Italo Calvino: “Sotto il sole giaguaro”, di Dino Montanino

Sotto il sole giaguaro è un’opera di Italo Calvino pubblicata postuma, nel maggio 1986, dall’editore Garzanti. Calvino si proponeva di scrivere cinque racconti dedicati ai cinque sensi ma la morte improvvisa non gli consente di portare a termine il suo progetto. Il libro dell’86 contiene i tre titoli compiuti: Il nome, il nasoSotto il sole giaguaro, Un re in ascolto, dedicati rispettivamente all’olfatto, al gusto e all’udito. 

Il racconto Sotto il sole giaguaro è la storia di un viaggio in Messico. Chi racconta è il protagonista maschile che viaggia con Olivia, la sua compagna. Il racconto si apre con la descrizione di un dipinto. Siamo a Oaxaca, tra Città del Messico e il Chapas e, in una saletta che porta al bar dell’hotel dove sono ospitati i due viaggiatori, c’è una grande tela oscura che rappresenta “una giovane monaca e un vecchio prete, in piedi, affiancati, le mani leggermente staccate dal corpo, quasi sfiorandosi”. Una didascalia nella parte bassa del quadro ci racconta che lui era stato il cappellano e lei la badessa del convento. Si tratta del convento di Santa Catalina successivamente trasformato in albergo. Nella didascalia si trova un’affermazione strana che cattura l’attenzione dei due viaggiatori. Si dice che la donna, di nobile famiglia, era entrata in convento all’età di diciotto anni e che lui era stato il suo confessore; i due erano ritratti insieme per l’amore che li aveva legati per trent’anni. Quando lui era morto lei, più giovane di vent’anni, si era ammalata gravemente ed “era spirata d’amore per raggiungerlo in cielo”. Che amore poteva essere quello che legava il cappellano alla badessa? Sicuramente un “amore difficile” per citare Calvino al punto che il narratore sente di trovarsi “in presenza d’un dramma o d’una felicità” che impedisce ogni commento; che intimidisce, suscita timore e comunica un senso di malessere. Olivia, di fronte al dipinto, resta in silenzio poi esprime il desiderio di mangiare chiles en nogada, peperoncini rossobruni in salsa di noci. Perché, dopo la vista del dipinto, Olivia afferma di voler mangiare? Ce lo spiega il suo compagno, di viaggio e di vita. Pochi giorni prima, in un ristorante di Tepotzotlán, anche questo ricavato da un vecchio convento, i due avevano assaggiato pietanze preparate secondo le antiche ricette delle monache. Pietanze raffinate ed elaborate che richiedevano ore e ore di lavoro. Quelle monache passavano intere giornate in cucina? La curiosità di Olivia è legittima ma le viene spiegato che le figlie di famiglie nobili entravano in convento “portando con sé le proprie donne di servizio; cosicché per soddisfare i veniali capricci della gola, i soli a esser loro concessi, le monache potevano contare su uno stuolo alacre e infaticabile d’esecutrici”. Risultato: piatti nati da “vite intere dedicate alla ricerca di nuove mescolanze d’ingredienti e variazioni nei dosaggi, all’attenta pazienza combinatoria, alla trasmissione d’un sapere minuzioso e puntuale”. Piatti capaci di generare un’estasi barocca e ridondante, una mescolanza tra tradizione india e cultura ispanica che ricorda gli eccessi degli edifici coloniali. La sfida tra le antiche civiltà d’America e lo sfarzo barocco introdotto dai conquistatori dall’architettura si era estesa alla cucina dove era avvenuta una mirabile e inattesa fusione. “Attraverso bianche mani di novizie e mani brune di converse, la cucina della nuova civiltà ispano-india s’era fatta anch’essa campo di battaglia tra la ferinità aggressiva degli antichi dèi dell’altopiano e la sovrabbondanza sinuosa della religione barocca…”.  

