Mirella Armiero: “Un pensiero ribelle. Maria Bakunin la Signora di Napoli” (Solferino), di Bernardina Moriconi

    “La Signora” così semplicemente era nominata, forse per quella soggezione che ispirava, mista ai modi spicci e a un piglio risoluto non poco in contrasto col suo fisico minuto. Ma l’appellativo derivava anche e soprattutto dall’ammirazione che Maria Bakunin, illustre chimica napoletana, ché di lei parliamo, ispirava, grazie a quella conoscenza delle misteriose e complesse concatenazioni capaci di tenere assieme sostanze ed elementi diversi e distanti. E lei, Marussia per i familiari, di distanze se ne intendeva visto che dalla lontana Siberia,  dove era nata nel 1873, era approdata  a Napoli. E qui sarebbe vissuta – fino alla fine dei suoi giorni, nel 1960 – assieme alla madre e ai fratelli, compiendovi quegli studi che l’avrebbero portata a essere la prima donna in Italia a laurearsi in chimica e anche la prima a conseguire una cattedra universitaria. E se Maria visse lontana da quel padre fisicamente e ideologicamente ingombrante e da molti temuto, Michail Bakunin, il grande teorico del pensiero anarchico, la giovane ebbe modo di crescere e maturare la sua formazione di donna e di studiosa  all’ombra di quel monte altrettanto ingombrante e temuto: lo Sterminator Vesevo. 

   

Proprio dall’ eruzione del Vesuvio  del 1906 prende le mosse Mirella Armiero per raccontarci nel suo volume Un pensiero ribelle. Maria Bakunin la Signora di Napoli (Solferino) i momenti salienti della vita familiare e professionale della Bakunin.

   E lo fa, la Armiero, mettendo le sue comprovate doti di giornalista – attenta alla verifica e alla documentazione – a servizio di una accattivante vena narrativa e di una scrittura fluida e agevole  pur nel trattare situazioni complesse ed  eterogenee (storiche, scientifiche, politiche…). Ciò appare evidente fin dalle succitate prime pagine, grazie al racconto dettagliato e ad ampio raggio di quella terribile eruzione. Mentre la Napoli che contava era infatti in fermento per l’attesa prima assoluta al San Carlo della Tess di Frédéric Alfred d’Erlanger, che da un mese soggiornava in città per allestire l’evento, il Vesuvio iniziava a ruggire e ribollire. E quando il 9 aprile lo spettacolo va finalmente in scena dopo un rinvio sempre dovuto alle intemperanze vulcaniche, i luccichìi degli abiti da sera delle dame verranno offuscati dai più sostanziosi e tristi bagliori della Montagna che erutta costringendo gli abitanti di interi paesi a fuggire lontano.

    A osservare la situazione, quasi a monitorarla, tra i tanti, italiani e stranieri, scienziati e  semplici curiosi accorsi, da segnalare anche la presenza di due donne, entrambe poderose nel proprio campo e che seguono la situazione con occhi e interessi diversi. Una è la Signora del giornalismo, Matilde Serao, all’epoca direttrice del <<Giorno>>, interessata ai risvolti sociali e cronachistici dell’evento, l’altra è la Signora della Chimica, che si muove per curiosità preminentemente scientifiche. 

