Nadeesha Uyangoda, “L’unica persona nera in una stanza” e “Corpi che contano”, di Gigi Agnano

La concomitanza con l’appuntamento referendario, in particolare con il quesito sulla cittadinanza, offre al Randagio l’occasione perfetta per parlare di Nadeesha Uyangoda e dei suoi libri.

Non mi piace annoiare il prossimo raccontando aneddoti personali, ma per presentarvela, faccio un’eccezione… giurando di non rifarlo più!
Qualche mese fa, durante un viaggio in Indonesia, mi è capitato un episodio che ancora oggi mi fa sorridere con una punta di fastidio. Sono un terrone doc, cresciuto all’ombra del Vesuvio, e quando sei lontano da casa e incontri altri italiani, scatta spesso quella voglia di scambiare due chiacchiere, magari condividere un pezzo di viaggio. Durante un’escursione in barca, mi ritrovo con una coppia anziana di veneti, rilassata, simpatica, persino di centrosinistra. Tutto tranquillo, finché, costeggiando un’isoletta con un villaggio di baracche malconce, tra lamiere arrugginite e legno marcio, il marito guarda la scena e dice alla moglie: “Pensa come stanno messi ‘sti marocchini!” Poi si volta verso di me e aggiunge: “Scusa, eh!”
In quel “scusa” c’era un universo di sottintesi. Non si stava scusando per un’espressione infelice, ma per dirmi che, nonostante la mia napoletanità, non mi considerava – bontà sua – parte di quella categoria marocchina che, nella sua testa, era sinonimo di miseria, arretratezza, ecc…

Un momento imbarazzante, a prenderlo bene anche un po’ comico, che mi ha fatto riflettere su come il pregiudizio possa infilarsi in episodi apparentemente banali. Ci sono infatti occasioni che ti pongono di fronte a piccole espressioni di razzismo che, pur sembrando innocue o dette en passant, sono insopportabili quanto i grandi gesti d’intolleranza. Quelle parole, magari sussurrate, ti ricordano che il pregiudizio può ferire anche senza essere urlato. Talvolta basta un dettaglio, una smorfia, per capire quanto il razzismo sia radicato e difficile da estirpare.

Ma, per fortuna, a me episodi come questo capitano raramente. Mettiamoci invece nei panni di “una persona nera” in un Paese come il nostro, dove le battute insolenti o certi sguardi sono all’ordine del giorno.

È qui che entra in gioco Nadeesha Uyangoda, una voce che dovremmo tutti ascoltare. Nata a Colombo nel 1993, dall’età di sei anni in Brianza, la Uyangoda è una scrittrice italiana di origini singalesi che, con due libri, un podcast e articoli su giornali e riviste prestigiose, racconta l’Italia da una prospettiva che manca ancora quasi del tutto nel dibattito pubblico. La sua forza? Sa parlare di temi seri – a volte dolorosi – con una leggerezza e un’ironia che ti fanno sentire come se stessi chiacchierando con un’amica brillante, sincera, intelligente, mai scontata.

Il suo primo libro, “L’unica persona nera nella stanza” (66thand2nd, 2021), è un reportage sulla quotidianità di chi vive in un Paese dove essere neri può significare soltanto che sei “straniero” e “extracomunitario”, anche se sei nato e cresciuto qui. Non si tratta solo di razzismo esplicito, fatto di insulti o gesti eclatanti. La Uyangoda ci mostra quanto siano insidiose le microaggressioni che non fanno rumore, quei momenti apparentemente innocui che però pesano. Come quando sei l’unica persona nera in un gruppo e tutti ti guardano come se fossi un’eccezione, o ti chiedono “di dove sei veramente?” come se la tua risposta non possa essere “Italia”. Oppure quando vieni invitata a un evento non tanto per le tue idee, ma perché serve una “quota nera” per evitare critiche. L’unica persona nera nella stanza è quella cui l’impiegato di banca si rivolge col “tu”, ritornando al “lei” col cliente successivo; è la bambina cui la maestra dice “Nadeesha, tu la tesina la fai sul tuo Paese”, intendendo ovviamente lo Sri Lanka. L’unica persona nera nella stanza è quella che esce con tuo figlio al quale chiedi “quanto sia scura”. Sono tutti episodi che evidentemente fanno pensare ad un memoir, ma il libro è anche un serissimo piccolo saggio sulla società italiana, che parla di noi tutti, rivelando un razzismo “ordinario” che spesso non riconosciamo nemmeno.

Nel suo secondo lavoro, Corpi che contano (66thand2nd, 2024), la Uyangoda scrive con un registro da saggio del legame tra corpo, sport e identità, confrontando i ricordi d’infanzia legati al proprio corpo con le vicende di atleti razzializzati che hanno trasformato le loro capacità fisiche in una professione. Attraverso queste storie lo sport si rivela un modo per realizzare un riscatto sociale, un mezzo per abbattere muri e preconcetti, ma anche uno strumento di potere politico e controllo culturale. E il corpo dell’atleta diventa un simbolo, il ring sul quale si affrontano pregiudizi, discriminazioni e aspettative della società. È un corpo che viene celebrato, ma anche valutato, mercificato, controllato, politicizzato. L’autrice mette in chiaro quanto il razzismo sia ancora presente nel mondo dello sport e quanti stereotipi continuiamo a portarci dietro quasi per abitudine o per inerzia. Come per esempio l’idea che certi corpi siano “fatti” per alcuni sport e non per altri solo perché appartengono a una certa “razza”, oppure la convinzione ancora molto radicata che esistano sport “da maschi” e sport “da femmine”. Con un tono sempre intelligente e mai pedante, Nadeesha disfa queste narrazioni e ci invita a riflettere.

