Agustina Bazterrica: “Cadavere squisito” (Eris, 2024, trad. Francesca Signorello), di Silvia Lanzi

Marcos lavora nel mercato della carne da sempre, è un’attività di famiglia. Ma ora le cose sono cambiate, in modo radicale e irreversibile. Un virus ha attaccato gli animali, sia domestici che selvatici, per cui sono stati tutti sistematicamente abbattuti e la loro carne non può assolutamente essere consumata. Ora la carne che tratta è diversa, speciale, perché i governi di tutto il mondo hanno dovuto affrontare la situazione e hanno deciso di rendere legale l’allevamento, la produzione, la macellazione e la lavorazione della carne umana.

Marcos si è dovuto adattare, cerca di non pensare a cosa fa per vivere, e fa del suo meglio per stare dietro a fornitori, clienti, ordini e consegne, perché deve pagare la casa di riposo in cui vive suo padre. E ora che sua moglie lo ha lasciato deve pensare a tutto da solo.

Dalla sinossi del libro

Crudo, è proprio il caso di dirlo. 
Una narrazione molto intensa.
Una storia incredibile sulla crudeltà umana.
Un finale ineccepibile.
Tutto questo è “Cadavere squisito” di Agustina Bazterrica, un libro che si legge in fretta ma che lascia tracce indelebili. E non credo sia successo solo a me.
Di solito diffido dei “casi editoriali” e non mi sento particolarmente attratta dalla letteratura sudamericana (complice un incontro non troppo felice con “Cent’anni di solitudine”).
Questa volta ho fatto un’eccezione. E il risultato è stato al di là di ogni aspettativa.
La storia, raccontata con maestria e senza sbavature, è costellata di dilemmi etico-morali che si risolvono nella domanda: “Cos’è un essere umano?”.
Secondo Kant ciò che ci distingue dalle altre forme di vita è la capacità di pensiero astratto.
Le bestie del libro, che altro non sono che uomini privi di questa capacità – non ci è dato sapere il perché e questa non-conoscenza rende ancora più terrificante il racconto ponendo domande di senso cui non si può trovare risposta – sono “semplicemente” carne da macello – letteralmente.
Chi decide? Con quale criterio?
Chi si arroga il diritto di scegliere che un essere umano nasca per essere mangiato? 
Che differenza c’è tra i due se entrambi appartengono alla specie homo sapiens?
È più bestia la “bestia” o l’essere umano? A tal proposito mi viene in mente il celeberrimo discorso di Shylock nel “Mercante di Venezia”.


Il nuovo tipo di società adombrata dal romanzo, sembra portare all’estremo quello che nel 2002 Patricia Piccinini aveva già intuito con il gruppo scultoreo “The young family”.
Per marcare la differenza tra gli esseri umani e il loro cibo – la consapevolezza che ciò che hanno nel piatto è in tutto e per tutto come loro – i personaggi del libro utilizzano un linguaggio volutamente tecnico, disumanizzato.
E chi non si adegua al nuovo andamento viene considerato pazzo e rinchiuso.
E se il protagonista venisse in possesso di un capo di bestiame femmina, cosa potrebbe succedergli?
Lui che, in lutto per la morte di un figlio in fasce è abbandonato dalla moglie, troppo annichilita dal dolore per stargli accanto?
Tutto questo, e molto di più, è “Cadavere squisito”.
Si dice che sia una sorta di critica al capitalismo e alla società attuale: tutto vero. Ma credo che ci sia anche qualcosa di più profondo ed ineffabile: una riflessione, non più procrastinabile,  sull’essenza umana.
Un libro unico, intenso. Una lettura per stomaci forti che a tratti ricorda Margaret Atwood, Joyce Oates e George Orwell.

Silvia Lanzi

Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).

“Terra abbandonata”, un racconto di Apolae

Le rovine del villaggio Querandì, osservate dall’alto grazie alle riprese da drone, mostrano i segni di un passato che resiste. I pavimenti sono irregolari, i muri attraversati da crepe, le fronde coprono i tetti scomparsi. La natura sta riconquistando il proprio spazio. Le costruzioni giacciono come scatoloni scoperchiati e svuotati. Il disfacimento procede paziente. Tra quelle rovine abita un uomo. Il suo nome nativo è Kam’ne, registrato dallo Stato argentino come Pedro Gonzales, nome imposto a Verónica, cittadina costiera della provincia di Buenos Aires. Il villaggio, fondato secoli prima su un terreno libero presso un bosco di ceiba, rientra oggi nel comune di Punta Indio.