Ma torniamo a Olivia e al suo desiderio di mangiare. Da quando è iniziato il viaggio in Messico, la donna mangia in modo diverso. “Le labbra d’Olivia nel bel mezzo della masticazione indugiavano fin quasi a fermarsi, ma senza interrompere del tutto la continuità del movimento, che rallentava come non volendo lasciar allontanare un’eco interiore, mentre il suo sguardo si fissava in un’attenzione senza oggetto apparente, quasi come in allarme”. Ma, nonostante possa sembrare un approccio teso a vivere in solitudine l’esperienza della scoperta di nuovi sapori, in realtà la donna sente continuamente il bisogno di condividere le sue emozioni gustative coinvolgendo continuamente il suo compagno “come se in quel preciso momento i nostri incisivi avessero triturato un boccone di composizione identica e la stessa stilla d’aroma fosse stata captata dai recettori della mia lingua e della sua”. Il narratore gradisce moltissimo il bisogno di condivisione manifestato dalla sua compagna anche perché, dall’inizio del viaggio in Messico, l’intesa fisica con Olivia sta vivendo un momento di rarefazione e la nuova complicità costruita a partire dalla degustazione di cibi esotici porta l’uomo a notare con compiacimento come “certe manifestazioni della carica vitale di Olivia, certi suoi scatti o indugi o struggimenti o palpiti, continuassero a dispiegarsi senz’aver perso nulla della loro intensità, con una sola variante di rilievo: l’aver per teatro non più il letto ma una tavola apparecchiata”. Ma la speranza che dalla tavola apparecchiata si possa tornare alla ritrovata pratica dell’amore fisico è destinata, almeno per ora, a restare frustrata. La cucina messicana evoca e stimola il desiderio, ma si tratta di un desiderio che trova soddisfazione solo nell’ ambito che lo ha fatto nascere: il cibo. E, di conseguenza, si alimenta mangiando sempre nuovi piatti senza, per questo, investire l’intimità amorosa.

Tornando alla badessa e al cappellano, il narratore è convinto che, come stava accadendo a lui e a Olivia, anche quell’amore immortalato nel dipinto, se riusciamo a sconfinare oltre la cornice del quadro e al di là delle parole contenute nella didascalia, dobbiamo immaginarlo come un sentimento “perfettamente casto, e nello stesso tempo d’una carnalità senza limiti in quell’esperienza dei sapori raggiunta per mezzo d’una complicità segreta e sottile”.

Il racconto potrebbe finire qui. Utilizzando la metafora del viaggio potremmo dire che siamo arrivati alla meta. Il percorso del narratore e di Olivia li ha portati a una scoperta inattesa, a ritrovare una complicità nuova e mai immaginata. Ma quando si viaggia evitando di ancorarsi a programmi rigidi è possibile scoprire in ogni momento realtà e suggestioni impreviste. È quello che accade ai viaggiatori protagonisti del racconto che, come molti turisti in Messico, vanno a visitare, in prossimità di Oaxaca, gli scavi archeologici di Monte Albán. Monte Albán “è un complesso di templi, bassorilievi, grandiose scalinate, piattaforme per i sacrifici umani”. Tre civiltà si sono succedute a Monte Albán: Olmechi, Zapotechi, Mixtechi. La guida che accompagna il narratore e Olivia è un uomo grosso di nome Alonso che fornisce le sue spiegazioni accompagnandole con ampi gesti teatrali; si sofferma a lungo sui bassorilievi detti «Los Danzantes» che raffigurano scene legate a riti sanguinosi e a sacrifici umani. Si fa riferimento anche a gare sportive: “figure che corrono o lottano o giocano a palla”. Quella gare non hanno nulla di olimpico, di pacifico. Coloro che gareggiano sono prigionieri di guerra obbligati a entrare nell’agone per decidere chi di loro dovesse salire per primo sull’altare del sacrificio. E, con grande sorpresa di Olivia, si scopre che erano i vincitori a essere sacrificati per primi: avere il petto squarciato dal coltello d’ossidiana era un onore. La donna, sempre più incuriosita, chiede ad Alonso quale fine facessero i corpi delle vittime, le loro membra, le loro viscere. Le bruciavano? Alonso, interdetto e imbarazzato, risponde che non venivano bruciati, venivano lasciati in pasto agli avvoltoi. Olivia incalza l’uomo come se sapesse che non sta dicendo tutta la verità, come se avesse capito che c’è dell’altro che Alonso non vuole riferire. Lui continua a illustrare lo scavo ma Olivia è pensierosa e resta in silenzio per tutta durata della visita.   