   Ma certo la Bakunin non si interessò mai solo ed esclusivamente di scienze, vivendo in ambienti ideologicamente e culturalmente impegnati; inoltre, anche se il padre Michail, col quale aveva condiviso solo i primissimi anni dell’infanzia, morì distante dalla famiglia quando Maria era ancora molto piccola, lei coltiverà sempre un affetto che si farà quasi venerazione per quell’uomo dal forte appetito e dalle forti passioni, che continuò a considerare suo padre sebbene fosse figlia naturale  (lei e gli altri tre fratelli) dell’avvocato Carlo Gambuzzi, con cui la moglie di Bakunin ebbe una storia lunga e complicata che si concluderà con le nozze celebrate sempre a Napoli tre anni dopo la scomparsa di Michail: il quale a sua volta era a conoscenza del legame fra il Gambuzzi e la sua giovane moglie Antonia, ma  applicò anche alla sua vita privata quei principi di massima libertà che predicava in politica, lasciando alla consorte piena autonomia di decisione e quindi di azione in campo sentimentale. E per comprendere meglio lo spirito e gli ideali che informarono il grande filosofo dell’anarchismo  – l’ “idealista sentimentale”,  lo aveva definito Marx – la Armiero offre un’ampia  e illuminante digressione, trasportando il lettore in altri luoghi e in altri anni: precisamente nella Russia della prima metà dell’800, dove Michail trascorse un’infanzia serena e agiata in una ampia casa circondata da giardini e riscaldata dall’affetto di ben undici tra fratelli e sorelle. Ma presto il suo spirito irrequieto e l’ardore rivoluzionario, spiega la Armiero, lo spingeranno in altri luoghi e all’elaborazione di un pensiero rivoluzionario. E’ l’inizio della storia dell’ideologia  anarchica. Ma non fu certo solo un teorico, Bakunin: lo spirito irrequieto e l’ardore che l’animavano lo videro impegnato in prima linea in diversi moti e rivolte che infiammavano gli anni Quaranta del Diciannovesimo secolo e che gli costarono  prima alcuni anni di carcere duro a San Pietroburgo e poi un esilio in Siberia. Qui conobbe la giovanissima Antonia, appena diciassettenne ma ragazzina di carattere, tanto da decidere di sposarlo, malgrado il parere contrario della famiglia, e di seguirlo nella sua turbolenta e disordinata esistenza, che li condusse anche a Napoli una prima volta nel 1865: i due trascorsero un periodo sereno nella città che da pochi anni aveva perso il titolo di capitale di un regno e che  Michail ebbe modo di amare, anche perché gli appariva come la più anarchica fra le città europee – e forse non si sbagliava, se si pensa che il primo attentato a opera di un anarchico (il terzo gli sarebbe stato fatale), re Umberto lo subì proprio nella città campana nel 1878. Proprio negli anni napoletani, Bakunin cominciò ad approfondire ed elaborare il suo pensiero, distaccandosi progressivamente dal marxismo e valutando il fallimento del Risorgimento italiano che non aveva saputo colmare il divario economico e sociale del Paese. Ed è sempre  qui che Antonia conobbe Carlo Gambuzzi, sodale di Bakunin e  suo compagno di molte battaglie; dalla lunga, discontinua relazione fra Carlo e Antonia nasceranno ben quattro figli che continueranno a mantenere il cognome del rivoluzionario russo anche dopo la morte di Michail e le nozze dei genitori:  Gambuzzi si ritagliò un ruolo di padre presente e affettuoso ma defilato, rispettando e incoraggiando le scelte di vita e di studi dei ragazzi:  Maria si dedicherà alla chimica, mentre la sorella Sofia si iscrisse alla facoltà di Medicina che in Italia solo da poco era diventata accessibile alle donne.

  Ma Marussia  non vanta solo illustri ascendenti: non è da dimenticare che, grazie alle nozze della sorella Sofia col noto medico Giuseppe Caccioppoli, diverrà zia del grande matematico  Renato, al quale il regista Mario Martone nel ’92 ha dedicato il film Morte di un  matematico napoletano, alla cui sceneggiatura  fornì un fondamentale contributo la scrittrice Fabrizia Ramondino:  alla quale – a riprova che non solo nella Fisica tutto si tiene – la stessa Mirella Armiero ha dedicato un recentissimo volume , Bagaglio leggero. Viaggio nei luoghi di Fabrizia Ramondino (Nutrimenti) realizzato assieme a Francesco Paolo Busco.

   

Ovviamente, il grosso del volume è incentrato sulla Signora della chimica, sulle sue scelte professionali e anche sentimentali sempre libere e coraggiose, frutto di quel pensiero ribelle che contraddistingue lei e altri membri della famiglia: “La vita di Maria, all’apparenza cristallina e rettilinea, è stata piena di contraddizioni, probabilmente di dubbi,  – spiega Armiero – che la rendono molto più autentica di quanto non appaia attraverso il mito di scienziata integerrima e severa, pioniera  nel cammino di affermazione delle donne”. La scienziata coltivò molti interessi, oltre a quelli connessi alle sue discipline, anche grazie ai sodalizi che dal campo scientifico si allargavano a quello sentimentale: così accadde col suo professore e mentore Agostino Oglialoro Todaro che divenne suo marito, e poi col chimico Francesco Giordani, di ben ventitré anni più giovane di lei.

    La curiosità d’altronde non le manca e ne fa una studiosa non sedentaria: numerosi sono i viaggi di lavoro che intraprende, come quelli che nel 1913 la portano, su incarico del ministro Nitti, a osservare le metodologie  didattiche degli istituti tecnici industriali e commerciali del Belgio e della Svizzera;  e poi gli Stati Uniti, in lungo e in largo, assieme a quel Francesco Giordani, che forse ha il potere di rallegrarla col suo entusiasmo e quella fiducia nelle magnifiche sorti e progressive del mondo e dell’Italia. Una fiducia che lo avrebbe portato negli anni ad aderire al regime fascista e ad assumervi incarichi di prestigio, pur serbando la convinzione che gli studi scientifici si sarebbero mantenuti scevri da condizionamenti politici e che anzi proprio il fascismo li avrebbe favoriti e sostenuti in nome di quei principi autarchici che Mussolini voleva vedere applicati anche in ambito chimico e tecnologico. Invece la Signora e ormai sua compagna di vita Maria, non prende posizione  ma certo quel cognome e il suo rifiuto del distintivo e del saluto fascista prima delle lezioni universitarie non la pongono in una situazione ideale: situazione che si complicherà ulteriormente con l’ostentata ostilità al regime e certe azioni provocatorie manifestate dall’amato nipote, il geniale, ironico e dichiaratamente antifascista, Renato Caccioppoli.

