Murata Sayaka: “Parti e omicidi” (trad. Gianluca Coci – E/O), di Antonella Scagliola

PARTI E OMICIDI DI MURATA SAYAKA: DISTOPIA O PRELUDIO DEL FUTURO?

Parti e omicidi” è una raccolta di quattro racconti dell’autrice giapponese Murata Sayaka. Ho cercato Sayaka su google per dare un volto alla voce che mi accingevo ad ascoltare: ho visto una donna composta, elegante e sorridente, immagine che stride decisamente con le idee e il mondo folle e grottesco di cui racconta.  

Parti e omicidi” è il racconto che dà il titolo alla raccolta ed occupa una buona metà libro. In un futuro non ben precisato, in Giappone si è risolto il problema del calo demografico attraverso l’introduzione del “Sistema Parti e Omicidi” che consente a tutti, uomini e donne, la possibilità di diventare gestanti. Chi sceglie di diventare gestante si dedica esclusivamente al concepimento di dieci nuove vite, ottenendo, come premio per tanti travagli, la possibilità di uccidere una persona a propria scelta, senza avere alcuna ripercussione dal punto di vista legale. 

Tutto è perfettamente regolamentato: il morente riceve un telegramma d’avviso trenta giorni prima della sua morte, a cui non può sottrarsi, e il giorno dell’esecuzione viene anestetizzato e lasciato alla mercé del suo assassino. 

I gestanti sembrano quasi dei martiri, ma serve a ben poco elogiarli facendo leva sul loro desiderio di dare alla luce dieci bambini solamente per incrementare le nascite del paese, la verità è un’altra: ogni gestante decide di diventare tale perché vuole uccidere, non perché desideri procreare. 

L’idea di fondo del racconto, infatti, è che ogni essere umano ha impulsi omicidi, ma la maggior parte si ferma per paura delle ripercussioni legali, dunque Sayaka pensa bene di raccontare di una società in cui si possa aggirare l’ostacolo attraverso il sacrificio dei tanti travagli. 

Quanto possono essere scabrosi e crudeli gli esseri umani quando gli vengono date delle libertà, prima di allora, impensabili? 

In Triade viene affrontato il tema del poliamore: le nuove generazioni preferiscono sempre più il rapporto di “troppia” a discapito del classico rapporto di coppia che appartiene quasi esclusivamente alle generazioni passate e, dunque, viene visto come un modo antiquato di vivere l’amore, da sfigati. 

Leggere di una storia a tre è normale, il poliamore è ormai sdoganato, ma il modo in cui vivono la relazione e il sesso le troppie di Sayaka è molto distante da ciò che siamo abituati a immaginare. 

Al centro del racconto c’è il pregiudizio su come gli altri vivono l’amore, il giudicare chi ha un modo di amare diverso dal proprio, focus che rende il racconto quanto mai attuale. 

Un matrimonio pulito racconta di una coppia sposata che decide di non avere rapporti sessuali. Il problema sorge quando i due decidono di avere un bambino, desiderio che, però, non supererà la repulsione che entrambi provano all’idea dell’atto sessuale con l’altro. Fortuna vuole che esista una clinica che aiuta coppie come la loro ad esaudire il desiderio di avere un figlio con metodi abbastanza… bislacchi. 

Sayaka smantella il concetto di matrimonio che abbiamo, senza facili moralismi, mettendoci costantemente il dubbio se la coppia di cui si racconta sia realmente una coppia, sul tipo di famiglia che vogliono costruire e su tante altre convenzioni sociali che diamo per assodate, sbagliando. 

Ultimi momenti di vita è l’ultimo racconto che chiude la raccolta riprendendo il tema della morte ampiamente trattato nel primo racconto. Veniamo catapultati in un futuro dove la morte è stata sconfitta e la moderna tecnologia permette di resuscitare chiunque. Il risultato è che, non potendo più morire, la gente perde d’interesse nei confronti della propria vita e desidera sempre più frequentemente morire ricorrendo al suicidio, ampiamente sdoganato e regolato burocraticamente. Sono appena quattro pagine, ma personalmente è stato il racconto che ho apprezzato maggiormente dopo Parti e omicidi, mi ha lasciato un senso di angoscia che mi ha smosso, un vero pugno nello stomaco. E a lettura ultimata non puoi fare altro che chiederti: qual è il valore della vita umana? 

Finito il libro, abbastanza turbata, anche un po’ disgustata, mi sono chiesta: la società descritta da Sayaka è così lontana dalla nostra? Viviamo in un mondo in cui il poliamore non è più uno scandalo, esistono moltissimi matrimoni bianchi, il suicidio non fa quasi più notizia e la gente uccide per il semplice gusto di sapere cosa si prova. 

