Louise Glück: Marigold e Rose, trad. Massimo Bacigalupo (il Saggiatore), di Bianca Miraglia del Giudice

Il Premio Nobel per la Letteratura  2020, la poetessa e saggista americana Louise Glück, scomparsa lo scorso ottobre, ci dona un racconto di sole settanta pagine, un piccolo libro, uno scrigno che, come tale, contiene qualcosa di estremamente prezioso che arricchisce e seduce il lettore.

 Il libro racconta il primo anno di vita di due gemelline, Marigold e Rose, con caratteri, pensieri e progetti completamente diversi. Rispecchiando i loro nomi, Rose è impegnata solo a crescere e farsi ammirare; Marigold, la calendula, semina se stessa, essendo una moltitudine di semi; proprio per il bisogno di un punto fermo, Marigold decide di scrivere un libro dal titolo ‘L’infanzia di Mamma’, una storia vera anche se non reale, pensata prima ancora che scritta , come nell’epoca non verbale prima del greco o del sanscrito, non avendo ancora la bambina il possesso delle parole.

Pagina dopo pagina, in pochi brevissimi capitoli, la Glück descrive la vita interiore delle gemelle con tenerezza e leggerezza, regalandoci riflessioni profonde su temi a lei cari come, per esempio, la memoria “A Marigold sembrava che le cose si ricordano perché cambiano, occorre imparare a ricordare prima di aver bisogno di ricordare” o il modo di parlare ai bambini “Un certo tipo di spiegazione è classificato come spiegazioni per i bambini, non essendo chiaro in che modo questo sia diverso dal dire bugie”.

La crescita, nelle molteplici esperienze delle bimbe, viene  commentata attraverso metafore molto rappresentative, come quella della necessità per un bambino di imparare a colorare all’interno del contorno di un disegno, prima di iniziare una propria pittura al di fuori dello schema, descrivendo ciò che avviene in tutte le famiglie: la scomparsa della Nonna, la lontananza dall’ Altranonna, il rientro al lavoro della mamma, il  papà che racconta la favola per addormentare le figlie. Con questa storia, Louise fa rivivere la magia delle scoperte dei primi mesi di vita attraverso i pensieri delle bimbe, la loro capacità silenziosa di introitare emozioni ed esperienze, con una scrittura lieve e poetica che rende la sua prima opera in prosa un raro esempio di introspezione psicologica. Edito dalla casa editrice il Saggiatore, è assolutamente da sottolineare la traduzione ad opera di Massimo Bacigalupo, saggista e Professore Emerito di Letteratura Angloamericana presso l’ Università di Genova.

Bianca Miraglia del Giudice

E’ Tempo di Caccia – Intervista a Jeffery Deaver di Cristina Marra

Ne ha fatta di strada Jeffery Deaver da editor del magazine del liceo a corrispondente legale del Wall Street Journal fino alla pubblicazione del romanzo Il collezionista di ossa nel 1997 che lo proietta nell’olimpo degli autori di thriller best seller in tutto il mondo. Se il suo personaggio più noto Lincoln Rhyme, è tetraplegico ma viaggia con la mente, Colter Shaw è un randagio, si sposta in vari stati americani e macina chilometri per ricercare persone scomparse. Shaw è il cacciatore di ricompense più famoso d’America e con Tempo di Caccia edito da Rizzoli, è al suo quinto caso, apparentemente impossibile, da portare a termine. E’ sempre la sfida a incuriosirlo e a spingerlo ad accettare incarichi rischiosi.  Anche questa volta per annotare storie e piste da seguire non si separa dal suo taccuino nero 13×18 e dalla stilografica delta titanio Galassia  e trova che  quello strumento così elegante, fosse più gentile per la mano rispetto a una penna a sfera. Pure l’inserimento di questi dettagli personali, di cui Deaver è un vero maestro,  denotano il rispetto del protagonista verso i casi di cui si occupa quando accetta un incarico allettato dalla ricompensa ma senza trascurare il fattore umano. Tempo di caccia , tradotto da Sandro Ristori, riporta Deaver in  tour in Italia e il suo protagonista, entrato ormai nel cuore di tanti lettori,  va alla ricerca del prototipo di un rivoluzionario dispositivo per reattori nucleari sottratto all’azienda dell’uomo d’affari Marty Harmon, forse dall’ingegnera Allison Parker, sparita insieme alla figlia Hanna.  Da Ferrington, la nuova città immaginata dallo scrittore, tra sparizioni e fughe, un poliziotto psicotico, un’adolescente ribelle, tanti segreti e straordinarie rivelazioni, la caccia orchestrata da Deaver inizia con una trappola.   