   Il libro della Armiero, dalle vicende personali e familiari della Bakunin, si allarga al racconto,  accurato e documentato – e l’ampia bibliografia finale ce lo conferma –  della città e di più di una generazione di  intellettuali, filosofi , scienziati che animavano  Napoli, facendola  centro di dibattiti di fondamentale importanza e di progresso: si pensi alle riunioni all’Accademia Pontaniana, di cui Maria fu inizialmente socia e per poi divenirne presidente, dopo la guerra:  rimanendo prima e unica donna posta alla guida della prestigiosa istituzione. O si pensi, anni prima, alla frequentazioni di quel Circolo Filologico di via San Sebastiano, fondato da  Francesco De Sanctis e poi diretto dall’ancora giovane ma già autorevole Benedetto Croce, dove uomini ma soprattutto numerose donne, con grande meraviglia finanche della Serao che pure lo frequentava, accorrevano ad ascoltare dibattiti accesi e anche audacemente progressisti.

   E in effetti, uno degli aspetti che rendono prezioso questo libro è proprio questa narrazione di una Napoli fuori dagli stereotipi e dai cliché, per nulla provinciale, capace semmai di coniugare tradizioni e riti ancorati al passato con fermenti e idee  che spesso, ma non solo, vengono da fuori, portati da personaggi di gran calibro che a Napoli hanno soggiornato e lavorato. Si pensi ad Anton Dohrn che nel 1873 all’interno della Villa comunale fonda la Stazione zoologica, poi con annesso acquario, destinata a diventare un centro di studi internazionale e all’avanguardia. Ma soprattutto Armiero ci illumina, in molte pagine del volume, circa una attiva, intraprendete, progressista presenza femminile operante nella città partenopea: è il caso della scrittrice svedese Anne Charlotte Leffler, moglie del celebre matematico Pasquale Del Pezzo, con cui  aveva aperto un salotto intellettuale nell’abitazione di via Tasso e alla quale va il merito (oltre che di aver scandalizzato col suo divorzio in terra scandinava i benpensanti del tempo) di aver contribuito a far conoscere il teatro di Ibsen, che proprio in luoghi ameni del nostro territorio, Sorrento e Amalfi, aveva composto due dei capolavori della sua drammaturgia, Gli spettri e Casa di bambola. E ancora Mirella Armiero ci parla di Emily Reeve, figura quasi ignorata, eppure questa intraprendente garibaldina venne qui su incarico della pedagogista Julie Schwabe  per aprirvi una scuola destinata ai bambini poveri, e qui trovò la morte durante l’epidemia di colera del 1865 accudita amorevolmente fino agli ultimi istanti  da Antonia, la moglie di Bakunin che in quegli anni a Napoli soggiornava assieme allo stesso Michail. Ma Antonia era solo una delle tante donne russe presenti in città a cavallo dei due secoli (alcune di loro vi giungeranno in fuga dalla madrepatria dopo la Rivoluzione d’ottobre), che ben si inserivano  in un contesto cittadino saldo e operoso di personalità colte e internazionali.

   È su tale fondale policromo che cresce, si forma e lavora Marussia. E se è vero , come scrive l’autrice, che col trascorrere dei decenni la sua figura è rimpicciolita e sbiadita anche per i nuovi traguardi che si sono raggiunti nell’ambito delle scienze, del progresso sociale e dell’emancipazione femminile, tanto più prezioso appare questo libro proprio perché a tracciare un sentiero verso tali traguardi ha contribuito non poco – con l’impegno coraggioso, con l’intraprendenza professionale e sentimentale, in una parola, col suo pensiero ribelle –  Maria Bakunin, la piccola grande Signora della Chimica.

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.

Alexandre Dumas: Inciuci e cose truci, di Bernardina Moriconi

Da poco si è concluso l’ennesima fiction sul Conte di Montecristo. Ennesima già, perché una storia così ben architettata, straripante di passioni trame oscure e vendette, fa impallidire molte delle sceneggiature di film e serie attuali, e questo spiega il proliferare di versioni e riletture del buon Montecristo.  Ci voleva la fervida mente di Alexandre Dumas per un simile parto. Il quale però si faceva aiutare da numerosi ghostwriter, che al tempo erano  chiamati “negri”:  gran bel paradosso per chi, come Alexandre, era effettivamente di colore, essendo mulatto per lato paterno poiché la nonna era una schiava nera di Haiti soprannominata la femme du mas  (donna della masseria):  quel “du-mas” era diventato poi il cognome  del padre del futuro scrittore, che per disaccordi familiari aveva ripudiato nome (e titolo nobiliare) paterno  a vantaggio del soprannome della mamma caraibica.

Ordunque, Alexandre era un vero mezzo “negro” che si serviva di finti “negri” che per guadagnare lo aiutavano nella sua sconfinata attività letteraria. Fra questi il più famoso, e che collaborerà anche alla stesura del Conte di Montecristo, risulta Auguste Maquet, scrittore in proprio ma che si arricchì grazie alla collaborazione con Dumas, almeno fino a che i rapporti fra i due si guastarono e finirono in tribunale, rivendicando, il Maquet, la paternità (o copaterintà) di numerose opere del suo datore di lavoro.  