Quel che è certo è che Sayaka non vuole darci risposte, anzi, ma farci mettere in discussione le nostre stesse convinzioni su argomenti che diamo per scontati e su cui con abbiamo ripensamenti, ci mette una pulce nell’orecchio: se accadessero realmente certe cose, noi come ci comporteremmo? Conviene rifletterci su. 

Antonella Scagliola

Antonella Scagliola: Studentessa, fa una cosa che solitamente gli studenti di lettere non fanno: legge davvero i libri! Appassionata di film, musica e letteratura, con una particolare propensione e passione per gli artisti americani. Il suo ideale di serata è: copertina, tisanina e libro. 

Daniel Schulz: “Eravamo come fratelli” (trad. Federico Scarpin – Bottega Errante Edizioni), di Rita Mele

Lo scrittore, antropologo, drammaturgo e sceneggiatore statunitense Robert Ardrey, nel suo libro The Social Contract (il terzo della quadrilogia sull’evoluzione della natura umana, pubblicata negli anni ’70), osservava che “il principio organizzativo della vita di Rousseau era la sua inaffondabile credenza nell’originale bontà dell’uomo, incluso lui stesso”. Ardrey, nella sua visione più disincantata, affermava però nel successivo L’istinto di uccidere che “proveniamo da scimmie evolute, non da angeli caduti”, sottolineando come la violenza sia parte integrante della nostra natura. Concludendo, ci invitava a stupirci non tanto delle guerre e dei massacri, quanto dei brevi momenti di pace, delle sinfonie, dei campi in fiore, e dei sogni, anche se difficilmente realizzabili. È una riflessione simile a quella che Stanley Kubrick riprese in un suo articolo del New York Times nel 1972, in difesa del suo controverso film Arancia Meccanica.

Ma perché questo riferimento a Kubrick e ad Ardrey per parlare di Eravamo come fratelli di Daniel Schulz, un romanzo pubblicato per la prima volta in Germania nel 2023?

Il collegamento non è immediato, ma emerge leggendo il racconto delle scorribande dei protagonisti di Schulz, il cui legame fraterno ricorda, seppur vagamente, le “spedizioni punitive” dei Drughi di Arancia Meccanica. Tuttavia, ridurre il romanzo a questo sarebbe superficiale. La narrazione diaristica di Schulz nasconde livelli più profondi, in cui la natura ambigua e tormentata dei personaggi si intreccia con temi universali che, in qualche modo, richiamano quelli affrontati da Kubrick.

Seguendo la scrittura diacronica di Schulz, che attraversa gli anni dalla vigilia della caduta del Muro di Berlino (1989) fino al 2000, il lettore viene costantemente spinto a riflettere sull’ambivalenza della natura umana. La paura e la violenza si mescolano in un ciclo continuo, dove l’una alimenta l’altra, lasciando l’interrogativo centrale: quando è iniziato tutto? Qual è il punto d’origine dei fascismi, dei nazismi, degli estremismi che nascono da singoli individui e si espandono in intere comunità?

In Eravamo come fratelli, Schulz racconta, attraverso le vite di quattro bambini della DDR, un viaggio che va dall’innocenza dei giochi di guerra alla tragica realtà dell’adolescenza, invasa dalla violenza razzista e dal neonazismo. In queste pagine si intuisce il parallelo con la follia nazionalsocialista e con quell’odio che si alimenta di paura e paranoia. E qui emerge un altro confronto: quello con Mein Kampf di Adolf Hitler, l’opera che, nelle sue folli dichiarazioni, anticipava il caos e la devastazione che avrebbero segnato il Novecento. La lettura del romanzo di Schulz ci ha portato a ricordare anche la recente tournée teatrale di Stefano Massini, che ha rielaborato Mein Kampf, mettendo in scena le radici di un odio che ancora oggi può trasformarsi in deflagrazione sociale.

Schulz, con un linguaggio asciutto e schietto, a volte quasi distaccato, ci mostra come l’interruzione del dialogo tra generazioni, tra padri e figli, possa portare a una dolorosa alienazione. Il giovane adulto, incapace di trovare una direzione, può rifugiarsi nel branco, in cerca di appartenenza, di identità, con il rischio di cadere preda della violenza e dell’aggressività. La scrittura di Schulz, a tratti poetica e intima, evoca proprio questo straziante bisogno di cambiamento e ribellione, un desiderio che spesso si infrange sotto le macerie delle illusioni giovanili.

Non possiamo fare a meno di ricordare, infine, le parole di Ardrey: ci vuole un insegnamento profondo, un percorso di consapevolezza, per imparare a sorprendersi dei brevi momenti di pace, dei sogni e delle sinfonie che illuminano, seppur fugacemente, la nostra storia, evitando che il passato torni a ripetersi.

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare