavitù fisica, quella delle catene, dei bastoni, delle fughe. Ci mostra piuttosto un sistema che incide nell’interiorità: nel modo in cui una schiava deve reprimere pensieri, sogni, desideri. L’ordine imposto infatti richiede obbedienza ma anche l’abolizione del sé. Ci sono padroni che amano sondare il dolore fino alla soglia della tortura: non per sadismo gratuito, ma per esercitare un potere che si misura anche nella capacità di spegnere una coscienza, non solo un corpo. Anche i personaggi più “benevoli”, che pure ci sono, sono travolti da un generale ottundimento dei valori, da un’inerzia morale che svuota ogni gesto di fattiva umanità. Il risultato è un ritratto penetrante di una classe dominante che ama raccontarsi civile e cristiana, tra costituzioni e bibbie, ma pratica la disumanizzazione, anche di sé, come norma.

In questo paesaggio confuso, dove nulla è saldo e tutto può cambiare in base a un ordine o a un capriccio, l’unico punto fermo per Hannah resta la Bibbia anche quando il mondo a più riprese le volta le spalle. Le Sacre Scritture, lette di nascosto, sono la sua unica bussola morale. In assenza di affetti stabili, di protezione o di diritti, la fede diventa rifugio e àncora. La parola divina, a differenza di quella degli uomini, non tradisce, non viene piegata dal potere o almeno così spera. Questo legame profondo con il testo sacro attraversa tutto il romanzo, fornendo alla protagonista una lingua alternativa per pensare sé stessa, per resistere, per credere che la libertà sia possibile.

La scrittura di Hannah Crafts è viva, urgente, attraversata da una tensione continua tra espressione e contenimento. È una lingua nutrita da letture — si sentono echi di Dickens, delle sorelle Brontë e del gotico vittoriano — ma che conserva una tonalità personale, immediata, mai pretenziosa. Ci sono travestimenti, misteri, fughe, segreti: elementi che testimoniano una notevole consapevolezza narrativa, pur con qualche ingenuità strutturale. Non è un romanzo secondo i canoni estetici della forma compiuta, ma è un’opera di valore per la sua carica umana, politica, etica. La sua forza non sta nell’ambizione letteraria ma nella necessità con cui è stato scritto.

La recente traduzione italiana di Giada Diano e Giulia Facchini, curata con attenzione da Edizioni Clichy, restituisce con efficacia questa urgenza e questa misura, offrendo finalmente anche al pubblico italiano la possibilità di accostarsi a un testo dimenticato, rimasto troppo a lungo in silenzio. La lettura è sorprendentemente scorrevole, coinvolgente, mai pesante: è un testo che si legge con interesse genuino, con partecipazione crescente, anche grazie alla sua struttura narrativa che alterna osservazione sociale, introspezione e tensione drammatica.

Leggere oggi questo libro è un gesto di ascolto e di restituzione. Significa raccogliere una voce che ha parlato nel vuoto, e che continua a parlarci, con delicatezza ma anche con fermezza. Significa accettare di essere guardati da uno sguardo che ci analizza senza odio, ma senza illusioni. ‘Memorie di una schiava’ non è solo un documento storico o letterario: è una forma di resistenza silenziosa, un atto di scrittura che custodisce la dignità, la coscienza e la memoria di chi non ha mai avuto il diritto di raccontare. È un testo ‘in presa diretta’ che smaschera il vero male della schiavitù: non è solo nel corpo incatenato, ma nell’anima ferita, spezzata, ridotta al silenzio. Il peggio è vedersi negare perfino il diritto al desiderio. La libertà non è solo fuggire: è poter immaginare, poter sentire, poter volere. Per questo ‘Memorie di una schiava’ non è solo il racconto di una fuga, ma il tentativo di restituire dignità al pensiero stesso. Alla parola. Alla memoria. 

E ci mostra che persino una donna nata nella schiavitù, senza istruzione, può diventare cronista del suo tempo – in cui non solo una certa America ma anche tutto l’Occidente è sul banco degli imputati – , ritrattista impietosa e delicata, e narratrice capace di restituire luce, nonostante l’ombra.