Maquet non riuscì ad avere il suo nome sulla copertina di alcun libro di Dumas, ottenne però  una lauta ricompensa in quattrini e pare che il Castello di Sainte-Mesme in cui morrà nel 1888 lo avesse acquistato coi proventi dei romanzi  cui aveva messo mano,  mentre il papà dei tre moschettieri, sommerso da debiti, fu costretto a mettere all’asta lo splendido  “Castello di Montecristo”, che si era fatto costruire in un terreno da lui acquistato appositamente, e a riparare frettolosamente sebbene temporaneamente all’estero, inseguito da un’orda inferocita  di oltre centocinquanta creditori. 

Al di là comunque degli scrittori fantasma, un aiutino per le sue opere Dumas lo ricavava anche da testi altrui  (vedi il ciclo dei Tre moschettieri per cui si ispirò alle Mémoires de Monsieur d’Artagnan, versione romanzata di un moschettiere realmente vissuto) o  da fatti di cronaca.  Come nel caso di Montecristo per cui attinge a una efferata vicenda di crimini e vendette. Questa in breve la storia. 

Un poveretto, tal Pierre Picaud di professione calzolaio,  viene accusato di essere una spia al soldo britannico da tre amici invidiosi delle prossime nozze del loro “amico” con una ricca donzella di nome Marguerite. Pierre viene così messo in catene proprio il giorno degli sponsali per ordine del duca di Rovigo, generale e già a capo della gendarmeria imperiale nonché fedelissimo di Napoleone da cui aveva ottenuto il titolo nobiliare. Picaud, ignaro dell’accusa, rimane incarcerato per ben sette anni nella Fortezza  di Fenestrelle, in Val Chisone. Qui, come accadrà al suo emulo letterario, scavando una galleria finisce nella cella attigua dove si trova  in catene un uomo di chiesa, parimenti italiano come l’abate Faria, tal padre Torri, il quale in punto di morte gli lascia in eredità il suo tesoro che si trova nascosto a Milano. Nessuna fuga rocambolesca per Picaud:  liberato dopo la caduta di Napoleone nel 1814, forte del tesoro e di una falsa identità, progetta una feroce vendetta. Elimina a uno a uno coloro che lo avevano tradito, lasciando come unica traccia del suo delitto  una scritta con numero progressivo (numero uno, numero due, numero tre).

 

La vendetta più lunga e subdola è quella ordita ai danni di Mathieu Loupian, il quale, all’epoca di fatti iniziali, vedovo e con due figli a carico, aveva messo gli occhi sulla ricca fidanzata di Pierre, Marguerite che ora è sua moglie. In più, è diventato proprietario di un bel ristorante nel quale, sempre tramite raggiri, Picaud si fa assumere come cameriere. A questo punto si scatena: fa sedurre e metter incinta la figlia da un delinquente che si era spacciato per un aristocratico italiano e che il giorno delle nozze riparatrici scompare non prima di aver inviato un biglietto a ciascun invitato svelando la sua reale identità; riesce a traviare l’altro figlio di Loupian  con cattive frequentazioni e un furto per cui finisce in carcere per lunghi anni; fa poi incendiare il ristorante dell’uomo riducendolo sul lastrico e mentre Marguerite era nel frattempo morta di crepacuore, Picaud, fingendosi sempre solidale e affezionato al suo datore di lavoro, si offre di mantenere lui e la figlia in cambio però dei favori di quest’ultima. Non pago, durante una passeggiata notturna giunge al culmine della sua vendetta uccidendo  anche il Loupian (il numero tre). Ma poiché il male genera male, anche Picaud farà una brutta fine, ucciso da Allut, cioè colui che, in cambio di un diamante, aveva svelato  a Picaud appena tornato dal carcere sotto falsa identità  tutta la storia del suo arresto e delle persone coinvolte. Rifiutandosi di sottostare al ricatto di Allut che pretende altri soldi in cambio del silenzio, Picaud viene ucciso diventando il quarto e ultimo morto della tragica sequenza.

E l’isola di Montecristo, direte voi, con tutto il suo fascino e mistero, non c’entra proprio nulla? No, no, qualcosina riguarda anche l’isola toscana,  perché alla mente fervida di Dumas non doveva essere sfuggita  una leggenda relativa a Montecristo, in cui si vagheggiava di un tesoro presente nell’isola, frutto di donazioni ecclesiastiche, che era stato custodito e poi nascosto dai monaci dell’abbazia di San Mamiliano, edificata nel V secolo e poi abbandonata nel ‘500 a cause di frequenti incursioni piratesche. 

E giacché nelle leggende si nasconde spesso un fondo di verità, qualcuno di voi che abbia avuto bontà di leggere fin qui potrebbe decidere – ipso facto – di tentare la fortuna cercando la fortuna nell’isola di Montecristo. Buona fortuna! 

Ma, al rientro, niente vendette, per carità!

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.

Annalisa Angelone: “Diana Spencer. Morte, mito e misteri” (Alessandro Polidoro Editore), di Bernardina Moriconi

Il 31 agosto 1997 moriva nella galleria dell’Alma a Parigi la Principessa Diana. A quasi trent’anni da quel tragico incidente che costò la vita anche al suo compagno Dodi Al-Fayed e all’autista Henri Paul ancora  troppi appaiono i misteri irrisolti che circondano quell’evento.