Un tempo vivevano qui fino a cinquanta famiglie. I villaggi erano disposti a mezz’ora di cammino l’uno dall’altro, per razionare le risorse e facilitare gli spostamenti. In inverno si stringevano verso la costa, in estate si spingevano nelle Pampas per la caccia. Alcuni insediamenti, ritenuti esplorativi, furono scoperti lungo il Paraná. Le prime abitazioni erano tende di pelle e tessuto, smontabili in fretta. Con il tempo, le costruzioni divennero stabili: legno di ombù, resina, ciottoli e fango. Oggi restano solo frammenti.

Dodici stagioni fa, il villaggio era popolato. Poi le partenze. Poche. Altre. Tante. Un giorno, rimase solo Kam’ne. Quando partì l’ultima famiglia, pianse. Come se avessero tagliato via un pezzo di sé. Arrivarono gli stranieri con grandi bestie di metallo. Presero i pascoli, chiusero il bestiame nei recinti, offrirono denaro, una nuova vita in città. Kam’ne non sapeva dove andare. Non sapeva cosa comprare. Tutto era già attorno e dentro lui.

La luce di Chachao illumina gli uomini, racconta. Il corpo crea ombre. Wualichú guarda le ombre. Kam’ne invita chi lo visita a osservare la propria, ma non a raccontarla. Contro le ombre esiste la musica. La sua pifilca di ombù ha tre buchi. Unica nel villaggio. Il secondo buco si fa dopo un grande dolore. Kam’ne lo scavò quando rimase solo. Il terzo giunse con la vecchiaia, quando comprese l’ombra dietro la luce. La risposta arriverà dopo aver dimenticato la domanda. L’attesa deve essere in movimento, come fa la natura.

La pifilca nasce per i rituali. Nascita. Maturità. Morte. L’uomo la mostra titubante. Nel rituale di nascita, alla prima luna piena, un anziano solleva il neonato al cielo. Il villaggio canta. La luce lo illumina. Dopo quattordici stagioni, ogni ragazzo decide dove farsi bucare. Kam’ne scelse la mano, per ricordare che le cose vanno via. Serve coraggio per crescere. Il rito di maturità è segreto. Per uomini. Per donne. Dopo tanti inverni, i segreti devono essere seminati, o morire. Nel rituale di morte degli uomini, un anziano riempie il buco. La luce non entra. L’ombra non esce. Il ciclo si chiude in equilibrio. Per le donne, un’anziana versa acqua nelle narici. Il sangue viene lavato. Le sofferenze si sciolgono. Anche qui, il ciclo si chiude in equilibrio.

La natura fa quello che deve fare. Il sole sorge dalla prateria, in linea con l’orizzonte. Kam’ne non ha bisogno di ricordarlo: lo guarda ogni mattina. Gaspar ha dormito nel villaggio con lui, su un tappeto logoro. All’alba, ha visto l’erba illuminarsi e Kam’ne lo ha condotto al vecchio pozzo, ai limiti dell’appezzamento. C’era ancora acqua.

Se il governo considera il villaggio abbandonato, Kam’ne lo sente vivo. Il governo appartiene agli uomini di città, ma il villaggio appartiene ancora al mondo.

La prateria si apre a crepacci, che restano nell’ombra o si riempiono di luce. I Querandì sono fili d’erba. Non possiedono nulla. Non c’è nulla da proteggere, né da perdere. Conta il qui-ed-ora. Il resto è ricordo, o fantasia. Non importa chi è andato o chi è rimasto. Ogni Querandì deve seguire la propria strada. Kam’ne resta. Finché rimane, il villaggio vive.

Spera che, un giorno o l’altro, da qualche parte, ci si rincontri lungo la via. Per piangere insieme. O ridere. Il popolo Querandì rimarrà vivo, attraverso i discendenti trasferiti nelle città, oppure si estinguerà con la scomparsa di Kam’ne? 

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Apolae: si fa chiamare Apolae per scrivere liberamente. Suoi racconti compaiono online su varie riviste. Altri testi popolano la pagina Instagram apolae_fotoracconti. Ama la sua famiglia, la letteratura e la musica. Si impegna per coniugarle, ma non sa se riuscirà.