Quando rientrano in albergo scoprono che in una delle grandi sale dell’ex convento è in corso una manifestazione elettorale in occasione delle imminenti elezioni presidenziali. Tra i partecipanti compare Salustiano Velazco, un amico di Città del Messico che aveva dato alla coppia molti consigli sul viaggio che si accingevano a compiere. L’uomo va incontro ai due viaggiatori e si informa su quello che, fino a quel momento, hanno visto. Quando gli viene raccontato che sono di ritorno da Monte Albán, Salustiano fa fatica a contenere la sua emozione e, nel fragore della sala, comincia a parlare di sangue, coltelli di ossidiana, sacrifici. Lo fa con un misto di partecipazione ammirata e di sacro orrore e Olivia non si lascia sfuggire l’occasione di chiedergli quello che non era riuscita a sapere da Alonso: il cibo che gli avvoltoi non si portavano via… come finiva? Salustiano risponde e non risponde. Parla di sacerdoti che assumevano le funzioni del dio, di cerimonie segrete, di pasto rituale, di cibo divino… Olivia non si accontenta e chiede come si svolgeva questo pasto. L’interlocutore risponde che, in verità sono solo supposizioni, che forse anche i principi e i guerrieri partecipavano a quel pasto, che la vittima era già parte del dio perché trasmetteva la sua forza divina… e che “solo il guerriero che aveva catturato il prigioniero sacrificato non poteva toccare la sua carne… Stava in disparte piangendo”. Quello che Olivia aveva sospettato si rivela terribilmente vero. Le vittime venivano mangiate, il pasto rituale era fondato sul cannibalismo. Ma alla donna non basta questa sconcertante scoperta, vuole sapere di più. Chiede come veniva preparata quella carne perché, dicono, non è buona da mangiare e allora, forse, ci volevano condimenti forti, per coprire quel sapore. Ma magari quel sapore veniva fuori lo stesso, non era possibile coprirlo. E i sacerdoti? Non hanno lasciato qualche indicazione scritta. Sembra incredibile ma in pochissimo tempo siamo passati dalle raffinate preparazioni delle monache, all’ipotesi di un ricettario utile a preparare piatti a base di carne umana. Salustiano non può dare risposte precise. Ribadisce che quei riti restano avvolti nel mistero e che quella era una “cucina sacra… doveva celebrare l’armonia degli elementi raggiunta attraverso il sacrificio, un’armonia terribile, fiammeggiante, incandescente…”. Poi resta in silenzio e si congeda dalla coppia di amici. 

Durante la cena, Olivia e il suo compagno non possono fare a meno di ritornare sul cannibalismo e sulle modalità con cui venivano preparate le pietanze a base di carne umana. Forse, ipotizza Olivia, il sapore di quella carne “non si poteva, non si doveva nasconderlo… Altrimenti era come non mangiare quel che si mangiava… Forse gli altri sapori avevano la funzione d’esaltare quel sapore, di dargli uno sfondo degno, di fargli onore…”. Come in tutto il racconto, Olivia assume su di sé il ruolo dell’osservatrice attenta del mondo che la circonda. È una viaggiatrice-antropologa che indaga usando strumenti originali. Pone domande, come tutti gli antropologi, e si aspetta risposte esaustive. Ma la sua indagine va ben oltre le modalità consuete. Lei vuole scoprire il mondo anche attraverso i sensi, in particolare attraverso il gusto. E la scoperta del cannibalismo la porta a desiderare di squarciare il diaframma che separa la modernità, a cui lei e il suo compagno, in quanto viaggiatori-turisti, appartengono a pieno titolo, dalla misteriosa e indecifrabile cultura mesoamericana.  

Anche per il narratore l’incontro con il cannibalismo rituale rappresenta un elemento di forte novità. Lui, contrariamente alla sua compagna, non sembra interessato a scoprire i misteri che nascondono gli antichi riti precolombiani. Lui è interessato solo a Olivia, osserva lei perché vuole capire in che modo il rapporto della donna con il cibo messicano possa rappresentare l’occasione per ritrovare gli amplessi rimossi. E dopo le rivelazioni sui banchetti rituali nei quali si serviva carne umana, a cena, osserva Olivia con occhi nuovi. La guarda masticare ogni boccone delle pietanze che ha ordinato e gli sembra di sentire i denti di lei che lo azzannano, che si conficcano nella sua carne, sente la lingua della donna che penetra la sua bocca fino al palato e, poi indietro, sotto la punta dei canini. “Ero seduto lì, davanti a lei ma nello stesso tempo mi pareva che una parte di me, o tutto me stesso fossi contenuto nella sua bocca, stritolato, dilaniato fibra a fibra”. Una situazione di grande intensità ma, anche, di grande reciprocità. Perché mentre viene “masticato” da lei, sente di non essere vittima passiva delle sue fauci. Mentre era “divorato” si convince che sta trasmettendo a Olivia “sensazioni che si propagavano dalle papille della bocca per tutto il suo corpo: era un rapporto reciproco e completo che ci coinvolgeva e ci divorava”. Il narratore non ha la vocazione dell’antropologo. Ci appare, più che altro, un sognatore innamorato desideroso di indagare i comportamenti della sua compagna per immaginare tutte le possibili strade che lo portano a lei, per ritrovare l’intimità perduta. Per questo motivo, quando scopre il cannibalismo rituale, sogna di stabilire con Olivia un rapporto erotico attraverso il cibo arrivando a immaginare di essere “mangiato” per vivere fino in fondo un’unione totale: se mi mangi io posso entrare completamente in te provocando nel tuo corpo vibrazioni mai vissute. 