Ciò che invece è assodato è che quella fine prematura ha consegnato la bionda principessa inglese alla leggenda trasformandola in una delle icone, forse l’ultima in ordine di tempo, di quel ventesimo secolo che volgeva alla fine. E se la sua vicenda nuziale con l’erede al trono britannico aveva per un momento reso realistico e tangibile il mito fiabesco di Cenerentola, il rapido epilogo di quelle nozze aveva confermato che l’happy end  raramente si realizza nella realtà, ma aveva anche rivelato all’opinione pubblica la capacità di questa  giovane donna di svestire gli abiti di principessa per indossare quelli di una  Wonder Woman, capace di destreggiarsi tra mondanità e battaglie sociali, avviate, queste ultime, malgrado ostilità e pericoli: prima fra tutte quella intrapresa dopo la sua missione umanitaria in Angola e poi in Bosnia per l’eliminazione delle mine antiuomo, i cui effetti devastanti, soprattutto sulle fasce più deboli delle popolazioni, Diana aveva  avuto la possibilità di osservare con orrore in prima persona: “Dopo la sua morte, ne erano disseminate nel mondo circa duecento milioni, quattrocento se si contavano anche quelle stoccate, per un valore complessivo di circa un miliardo e quattrocento milioni di dollari”.

Di tutto questo ci parla il libro di Annalisa AngeloneDiana Spencer. Morte, mito e misteri” (Polidoro editore), che offre al lettore un contributo interessante e prezioso per addentrarsi nella breve ma intensa vicenda umana di Diana, vicenda di cui il libro illumina su molti punti non chiari o poco noti e nel contempo racconta e fa conoscere, anche alle giovani generazioni, questa straordinaria figura di principessa lontanissima dai cliché: un mix di ingenuità e seduzione, di apparente remissività e di audace caparbietà, tormentata e spesso ferita dalle sue relazioni sentimentali, ma sempre sorridente e spensierata nelle immagini che la ritraggono accanto ai suoi bambini che non vedrà diventare uomini.

La Angelone ovviamente non ha pretese di  giungere alla soluzione di un caso che ha impegnato per anni apparati giudiziari e polizieschi e che ha visto sorgere anche tesi di uno strampalato complottismo come quella secondo cui l’omicidio sarebbe stato orchestrato dalle associazioni di fiorai per realizzare vendite eccezionali in occasione del tragico evento oppure quella (udite! udite!) secondo cui Diana sarebbe stata eliminata avendo scoperto che i reali inglesi erano in realtà lucertoloni che avevano assunto sembianze umane…  

E proprio per la vastità ed eterogeneità di materiali informativi, Annalisa Angelone rivela in questo lavoro tutta la sua professionalità e competenza giornalistica nel verificare fonti e confrontare dati, alla ricerca non di una verità accertata, ma almeno di elementi che, tralasciati o ignorati in modo approssimativo o sospetto, possano contribuire a delineare i possibili scenari che avrebbero portato a una morte non accidentale ma congegnata come una accuratissima operazione di Intelligence. 

Anche perché con l’accrescersi della sua  popolarità, le scelte di vita della principessa creavano disagio e preoccupazione: sia nell’ambito della famiglia reale, che mal tollerava il probabile matrimonio con un miliardario arabo; sia presso le alte sfere politiche e militari, e non solo britanniche, per quell’impegno che  si era tramutato quasi in una crociata contro le mine antiuomo: “Nell’agosto del 1997 la battaglia contro le mine aveva dato grazie a lei risultati insperati. Con l’adesione di Clinton e il trattato di Ottawa in via di approvazione la messa al bando internazionale stava per diventare realtà.”  Insomma, in pochi anni la timida fanciulla si era trasformata in una donna fiera e audace: in una parola, scomoda. Ne è una prova inconfutabile il fatto che, ci informa l’autrice, il governo americano conservi ancora oggi nei suoi archivi ben 1.190 documenti segreti sulla principessa inglese.

Il libro di Angelone si legge insomma come una intrigante spy story, corredata però di note e di un’ampia bibliografia finale che ne attestano lo spessore documentario. Nelle oltre 370 pagine del volume la scrittrice si sofferma anche su altri molteplici aspetti e momenti di Diana, la principessa triste e la mamma allegra, la donna umiliata che affida il suo riscatto al glamour di un tubino nero (il Revenge Dress) e quella che cerca sicurezza e conforto nella fede e per la quale fu fondamentale l’incontro con Madre Teresa di Calcutta che forse fu una delle prime a cogliere lo spessore spirituale di Diana Spencer.

C’è da chiedersi, a questo punto, se quella frase che – durante una delle sue abituali visite in ospedale – Diana rivolse come estrema forma di conforto a un malato terminale: “Ce la spasseremo di più dall’altra parte” si sia avverata per lei almeno in quel di là, da cui forse ogni tanto lancia uno sguardo distratto e soave vero quest’atomo opaco del male.

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.

Luigi Natoli: “I Beati Paoli” (Sellerio), di Bernardina Moriconi

Ogni tanto ne sentivo parlare, di questo romanzo, o meglio del titolo, I Beati Paoli: per la verità, non ne  conoscevo né l’autore né l’epoca di scrittura. Poi me ne dimenticavo. Insomma, per anni appariva e scompariva, proprio come i misteriosi (leggendari?) adepti della società segreta da cui prende titolo il romanzo. Quando per caso ho letto che anche Umberto Eco si era interessato all’opera agli inizi degli anni Settanta, curandone  la prefazione per le edizioni Flaccovio, ho deciso che era giunto il  momento di leggerlo. Mi sono procurata il libro e mi sono ritrovata nel bel mezzo di un romanzone d’appendice (così nacque in effetti), composto dallo scrittore siciliano Luigi Natoli che, con lo pseudonimo di William Galt, lo pubblicò in 239 puntate  sul ‹‹Giornale di Sicilia›› tra il maggio del 1909 e  il gennaio del 1910.

 

L’opera è ambientata tra la fine del’ 600 e il primo quindicennio del XVIll  secolo, in particolare in quel brevissimo periodo in cui la Sicilia, dopo la pace di Utrecht, passò nelle mani dei Savoia,  di Vittorio Amedeo lI, per la precisione: un assaggio o una prova generale di un qualcosa che sarebbe giunto a compimento cento e passa anni dopo, ma con già tutte le premesse di quello che avrebbe comportato il processo di piemontizzazione di un territorio con una storia, un’economia e un ambiente umano e naturale assai diverso e lontano, non solo geograficamente, dalle terre sabaude. 

Il romanzo è avvincente, intrigante, appassionante addirittura. Ovviamente con debiti smisurati verso autori canonici del genere, in primis il buon  Dumas (in particolare quello dei Tre moschettieri con qualcosa del Conte di Montecristo), e poi non poteva mancare l’impronta dei maggiori rappresentanti del romanzo sociale: lo Hugo dei Miserabili e il Dickens (in particolare penso a Le due città e più in generale alla dicotomia dickensiana  tra personaggi buonibuonissimi e cattivicattivissimi).

Poco o nulla, invece, dei grandi autori conterranei, precedenti o successivi, che hanno raccontato con sapienza e passione la Sicilia. Non c’è per esempio, l’ironia raffinata e a tratti quasi impercettibile che Tomasi di Lampedusa quarantotto anni dopo (e quindi quando già il Natoli era passato a miglior vita) avrebbe disseminato con elegante e innata perizia nel Gattopardo (ironia che in gran parte si è persa  anche nel patinato e pur sempre splendido film di Visconti) e manca il lucido e spietato affresco epocale dei Viceré di De Roberto.

C’è da dire che il Natoli di società segrete se ne intendeva, essendo stato egli stesso massone e provenendo da una famiglia di ardente spirito mazziniano e risorgimentale, al punto che nel 1860 – Luigino era nato da soli tre anni – tutta la famiglia venne arrestata dai soldati borbonici avendo indossato la camicia rossa per festeggiare il prossimo arrivo di Garibaldi coi suoi uomini.

Dato il successo di pubblico, Natoli scrisse anche una continuazione che credo, a fiuto, costituisca più una sorta di spin off ante litteram e che si intitola Coriolano della Floresta ovvero il segreto del romito. Per la cronaca, dal romanzo I beati Paoli nel 1947 è stato tratto anche un film, dall’accattivante titolo I cavalieri dalle maschere nere, diretto da Pino Mercanti, regista di film di cappa e spada, di musicarelli e di drammoni sentimentali.  Esiste inoltre una versione a fumetti del romanzo realizzata nella metà degli anni Settanta da Nino Calabrò in 192 tavole che uscirono poi negli anni Ottanta in forma di inserti allegati al ‹‹Giornale di Sicilia››.

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.

Massimiliano Virgilio: “Luci sulla città. Un’inchiesta per Matilde Serao” (Einaudi), di Bernardina Moriconi (foto di Ciro Orlandini)

Tra i tanti gialli che presentano nella veste di improvvisati quanto improbabili detective personalità illustri del passato (scienziati, poeti,  filosofi) ci siamo imbattuti in un romanzo che propone nel ruolo di investigatrice una figura ben più credibile e plausibile. Il romanzo si intitola “Luci sulla città. Un’inchiesta per Matilde Serao” (Feltrinelli), l’autore è Massimiliano Virgilio e la protagonista – come già ci informa il sottotitolo – è quella donna Matilde,  fondatrice nel 1892 assieme a Edoardo  Scarfoglio, del quotidiano ‹‹Il Mattino››.

Ora, già il fatto d’essere la Serao la ben nota giornalista implica una sua propensione a scovare, cercare, scoprire: in una parola, indagare. E d’altra parte proprio nella forma di inchiesta era nato quel “Ventre di Napoli” che rimane  il capolavoro della scrittrice e costituisce a tutt’oggi uno strumento prezioso per addentrarsi attraverso la Napoli di ieri anche in quella attuale.