Ciao Jeff e benvenuto su Il Randagio. Nei tuoi romanzi i luoghi vengono sempre descritti molto accuratamente, al punto da non stare sullo sfondo, ma diventano dei veri e propri personaggi al fianco dei protagonisti. Con quale criterio li scegli e perché per Tempo di caccia hai voluto Ferrington?

Ciao ai lettori di Il Randagio. Mi piace che le ambientazioni siano dei personaggi a sé stanti,
per cui mi assicuro di dare loro delle personalità realistiche. Ferrington è un’opera di
fantasia, ma si basa su città vicine a quelle in cui sono cresciuto, che ora sono depresse a
causa del trasferimento delle industrie. Anche i problemi di droga sono abbastanza reali in posti come quello, a causa della disoccupazione giovanile.

Nel romanzo ti soffermi molto sul rapporto tra genitori e figli (Colter e suo padre, Hanna e Allison e John). La famiglia e i suoi equilibri sono al centro del romanzo?

Direi che mi piace esplorare le relazioni tra tutti i membri della famiglia nei miei libri, perché ai lettori piace tanto quanto i crimini di cui scrivo. Mi piace creare tensione nei drammi personali, tanto quanto negli omicidi!

La fuga che racconti è soprattutto fuga da se stessi?

Ottima osservazione. Sì, nel libro le persone scappano dagli assassini, ma scappano anche dal loro passato – o cercano di farlo. Fino a quando si rendono conto che non si può scappare dal passato, ma che bisogna affrontarlo!

Azione, colpi di scena e denuncia sociale restano gli elementi principali dei suoi romanzi?

Sì, scrivo ciò che i lettori vogliono. I libri non riguardano affatto me, ma i lettori. E loro amano la mia specializzazione, i colpi di scena, l’azione e le osservazioni sociali e politiche che faccio.

Che rapporto hanno i personaggi di Tempo di caccia con la verità e il senso di colpa?

I miei personaggi sono sempre fedeli alle persone reali su cui li baso. I cattivi in genere non si sentono in colpa. Purtroppo come molte persone (compresi i politici americani!).

Leggeremo di un incontro tra Colter e Lincoln?

Sì, i due si incontreranno presto in un romanzo.

Faletti e Camilleri. Quanto è importante per lei la narrativa italiana? Quali sono i tuoi libri preferiti?
Sono tanti gli autori italiani che leggo per esempio Michele Giuttari e Gianrico Carofiglio mi piacciono molto. Le altre mie letture vanno da Ian Fleming a John Le Carrè a Conan Doyle fino a Ernest Hemingway. 

Cristina Marra

Cristina Marra e Jeffery Deaver

Intervista a Lorenzo Marone di Bianca Miraglia del Giudice

Il libro è dedicato al piccolo Sergio De Simone, il piccolo bambino vomerese sottoposto, in un lager nazista, a sperimentazione chimica e poi barbaramente ucciso a soli otto anni. Cosa rispondi a chi obbietta che ormai è tutto affidato alla Storia, che è ultroneo continuare a testimoniare le atrocità dei campi di concentramento?
Rispondo che non c’è male peggiore di non continuare a raccontare la Storia, di perdere la memoria. La generazione che ha vissuto quelle atrocità, la cosiddetta Generazione Silenziosa, sta finendo ormai, ma questo non significa che, con loro, debba finire quella che è stata la loro storia. L’uomo senza memoria, senza conoscenza del passato, non ha la possibilità di interpretare il presente e quindi è una grande fesseria!