Ma è un’illusione. Olivia non condivide i desideri del suo compagno. Lo accusa di restare sempre chiuso in se stesso, indifferente al mondo, insipido. Insipido? Se lui è insipido la cucina messicana, forse, può venirgli in aiuto. I suoi sapori accesi potrebbero aiutare Olivia a nutrirsi di lui, della sua sostanza. Ma lei azzera ogni speranza. “La cucina è l’arte di dar rilievo ai sapori con altri sapori, ma se la materia prima è scipita, nessun condimento può rialzare un sapore che non c’è!”. Il viaggiatore, agli occhi di Olivia, è insipido perché non ha nessuna voglia, nessuna intenzione di rompere il diaframma che lo separa dal mondo arcaico. Lui resta un uomo del nostro tempo e le suggestioni che provengono dai cibi messicani lo attirano solo perché possono portarlo alla donna che desidera. 

Con l’amico Salustiano Velazco vanno a visitare uno scavo ancora poco conosciuto. C’è una statua che rappresenta una figura umana semisdraiata che tiene un vassoio posato sul ventre. È il chac-mool. Su quel vassoio venivano offerti al dio i cuori delle vittime. Il narratore chiede come avveniva l’offerta agli dei e Salustiano prefigura varie ipotesi. “Potrebbe essere la vittima stessa, supina sull’altare, che offre le proprie viscere sul piatto… O il sacrificatore che assume la posa della vittima perché sa che domani toccherà a lui…”. In quei riti misteriosi non è facile stabilire la linea di confine tra il carnefice e la vittima. Vigeva una sorta di reversibilità dei ruoli e la vittima accettava di essere tale perché “aveva lottato per catturare altri come vittime…”. Il narratore tira le conclusioni: i sacrificati potevano essere mangiati perché erano loro stessi mangiatori di uomini. Ma Salustiano non lo ascolta perché sta parlando del serpente, l’animale che simboleggia la continuità della vita e del cosmo.

Dopo la visita al chac-mool il narratore crede di aver capito dove ha sbagliato con Olivia: per essere mangiato da lei deve essere lui, per primo, a mangiarla. La sera a cena ordinano due piatti di gorditas pellizicadas con manteca, polpette mantecate al burro, e lui le divora immaginando di mangiare “tutta la fragranza di Olivia attraverso una masticazione voluttuosa”. Quando, dopo cena, si ritrovano in camera da letto, per la prima volta, dopo tanti giorni, ritrovano l’intesa fisica che sembrava assopita. Le proiezioni fantastiche del narratore sono state finalmente appagate. Lui e Olivia hanno fatto l’amore, è riuscito nel suo intento e il racconto, ancora una volta, potrebbe terminare qui.