Claudio Musso

Claudio Musso: Vive e respira Torino e condivide un paio di geni con la dea Partenope. Formazione umanistica, grande appassionato di germanistica, di storia e di identità. Di giorno si occupa di risorse umane e la sera, o quando leggere e leggersi chiama, di quelle librose. Onnivoro per natura, ma intollerante al glutine e alle mode del momento, raminga con umorismo tra un lavoro che ama e altre passioni quali il teatro, l’opera lirica, e ovviamente la lettura, collaborando anche con riviste letterarie. Papà di Nadir, il suo gatto, non riesce per più di 5 minuti a prendersi troppo sul serio ma prova a fare tutto con dedizione, di quelle che danno senso e colore alla vita.

Intervista alla Signora Pipistrello di Cinzia Milite

Ciao bambini e bambine! Ci chiamiamo Diego e Margherita e siamo dei super amanti degli animali. Un pomeriggio, mentre curiosavamo tra gli scaffali della biblioteca in cerca di libri sulla fauna terrestre è successa una cosa pazzesca: un tipo piuttosto bizzarro sentendoci esprimere il desiderio di fare quattro chiacchiere con gli animali, si è presentato dicendo:

“Sono il professor Cosmo Mundis e posso aiutarvi: di recente ho inventato il “Versoconver”. Si tratta di un computer in grado di convertire i versi degli animali in parole comprensibili dagli umani. Basta scegliere con quale animale parlare cliccando nel database. Al cospetto dell’animale scelto occorre accendere il microfono ed è fatta: i versi di qualunque animale non saranno più un mistero! “.

Ci ha spiegato poi, che gli animali comprendono le parole degli umani da sempre. Il professor Mundis ci sembrava un tipo con qualche rotella fuori posto, ma alla fine abbiamo voluto sperimentare quell’incredibile invenzione e…non ci crederete: funziona!

Vi raccontiamo l’intervista alla Signora Pipistrello!

D.: «Sai Margherita… devo dirti che non sono molto convinto di far visita ai Pipistrelli di giorno…stanno riposando, potrebbero infastidirsi, non pensi?»

M.: «Sarò sincera, qualche dubbio è venuto anche a me, ma non possiamo certo uscire durante la notte e attirare la loro attenzione mentre sono in volo per cacciare, ti pare? Dobbiamo fare un tentativo.»

D.: «Okay… ecco la grotta…è permesso?»

M.: «Non risponde nessuno, riproviamo: possiamo entrare? Vorremmo intervistarvi »

P.: «Yawn… sono solo le quattro del pomeriggio, vi sembra l’ora di venire a trovare dei pipistrelli?»

D.: «Ehm… ci perdoni per averla svegliata Signor Pipistrello, ma i nostri genitori non ci danno il permesso di uscire di notte e allora…»

P.: «Ssh! Innanzitutto rivolgetevi a me chiamandomi Signora Pipistrello e poi parlate a bassa voce altrimenti svegliate i miei cuccioli.»

M.:«Oh ma certo signora…»

P.:«Bè, ormai sono sveglia, perciò forza cosa volete sapere da me?»

D.:«Ecco… vede signora, stiamo intervistando gli animali, secondo il professor Mundis i pipistrelli hanno molte cose da chiarire agli umani.»

P.:«Ah, sì, il caro Cosmo…lui sì che ci capisce…bene: domandate dunque.»

M.:«Innanzitutto volevamo sapere se conosce il conte Dracula e se, come racconta la leggenda, i pipistrelli sono gli avatar del famoso vampiro»

P.:«Ahahah! Accidenti! Andate dritti al punto voi due! Ebbene sì: conosco questa leggenda, ma non abbiamo nulla a che fare con Dracula. La verità è che i pipistrelli sono solo una delle creature più fraintese del nostro pianeta. Delle oltre 1100 specie del mondo, solo tre sono pipistrelli vampiri e vivono principalmente in America Latina. I pipistrelli vampiri sono molto piccoli e non attaccano gli esseri umani né succhiano il loro sangue, ma solo quello di altri animali.

D.:«Che sollievo…però si dice anche che con i vostri artigli vi divertite ad attaccarvi ai nostri capelli…»

P.: «Che stupidaggine! E perché mai dovremmo farlo… sono solo dicerie, voi umani vi fate impressionare dal nostro aspetto e dalle nostre abitudini. Solo perché siamo artigliati, alati e zannuti e volteggiamo nel cielo notturno con grida acute, non significa che intendiamo nuocervi. È solo il nostro modo di essere.»

M.: «Per fortuna nel 1939 due signori hanno creato il fumetto Batman, un eroe positivo…»

P.: «Oh sì, ma certo! So chi sono: Bob Kane e Bill Finger. Il primo ha inventato i disegni e il secondo ha scritto la storia. Mi piace l’idea di un supereroe mascherato da pipistrello! ».

D.: «Anche a noi!»

P.:«Già…peccato che molti umani siano diffidenti nei nostri confronti e non comprendono che pipistrelli sono importantissimi per l’ecosistema. La maggior parte di noi è predatrice di insetti che causano enormi danni all’agricoltura. Altri sono impollinatori essenziali e dispersori di semi per un’ampia varietà di piante. Nel deserto, i miei cugini, i pipistrelli dal naso lungo, sono impollinatori vitali di cactus giganti e agavi. E poi che dire del fatto che siamo in grado di mangiare fino a 1000 zanzare in un’ora?».

D. e M.:«Accidenti!»

P.: «Yawn! Scusate bambini, ma il sonno sta prendendo il sopravvento, tanto più che tra un po’ i miei cuccioli reclameranno la poppata… devo chiedervi di andare. Una sola cosa prima che ve ne andiate: mi consigliereste qualche libro che parla dei pipistrelli da leggere ai miei piccoli prima della nanna?».

M.:«Ma certo! Le consigliamo Brunello il pipistrello, (Matteo PrincivalleAlessia De Falco – La biblioteca del Cuorfolletto N. 1), un albo illustrato dedicato ai più piccoli. Si tratta di una fiaba moderna raccontata in rima. Brunello è solo un cucciolo, un giorno, disubbidendo alla mamma, esce dalla grotta in cui vive mentre splende la luce del sole. Da quel momento iniziano le sue avventure e le peripezie. Come ogni fiaba che si rispetti, il protagonista, nonostante la giovane età, riuscirà a cavarsela grazie all’uso dell’astuzia e dell’intelletto

P.: «Molte grazie bambini, arrivederci…Ah portate i miei saluti al professor Mundis!»

D. e M.: «Sarà fatto!»

Cinzia Milite

Intervista al Signor Lupo di Cinzia Milite

Ciao bambini e bambine! Ci chiamiamo Diego e Margherita e siamo dei super amanti degli animali. Un pomeriggio, mentre curiosavamo tra gli scaffali della biblioteca in cerca di libri sulla fauna terrestre è successa una cosa pazzesca: un tipo piuttosto bizzarro sentendoci esprimere il desiderio di fare quattro chiacchiere con gli animali, si è presentato dicendo:

“Sono il professor Cosmo Mundis e posso aiutarvi: di recente ho inventato il “Versoconver”. Si tratta di un computer in grado di convertire i versi degli animali in parole comprensibili dagli umani. Basta scegliere con quale animale parlare cliccando nel database. Al cospetto dell’animale scelto occorre accendere il microfono ed è fatta: i versi di qualunque animale non saranno più un mistero! “.

Ci ha spiegato poi, che gli animali comprendono le parole degli umani da sempre. Il professor Mundis ci sembrava un tipo con qualche rotella fuori posto, ma alla fine abbiamo voluto sperimentare quell’incredibile invenzione e…non ci crederete: funziona!

Vi raccontiamo l’intervista al Signor Lupo!