Due anni fa, hai raccontato di Matteuccia, staffetta partigiana, ne Il bosco di là, Aboca edizioni: è stato, in qualche modo, un prodromo di Cono e Serenella?
Ma no, all’epoca del Bosco di là non avevo ancora idea di scrivere questa storia; è sicuramente un periodo storico che mi affascina e che sento mio, da qualche parte, nel senso che sono i ricordi e i racconti dei miei nonni. Sulla storia di Matteuccia ho il piccolo rimpianto di non averla allargata facendola diventare un romanzo. È un bellissimo racconto lungo al quale sono molto legato, dal tema bello e poco raccontato.

Cono è un ragazzo passionale dominato da forti sentimenti: l’amore innanzitutto, la gelosia, l’intolleranza verso le ingiustizie sociali ed i soprusi messi in essere dal fascismo. Quanto c’è di te in lui? Quanto ti ha coinvolto emotivamente scrivere questo romanzo?
In Cono c’è poco di me, lui è un personaggio costruito perché doveva essere funzionale a quella che è la parte reale storica del romanzo e cioè i ragazzi costretti a boxare nei campi di concentramento, scelti tra quelli più in salute e più prestanti fisicamente. Lui nasce come un personaggio che non si interessa di politica, come anche la sua famiglia, cerca di non farsi notare dal regime, è un contadino figlio di mezzadri, che ama la sua terra, ama Serenella, è un ruspante e per questo viene soprannominato Galletta, non si tiene i soprusi e sa menare le mani; dovevo costruire un personaggio forte capace di resistere in quell’inferno, andando a boxare con le SS. In questo romanzo, io non sono nei personaggi ma nella terra perché è un romanzo sull’amore e sulle radici.

Una storia d’amore, bella come poche, cui fa da contraltare il vissuto terribile nel campo di concentramento; hai scritto tutto di getto oppure hai avuto bisogno di più scritture per trovare la dimensione perfetta di questo romanzo?
Io volevo scrivere una storia d’amore, ma non avrei scritto una storia romantica, non scritta al presente ma al passato; la storia d’amore dei nostri nonni, una storia incentrata su quell’energia intorno alla quale tutto gira, per dirla con Battiato, tutto obbedisce all’amore.
Nel romanzo c’è l’amore di Cono e Serenella, ma anche l’amore di Cono per la sua terra, il suo podere, suo padre, sua madre, sua sorella; ci sono due grandi amicizie, per Briscola e per Palermo. L’amore che tiene in vita e permette di resistere e che si contrappone al grande male. Io non volevo raccontare una storia partigiana, io volevo raccontare la storia di tanti ragazzi di umili origini, anche un po’ ignoranti, costretti a combattere né per la gloria né per la patria, ma, come dice Cono, “per poter tornare a dormire nel fienile con la mia Serenella”.

Nei “Ringraziamenti” posti alla fine del libro, affermi che la memoria serve a dare significato ai valori e, per chi sa custodirla, è essa stessa radici perché restituisce la vita a ciò che non c’è più, a chi non c’è più. Quanto vissuto, sereno o doloroso, occorre per comprendere appieno il significato profondo del ricordare?
La memoria per me è sempre stata un valore fondamentale, sia per il lavoro che faccio, sia perché nei miei romanzi ci sono i miei ricordi camuffati e travestiti, c’è il mio vissuto, ci sono aneddoti della mia vita. Qui l’aggancio con il mio vissuto e la mia infanzia è la terra dove ho deciso di ambientare il romanzo, perché Monte Rianu è un paese immaginario che nasce dalla combinazione di Teggiano e Monte S. Giacomo: sono due paesi a cui sono molto legato perché lì è nata mia nonna, lì d’estate andavano i miei zii e mio padre, perché lì fino ad una certa età mi recavo a trovare nonna Erminia, perché lì sono sepolti due miei zii; è una terra che amo molto che mi riporta al concetto di radici che io ho sempre cercato di rigettare e rifiutare per il vissuto che ho, che non sto qui a dire. Forse, con questo romanzo, sono tornato a far pace con le mie radici.

Bianca Miraglia Del Giudice