Ma il viaggio in Messico continua nei territori dei Maya e, di conseguenza, continua anche il racconto. E, nel finale, ci attende una svolta che potrebbe mettere in discussione molte delle nostre osservazioni. A Palenque il narratore visita il Tempio delle Iscrizioni. Olivia, che non ama salire le scale, decide di non seguirlo. Assistiamo ad un improvviso rimescolamento dei ruoli. Lei, l’antropologa indagatrice, resta da sola “confusa nella folla di comitive chiassose di suoni e colori che i torpedoni scaricavano e ingurgitavano di continuo nello spiazzo tra i templi”. Rinuncia per sempre a cogliere il mistero che ammanta quelle affascinanti civiltà e si lascia risucchiare dalla modernità, dalla caciara dei turisti numerosi e disattenti. Lui, al contrario, sale fino al bassorilievo del Sole-giaguaro ed entra nella cripta sotterranea dove c’è la tomba del re-sacerdote. Quando ritrova la luce e comincia la discesa prova una sensazione inattesa. “Il mondo vorticò, precipitavo sgozzato dal coltello del re-sacerdote giù dagli alti gradini sulla selva di turisti con le cineprese e gli usurpati sombreros a larghe tese, l’energia solare scorreva per reti fittissime di sangue e clorofilla, io vivevo e morivo in tutte le fibre di ciò che viene masticato e digerito e in tutte le fibre che s’appropriano del sole mangiando e digerendo”. L’uomo che ha vissuto tutto il viaggio nella posizione privilegiata di osservatore di Olivia ha scoperto una vocazione nuova? La sensazione di vertigine che lo avvolge, l’esperienza panica che vive, per un attimo ci fanno pensare a uno scambio di ruoli. Come se dopo gli amplessi notturni, Olivia avesse ceduto al suo compagno il suo desiderio di aprire un varco per andare oltre i limiti angusti della modernità. Ma è un attimo, un’illusione. La “selva di turisti con le cineprese e gli usurpati sombreros a larghe tese” sono lì davanti a ricordare che il nostro destino è segnato. Pure i viaggiatori più attenti e raffinati, coloro che sono capaci di cogliere la raffinatezza dei cibi esotici e la misteriosa e inquietante profondità di civiltà arcaiche, sono ancorati al tempo limitato e angusto del turismo di massa che può solo immaginare di collegarsi al tempo ciclico e tragico che caratterizzava le civiltà precolombiane. Ma, nonostante tutto, anche nel tempo del turismo di massa il viaggio può assumere una funzione importante. Forse non sarà mai possibile varcare la soglia che dall’oggi ci conduce nei meandri delle società del passato, ma due viaggiatori sensibili come Olivia e il suo compagno riescono a trovare comunque una strada originale per ritrovarsi. Quando sono a tavola, nell’ultima scena del racconto, i denti dei due amanti, per la prima volta, si muovono lentamente con pari ritmo e il loro sguardi si fissano l’uno nell’altro con l’intensità dei serpenti. “Serpenti immedesimati nello spasimo di d’inghiottirci a vicenda, coscienti d’essere a nostra volta inghiottiti dal serpente che tutti ci digerisce e assimila incessantemente nel processo d’ingestione e digestione del cannibalismo universale che impronta di sé ogni rapporto amoroso e annulla i confini tra i nostri corpi e la sopa de frijoles, lo huacinango a la veracruzana, le enchilladas…”.

Il cannibalismo universale riferito al rapporto tra i due protagonisti chiude la storia con una suggestiva e problematica ipotesi di pratica dell’amare e del viaggiare che, fino alla fine, non può prescindere dalla degustazione condivisa di cibi raffinati. 

Dino Montanino

Dino Montanino, laureato in Lettere moderne presso l’università Federico II di Napoli, ha insegnato Italiano e Latino nei licei. È stato formatore in corsi di aggiornamento per docenti. Si occupa di teatro della scuola e ha condotto laboratori teatrali in qualità di esperto esterno presso molti istituti scolastici. È tra i fondatori dell’associazione culturale “Le macchine desideranti” nata con l’intento di diffondere la cultura teatrale e letteraria tra i giovani curando la drammaturgia di tredici spettacoli. Conduce laboratori di scrittura creativa e incontri letterari tematici presso associazioni culturali.

Fotografare fotografie. Italo Calvino e la nevrosi dell’uomo fotografico, di Dino Montanino

Il protagonista del racconto L’avventura di un fotografo, scritto da Italo Calvino nel 1955 e poi inserito nel volume Gli amori difficili del 1958, è Antonino Paraggi, un impiegato che esplica “mansioni esecutive nei servizi distributivi d’un’impresa produttiva”. A ridosso dei trent’anni, Antonino avverte un forte senso di isolamento perché tutti i suoi amici, uno dopo l’altro, si sono sposati e hanno cominciato a fare figli mentre lui è ancora scapolo e non sembra intenzionato a trovare una moglie. Ma c’è dell’altro. Gli amici sposati, come molti a quel tempo, sono stati contagiati da un morbo inguaribile: la sindrome della fotografia. Fanno parte di un vero e proprio esercito di dilettanti dell’obiettivo che condividono la passione fotografica, si scambiano opinioni sulle foto realizzate e non perdono occasione di vantarsi dei progressi raggiunti da attribuire soprattutto alle loro abilità tecniche e artistiche o, in qualche caso, alla bontà dell’apparecchio che hanno acquistato. Dopo aver fotografato tutto quello che c’è da fotografare, attendono con ansia di vedere le loro foto sviluppate e solo quando le hanno davanti prendono possesso della realtà fotografata e, ai loro occhi, le immagini catturate acquistano “l’irrevocabilità di ciò che è stato e non può più essere messo in dubbio. Il resto anneghi pure nell’ombra insicura del ricordo”. 

Antonino Paraggi ha la vocazione del filosofo. Vuole capire, sdipanare “il filo delle ragioni generali dai garbugli particolari” e si interroga continuamente sull’essenza dell’uomo fotografico. Molto presto si convince che l’ossessione per la fotografia è un “fisiologico effetto secondario della paternità”. Come già detto, i suoi amici sono genitori novelli e uno dei primi istinti dei genitori, dopo aver messo al mondo un figlio, è quello di fotografarlo. Ma c’è un problema: i bambini crescono in fretta e, di conseguenza, bisogna fotografarli continuamente, non ci si può fermare perché “nulla è più labile e irricordabile d’un infante di sei mesi, presto cancellato e sostituito da quello di otto mesi e poi d’un anno” e poi…  Seguire la crescita dei propri figli continuando a scattare fotografie diventa, per i genitori, un’ossessione pericolosa che, sostiene Antonino, li porterà inevitabilmente e inesorabilmente, alla follia. Riflessioni profetiche quelle di Paraggi: il “filosofo”, mentre si diverte con le sue elucubrazioni, non può immaginare che, come vedremo presto, chi corre il pericolo maggiore è proprio lui, lo scapolo”.

Nonostante le sue perplessità sui suoi amici fotografi, Antonino continua a frequentarli e partecipa alle gite fuori porta che vengono organizzate nei fine settimana. È un modo per vincere il senso di isolamento che lo pervade ma anche per continuare a esercitare il ruolo di osservatore critico che il protagonista del racconto si è attribuito. Nel corso di quelle escursioni, come possiamo facilmente immaginare, si scattano fotografie. Vengono immortalati i paesaggi naturali, montani o marini, ma, presto o tardi, arriva il momento della foto di gruppo, familiare o interfamiliare che sia. Chi viene chiamato a scattare queste foto? Antonino Paraggi, naturalmente, che, suo malgrado, si trova a svolgere il ruolo di fotografo. Come è facile immaginare, uno come Antonino non può essere un fotografo come tutti gli altri. Quando si trova tra le mani l’apparecchio fotografico, quasi istintivamente, invece di eseguire il compito assegnato, punta l’obiettivo per “catturare alberature d’imbarcazioni o guglie di campanili, o decapitare nonni e zii”. Gli amici, infastiditi, lo accusano di farlo apposta, di volere essere a tutti i costi originale. Ma non è così. Antonino si difende dalle accuse che gli vengono rivolte dicendo che lui vuole soltanto “servirsi della sua momentanea posizione di privilegio per ammonire fotografi e fotografati sul significato dei loro atti” perché, da quando ha cominciato a utilizzare la macchina fotografica, le sue acute riflessioni si arricchiscono di nuovi elementi e di nuove domande. Decidiamo di fotografare qualcosa perché ci sembra bello o la realtà ci appare bella perché è stata fotografata? E, rivolto ai suoi amici sempre più perplessi, afferma: “Basta che cominciate a dire di qualcosa: «Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!» e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografatile ogni momento della propria via. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia”. Anche quando gli amici non lo ascoltano più e lo considerano solo un rompiscatole, Antonino non demorde e continua con i suoi sermoni. Arriva a sostenere che chi decide di fotografare non può e non deve esercitare nessuna scelta. Dice che se lui si mettesse a fare fotografie, catturerebbe tutto, ogni attimo del soggetto fotografato, che il vero fotografo è colui che scatta almeno una foto al minuto. In caso contrario si cade inevitabilmente nella mediocrità perché la vera arte fotografica non può escludere i contrasti drammatici. Se si sceglie l’idillio, la consolazione, l’assenza di drammaticità, come fanno la maggior parte dei fotografi dilettanti, si evita la follia ma si piomba nell’ebetudine.