D: «Ehm… Margherita, hai preso la lista delle domande? E le istruzioni del Versoconver, te le ricordi?»

M: « Certo! Non ti preoccupare, mi sembri un po’ agitato…stai tranquillo, vedrai andrà tutto bene.»

D: « Sì hai ragione, è che non vedo l’ora scoprire cosa ha da dire il Signor Lupo»

M: «Anch’io. Abbiamo avuto proprio una bella idea Diego: conoscere la vita degli animali attraverso le parole dei diretti interessati sarà un’esperienza fantastica!»

D: « Speriamo che il Signor Lupo sia della stessa opinione…sai com’è…»

M: « Non crederai alla favola del lupo cattivo? Vedrai che il Signor Lupo sarà felice di dire la sua in proposito. Ora concentriamoci, siamo arrivati alla sua tana…proviamo a chiamarlo: Signor Lupooo!

S.L: «Chi mi chiama? Oh ma che sorpresa, due cuccioli umani che parlano il lupese! Che cosa desiderate?»

D:« Che accoglienza gentile, non ce l’aspettavamo… saremmo venuti ad intervistarla, se non la disturbiamo…»

S.L.: «Macché disturbo, accomodatevi. Forza, che volevate sapere da me?»

D: « Ecco…saprebbe dirci perché le persone temono i lupi più degli altri animali?»

S.L: « La risposta è semplice: perché per secoli gli esseri umani hanno mantenuto la paura del “lupo cattivo” attraverso storie, filastrocche, favole e persino cartoni animati»

M.:« Infatti! In Cappuccetto Rosso e nella fiaba I tre porcellini si sente parlare di un grosso lupo cattivo che divora la nonna e un lupo terrificante che abbatte una casa di paglia per divorare vivi i porcellini. Quindi non c’è nulla di vero?»

S.L.: «Oh… se è per questo esistono anche racconti tradizionali; storie orribili in cui l’eroe dà la caccia a lupi mannari che mangiano uomini nelle notti di luna piena. Ma noi non siamo malvagi, la verità è un’altra: il lupo ha bisogno di mangiare come tutti gli altri e non può certo andare a compare il cibo al supermercato, così caccia pecore, capre, facili prede, che sono spesso proprietà degli umani, da qui la nostra brutta fama. E vi dirò di più: al contrario di ciò che si pensa, i lupi non attaccano gli umani a meno che non si sentano minacciati.

D.:« Quindi, siete buoni?»

S.L.:«Mah… né buoni, né cattivi, assecondiamo la nostra natura. Vi dirò una cosa: nei tempi passati i lupi e i primi umani giocavano nella stessa squadra: si aiutavano per ottenere cibo, trovare fonti di gioco e quindi condividere il bottino della caccia. Poi gli esseri umani hanno pensato di essere i migliori; di essere unici…»

M.: «Già…beh, ci dispiace… c’è qualcosa che possiamo fare?»

S.L.:« Beh, ce ne sarebbero molte, ma quello che potreste fare qui e adesso è consigliarmi qualche libro che ha per protagonista il lupo.»

D.:«Certo! Potremmo consigliarle: Una zuppa di sasso di Vaugelade Anais (Babalibri), un libro davvero commovente, che racconta una storia di amicizia, centrata sulla lotta ai pregiudizi.

Racconta di un lupo che si reca a casa della gallina e le chiede di poter entrare, detta così, ci si può aspettare il peggio, invece il finale è una vera sorpresa.

Poi Lupo & Lupetto di Nadine Brun-Cosme, Olivier Tallec (Clichy), un libro che introduce il concetto di fratellanza e che parla di Lupo che vive tutto solo sotto il suo alberello. Ma un giorno Lupetto arriva e si piazza da lui, non è una situazione facile da accettare, in seguito scoprirà quanto è bello trascorrere le giornate in compagnia.

S.L.: «Grazie mille! Siete stati gentilissimi, tornate a trovarmi, mi raccomando!»

D e M:«Grazie a lei, dell’ospitalità!».

Cinzia Milite