Come se non bastasse – e non so se Virgilio ne sia a conoscenza – la Serao, in tempi successivi a quelli in cui è ambientato il romanzo, fu anche l’artefice dalla risoluzione del caso relativo a Paolo Riccora, autore di commedie di un discreto successo, di cui però si ignorava la reale identità. Chi era, chi non era questo Riccora che non si presentava in palcoscenico al termine dello spettacolo a godersi gli applausi del pubblico? Chi si nascondeva dietro a questo nome? Un po’ come per la Ferrante dei giorni nostri, le supposizioni si sprecavano. Fino a che non scese in campo la Serao a occuparsi della faccenda e a svelare poi ai lettori che dietro a quello pseudonimo si celava una gentile signora, all’anagrafe Emilia Vaglio, la quale per una serie di svariate ragioni (di cui chi scrive si è occupata in altra sede) aveva scelto di utilizzare quello che oggi chiameremmo un nickname coniato anagrammando nome e cognome del marito , Caro Capriolo, avvocato ben noto negli ambienti dello spettacolo perché si occupava anche di vertenze teatrali. 

Osservare, ascoltare, curiosare, ronzare come i Mosconi di una  sua celebre rubrica mondana, partecipare alle serate di gala ma anche aggirarsi tra fondaci e vicoli maleolenti della città e poi trasformare tutto in parole scritte lì, nel suo ufficio in vico Rotto San Carlo, dove sorgeva la sede originaria del Mattino, a due passi dal Gambrinus, dal Massimo Napoletano e dalla Galleria Umberto che ospitava al suo interno quel Salone Margherita che era forse il simbolo più evidente e ammiccante di una Belle Époque in salsa partenopea: questa era la passione di donna Matilde. L’inchiostro le scorreva nelle vene anche più che al consorte, Edoardo, che provava più gusto a inseguire le sottane che le notizie e che spesso disertava il ponte di comando della redazione del giornale, di cui pure era il Direttore, preferendogli il lussuoso panfilo ormeggiato in attesa di prendere il largo e che almeno nel nome, Fantasia, omaggiava un romanzetto giovanile della Serao, quello stesso  che proprio Scarfoglio  aveva  malamente stroncato definendolo, tra l’altro “una minestra fatta di tutti gli avanzi di un banchetto copioso”. Questo, però, prima di conoscersi personalmente e di trasformare l’amicizia complice in un amore suggellato dalle nozze e dalla nascita di quattro figlioli.

Col tempo il rapporto si era logorato, e mentre don Edoardo già assaporava l’aria salmastra dalla sua imbarcazione, il vero capitano di quell’altra nave denominata ‹‹Il Mattino›› era la Signora, come veniva abitualmente chiamata,  era sua la voce possente di quel: – Si va in stampa! – con cui nei sottoscala del palazzo si metteva in moto la Marinoni, la potente rotativa capace di sfornare ottomila copie in un’ora.

Tutto questo e molto altro ci racconta Massimiliano Virgilio in questo libro, che prende l’avvio da un efferato omicidio che insanguina un vicolo di via Ventaglieri.  La vittima, Carlo Montanari, è un calzolaio socialista iscritto al Fascio operaio, che in nome di una conoscenza di vecchia data con la Serao, proprio a lei si era rivolto per un incontro in gran segretezza al fine di rivelarle dei “fatti inauditi, anzi, inauditissimi” che “avrebbero sconvolto la città dalle fondamenta”:  per intanto, tali fatti gli erano costati la vita prima di riuscire a raccontarli alla giornalista, la quale, non soddisfatta dalle modalità delle indagini ufficiali, decide di investigare in proprio.

Eppure, attribuire solo al genere giallo questo libro ci sembra limitativo, in quanto il fatto delittuoso, e la conseguente indagine,  pur intrigante nei suoi viluppi e sviluppi, ci appare sostanzialmente  se non un espediente, almeno uno dei vari elementi narrativi di un’opera che si allarga a romanzo sociale più che storico  – ci sembra – in quanto l’autore molto sapientemente ci mostra nel corso della narrazione i vari e contrastanti aspetti di quella Belle Époque in  cui il bello era davvero poco, e la miseria (morale e materiale) continuava a prevalere sulla nobiltà (di sentimenti più che di blasone). Il momento storico era delicato, la corruttela già si annidava nei luoghi del potere, gruppi socialisti e anarchici si muovevano ancora disordinatamente:  Virgilio, parlando del capitano dell’Arma che segue le indagini del delitto, cita en passant  il fallito attentato a re Umberto avvenuto anni addietro  proprio lì a Napoli a opera dell’anarchico Passannante , il quale, è bene ricordarlo, era ancora vivo in quegli ultimi anni dell’800 in cui è ambientato il romanzo e dopo aver patito per dieci anni pene infernali in una piccolissima cella, posta al di sotto del livello del mare, a Torre della Linguella, impazzito, era stato condotto in un manicomio criminale dove sarebbe rimasto fino alla morte. Il principale responsabile di un così disumano trattamento fu individuato nell’allora  Ministro dell’Interno, Giovanni Nicotera: che non godeva di grande stima neanche da parte dei coniugi Scarfoglio, se, ci racconta il libro, “per non sottostare all’editore, ai suoi amici parigini Rothschild, ai ministri massoni come quel mascalzone di Nicotera” , la “coppia d’oro” del giornalismo italiano aveva abbandonato il ‹‹Corriere di Napoli›› e si era messa in proprio creando un nuovo giornale. Questo a riprova di come la incandescente realtà politica ed economica entri in più parti nel romanzo a raccontarci uno spaccato di vita nazionale che ci fa capire, ahimè, come i corsi e ricorsi vichiani siano sempre validi.