Nonostante la sua ostilità nei confronti della fotografia, Antonino Paraggi ha acquisito una certa dimestichezza con mirini ed esposimetri e, nel corso di una gita al mare, Bice e Lydia, due ragazze aggregate alla comitiva, gli chiedono di scattare delle istantanee che le ritraggano mentre giocano a palla sulla riva del mare. Accetta di fare le foto ma non può rinunciare alla sua vocazione di filosofo. Spiega alle ragazze la sua teoria sulle istantanee affermando che la foto spontanea, contrariamente a quello che tutti pensano, allontana il presente e assume subito un carattere nostalgico, “di gioia fuggita sull’ala del tempo”. Quando le foto verranno sviluppate, le ragazze restano colpite dal risultato. Antonino Paraggi, che gli piaccia o no, è diventato un bravo fotografo e, quando Bice gli chiede se ha voglia di scattare altre foto per loro due, accetta a una condizione: non devono essere istantanee ma foto in posa, come si facevano una volta quando le fotografie ufficiali, matrimoniali, scolastiche davano “il senso di quanto ogni ruolo o istituzione aveva in sé di serio e d’importante ma anche di falso e di forzato, d’autoritario, di gerarchico”. Insomma, secondo Antonino, ogni fotografia deve rendere espliciti i rapporti sociali invece di rimuoverli come avviene molto spesso nella pratica fotografica comune. Il “filosofo” scettico e critico sulla fotografia, accettando la sollecitazione di Bice, ha preso una decisione importante: la sua polemica antifotografica può “essere condotta solo dall’interno della scatola nera, contrapponendo fotografia a fotografia”. In Antonino è avvenuto un cambiamento irreversibile di cui egli stesso non è consapevole fino in fondo. Per adesso ha una sola certezza: per scattare foto in posa alla vecchia maniera, le uniche che lo interessano, è necessario dotarsi degli strumenti adeguati. Dopo lunghe ricerche tra i rigattieri della città, accompagnato da Bice e Lydia sempre più incuriosite, riesce a procurarsi una vecchia macchina a cassetta con scatto a pera completa di lastre. In una stanza del suo appartamento allestisce il suo laboratorio fotografico e invita le due ragazze a posare per lui, per fare delle foto coerenti con la sua “filosofia”. Lydia è diffidente e declina l’invito. Bice, al contrario, aderisce con entusiasmo. Si presenta il giorno dopo a casa di Antonino e diventa la sua modella. Con una docilità inattesa, si presta a tutte le richieste del fotografo che, dopo i primi scatti, non è convinto. Prima ancora di sviluppare le lastre sente che non potrà essere soddisfatto del risultato e presto capisce il motivo della sua frustrazione. “C’erano molte fotografie di Bice possibili e molte Bice impossibili a fotografare, ma quello che lui cercava era la fotografia unica che contenesse le une e le altre”. La invita ad assumere le pose più st, la obbliga a travestirsi, a indossare i costumi più strani ma, nonostante Bice assecondi gli ordini di Antonino, lui continua a ripetere: “Non ti prendo, non riesco a prenderti”. L’atteggiamento autoritario del fotografo filosofo, gli ordini perentori che impartisce alla ragazza, mi fanno pensare quello che Susan Sontag, molti anni dopo la scrittura del racconto di Calvino, dirà a proposito del carattere predatorio dell’atto fotografico. “Fotografare significa appropiarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere. […] L’atto di fare fotografia ha qualcosa di predatorio. Fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può mai avere: equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto” (Susan Sontag, Sulla fotografia). Antonino Paraggi vuole “prendere” Bice, desidera possederla attraverso l’apparecchio fotografico. Il suo desiderio di possesso è un’evidente sublimazione del desiderio sessuale. Riesce a possedere la ragazza solo attraverso il filtro della macchina evidenziando, con il suo comportamento pateticamente autoritario, il carattere patologico della relazione instaurata con la donna. Riuscirà a farla sua, a prenderla solo quando lei, stanca di travestirsi e di eseguire gli ordini di Antonino, si mostrerà nuda davanti all’obiettivo. “Ecco, ora sì, così va bene, ecco, ancora, così ti prendo bene, ancora” dice lui. Poi, finalmente pago, esce dal drappo nero che guarnisce il vecchio apparecchio e, quando si trova Bice senza abiti che aspetta, le ordina di rivestirsi. Lei è delusa e piange. Lui è euforico, ha fatto l’amore con lei fermando la sua immagine dopo aver schiacciato la piccola pera che apre l’otturatore e non ha nessun bisogno che il suo corpo si unisca a quello della ragazza. La macchina fotografica gli permette di vincere la paura che prova per il sesso, di amare Bice rimuovendo definitivamente il timore del contatto fisico. Scopre di essere innamorato di lei e, ora che “l’ha presa” una volta, il suo amore non può avere limiti. Il suo diventa un desiderio sfrenato, incontrollabile, deve “prenderla” a ogni ora del giorno e con il vecchio apparecchio fotografico non è possibile. Compra macchine più moderne, dispositivi per poterla fotografare anche di notte mentre dorme. Lei lo ama e si ostina a scambiare come atti d’amore le violenze fotografiche di Antonino. Nel suo laboratorio “pavesato di pellicole e provini Bice s’affacciava da tutti i fotogrammi, in tutti gli atteggiamenti gli scorci le fogge, messa in posa o colta a sua insaputa”. Antonino ha messo in discussione la sua teoria secondo la quale solo le foto in posa hanno un senso. È ritornato all’idea che solo fotografando ogni attimo della vita di Bice, solo esaurendo tutte le immagini possibili di lei, sarà possibile possederla completamente. E allora la segue di nascosto, la fotografa per strada, vuole “prenderla” quando lei non sa che c’è lui a fotografarla. Vuole immortalare l’inconsapevolezza di essere fotografata.

Quando Bice, esasperata da questa passione ossessiva, lo lascia, Antonino cade in una crisi depressiva. Ma non smette di fare fotografie. “Con la macchina appesa al collo, chiuso in casa, sprofondato in una poltrona, scattava compulsivamente con lo sguardo nel vuoto. Fotografava l’assenza di Bice: […] portaceneri pieni di mozziconi, un letto sfatto, una macchia d’umidità sul muro”. Decide di comporre un catalogo di tutto ciò che, normalmente, è refrattario alla fotografia. Poi osserva i giornali vecchi disseminati sul pavimento del suo appartamento che ormai è in uno stato di abbandono. Si mette a fotografare anche quelli e osserva le immagini di “cariche della polizia, auto carbonizzate, atleti in corsa, ministri, imputati”. Prova invidia per i fotoreporter impegnati a seguire quello che accade nel mondo e si chiede se sia il fotoreporter il vero antagonista del fotografo domenicale. Prigioniero della sua ossessione, comincia fare a pezzi tutte le foto presenti nella sua casa, con Bice o senza Bice, “a tagliuzzare la celluloide delle negative, a sfondare le diapositive”. Ammassa tutti i frammenti ricavati sui giornali stesi a terra. “La vera fotografia totale è un mucchio di frammenti d’immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni”. Questo è quello che pensa. Piega i lembi dei giornali e crea un enorme involto da buttare nella pattumiera. Ma, prima di farlo, decide di fotografarlo. Lascia il pacco un po’ aperto in modo che nella foto che avrebbe scattato sarebbero state riconoscibili “le immagini mezzo appallottolate e stracciate e nello stesso tempo si sentisse la loro irrealtà d’ombre di inchiostro casuali”. Mentre prepara il riflettore capisce che “fotografare fotografie” è l’unica via che gli resta, “la vera via che lui aveva oscuramente cercato fino allora”. Non c’è più antagonismo tra fotografo dilettante e fotografo professionista, tra la quotidianità delle foto di Bice e l’eccezionalità dei grandi eventi politici, tra ciò che è fotografabile e le immagini dell’assenza. Il fotografo dilettante e quello professionista producono entrambi materiali destinati a fondersi in un patchwork pronto a finire nell’immondizia. 

Quando le immagini catturate dall’occhio fotografico si moltiplicano a dismisura, invadono la nostra esistenza, si mescolano e si sovrappongono come succede a ognuno di noi nella nostra vita quotidiana, ricordiamoci di Antonino Paraggi e della sua nevrosi paranoica perché, anche noi che viviamo nell’era della foto digitale, quando non avremo più nulla da fotografare, potremmo ridurci a “fotografare fotografie”. 

Dino Montanino

Dino Montanino, laureato in Lettere moderne presso l’università Federico II di Napoli, ha insegnato Italiano e Latino nei licei. È stato formatore in corsi di aggiornamento per docenti. Si occupa di teatro della scuola e ha condotto laboratori teatrali in qualità di esperto esterno presso molti istituti scolastici. È tra i fondatori dell’associazione culturale “Le macchine desideranti” nata con l’intento di diffondere la cultura teatrale e letteraria tra i giovani curando la drammaturgia di tredici spettacoli. Conduce laboratori di scrittura creativa e incontri letterari tematici presso associazioni culturali.