Un lavoro di ricostruzione di un’epoca, quello realizzato da Virgilio in “Luci sulla città”, che ha richiesto un’accurata documentazione da parte dell’autore, che ne dà conto nelle Note poste in conclusone, che se privano un po’ il critico del gusto di individuazione delle possibili fonti, ci conferma  l’approccio anche filologico o quanto meno da studioso accorto – oltre che da narratore di razza – che Virgilio ha realizzato per questo suo nuovo romanzo.

E certamente a “Le verità ignorate su Matilde Serao”, curato da Salvatore Maffei e Stefania De Bonis si rifà l’autore nell’accennare alla nascita di un idillio fra Matildella e Mario Giobbe, il giovane poeta “dagli abiti così cenciosi e dal cuore così nobile” che avrebbe poi concluso con il suicido la sua breve esistenza nel 1906.

Ben diverso per temperamento ed estro artistico era invece quel Ferdinando Russo, poeta irriverente e spirito irrequieto, che non compare direttamente nel romanzo ma viene più volte nominato, o meglio invocato dalla Serao, perché in qualità di capo della cronaca cittadina del giornale, si attendeva lui per andare in stampa. E vien da pensare, con un pizzico di nostalgia, che in quegli anni i quattro piani del palazzo in cui sorgeva il giornale, al di là della porta a vetri con il gallo simbolo della testata, brulicava di personaggi che rappresentavano l’orgoglio e il motore  artistico e culturale della città e dell’intero Paese: Virgilio cita tra i tanti Bracco, Verdinois, Nitti, Panzacchi, Di Giacomo, Croce, Carducci, quel D’Annunzio che anni addietro si era scontrato in un duello con Scarfoglio: duello che aveva provocato una ferita al Vate ma non aveva posto fine alla amicizia fra i due.  E poi la Duse, la divina, amica tra le più care di Matildella che chiamò in suo onore Eleonora la figlia che successivamente ebbe da Giuseppe Natale: le due si incontrano tra una sfogliatella riccia e la novità della frolla e parlano di tutto, soprattutto di amori: è la Duse che, almeno per come la racconta Virgilio nel romanzo, è artefice dell’incontro fra la Serao e Giusto, ed è la Serao  che  a sua volta chiede all’amica attrice notizie dei suoi amori: Gabriele D’Annunzio e quell’Arrigo Boito col quale la divina intrattenne una lunga relazione tenuta accuratamente segreta a tutti, ma evidentemente non alla sua amica del cuore.

Il romanzo di Massimiliano Virgilio parte e si sviluppa su un duplice sventramento: quello della povera vittima ai Ventaglieri e quello a cui era sottoposta la città per loschi interessi economici prima che sociali, mentre il popolino continuava ad attendere un riscatto più dalla giocate del lotto che dal Risanamento urbano messo in atto. Ma raccontandoci questa realtà, attraverso la figura della giornalista e del suo illustre e fedele stuolo di collaboratori, lo scrittore ci racconta anche di quella che fu forse l’età dell’oro del giornalismo, quando le edicole si aprivano e moltiplicavano nei vari quartieri della città, con gli strilloni cenciosi che a piena voce urlavano: -Accattateeve ‘o Matìn! Accattateve ‘e nutizie!

E la gente, scrive Virgilio, incredibilmente comprava. Perché c’era il bisogno di sapere, di essere informati perché la conoscenza dei fatti conferiva un potere più grande persino dei quattrini:

“Cerano persone che per secoli erano rimaste in silenzio, persone che gli uomini al potere avevano sempre considerato poco importanti, e a un tratto queste persone, grazie ai giornali, grazie a una singola copia da due lire, potevano far sentire la loro voce ed essere ascoltate. Succedeva non solo a Napoli ma in tutto il Sud: lo avevano fatto quei due, marito e moglie, che si erano messi in testa di cambiare il mondo e alla fine lo avevano cambiato davvero”.  

E in tempi come questi che viviamo, in cui le edicole chiudono tristemente una dopo l’altra e le tirature dei giornali si contraggono, ci piacerebbe percepire almeno per un momento l’odore non certo salubre ma esaltante dell’inchiostro e ascoltare il rumore ferroso delle rotative in azione, lì, in quel vico Rotto San Carlo, oggi piazzetta Matilde Serao dove forse ancora riecheggia ogni tanto la risata inconfondibile e  prorompente di donna Matilde o la sua voce che allucca : – Appicciate la Marinoni! Si stampi! -.

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.