Ecco quindi perché è il caso di leggere i suoi libri. Perché Nadeesha Uyangoda ci regala una lente nuova per guardare l’Italia, quella delle persone nere o appartenenti a minoranze spesso invisibili. Con i suoi scritti e il podcast “Sulla razza“, sfida pregiudizi, parla di razzismo sistemico e di mancanza di rappresentanza in politica, media e cultura. Come dice lei: “Negli ambienti culturali italiani i neri esistono come oggetto del discorso, quasi mai come soggetto”. I suoi libri non solo informano, ma spingono a interrogarsi e a cambiare, a partire dai piccoli gesti quotidiani.
Se vogliamo quindi capire cosa significhi essere una persona di colore in Italia oggi, iniziamo da Nadeesha. Ci lascerà con tante domande, ma anche con la voglia di fare la nostra parte. Seguiamola sui Social, dove, per esempio, il giorno 6 giugno scrive: “La settimana prossima mi scade il permesso di soggiorno (che non è più illimitato, ma va rinnovato ogni 10 anni). […] L’anno scorso ho iniziato il lungo processo verso la domanda di cittadinanza (ho avuto l’appuntamento per la legalizzazione a febbraio 2025, ad oggi non ho ancora ricevuto il documento). Non raccontiamoci tante storie: il referendum potrebbe portare la concessione della cittadinanza da 13 a 8 anni per gente che vive, lavora, va a scuola e paga le tasse in Italia. Non risolve il divario di potere tra passaporti, non è risolutivo in tema di cittadinanza, non snellisce le pratiche burocratiche. Non è poi molto, ma anche quel poco è importante perché concede in tempi meno incivili i diritti politici a persone che, pur nascendo o crescendo o vivendo in questo paese, non riescono a partecipare alla cosa pubblica.”

IL RANDAGIO SUGGERISCE: ANDIAMO A VOTARE!”

P.S. Non c’entra niente, ma Nadeesha e io tifiamo per la squadra di calcio Campione d’Italia: forza Napoli sempre!

Gigi Agnano

Napoletano, classe ’60, è l’ideatore e uno dei fondatori de “Il Randagio – Rivista letteraria“, nato il 15 ottobre 2023, anniversario della nascita di Italo Calvino.

Antoine Volodine: l’incipit di Le ragazze Monroe, trad. dal francese di Anna D’Elia (66thand2nd)

“La ragazza rimase appesa per un istante al cornicione che correva intorno al terzo piano, poi precipitò nel vuoto e scomparve nell’oscurità iridescente di rue Dellwo. Si chiamava Rausch. Rebecca Rausch. Trent’anni prima l’avevo amata alla follia. E poi era morta.

Al di là della breve scia nera tracciata dalla sua caduta, in mezzo al buio non si registrarono cambiamenti. L’immagine, priva di colore, era estremamente nitida, ma al suo interno non accadeva nulla. Delle goccioline fredde si radunavano sotto i fili elettrici che collegavano le case per poi staccarsi con ritmo regolare e cadere giù, molto più in basso, sul selciato o nelle pozzanghere, dopo un breve scintillio e, di certo, una nota cristallina. Era un’immagine fissa, ma nulla impediva di sovrapporvi una sommessa colonna sonora. Tintinnii distanziati da dopo pioggia. Al di là di questo, non c’erano rumori ad animare lo sfondo. Due lampioni su tre erano spenti. Dietro le finestre non brillava neanche una luce. In mezzo alla carreggiata, i binari del tram parevano sopravvivere in uno stato pietoso, emergendo o affondando nell’acqua a seconda degli avvallamenti e dei rilievi del terreno.

La ragazza era sempre lì, raggomitolata sul selciato. Dopo cinque minuti, si mosse.”

Le ragazze Monroe di Antoine Volodine (66thand2nd)

Intervista a Lavinia Mannelli di Viviana Calabria

Lavinia Mannelli, toscana, classe ’91, pubblica il suo primo romanzo con la casa editrice romana 66thand2nd. L’amore è un atto senza importanza pone l’attenzione sul desiderio – sessuale, di successo, di riconoscimento – ma parla anche di corpi, di media e cultura, di essere umano, di progresso. Sono sicura che l’intervista possa aggiungere molto alla lettura del libro e Lavinia è molto decisa nello spiegare i suoi intenti e i suoi ideali.

Nella tua biografia si legge che lavori a un progetto di ricerca sulle donne robot. Mi viene naturale pensare che il romanzo sia nato da lì, visto che uno dei personaggi è una bambola, del sesso, robot di ultima generazione. Come mai la scelta di questo progetto di ricerca più affine a materie quali robotica e meccanica essendo tu laureata in Lettere moderne, e come hai scoperto poi la scrittura?

Ciao Viviana, e grazie di cuore per l’invito. In realtà no, sorpresa: il mio progetto di ricerca è nato dopo, diciamo anche molto dopo che avevo ideato, scritto e rivisto la trama principale del libro. Come ho detto anche in un’altra recente intervista a cura di Giulia Bocchio per Poetarum Silva, è stato grazie alla eccezionale disponibilità della tutor del mio dottorato, la prof.ssa Daniela Brogi, che ho potuto considerare i miei interessi come scrittrice (o aspirante tale) anche da un punto di vista più scientifico. La mia idea iniziale era di occuparmi dell’influenza di Dostoevskij su alcuni grandi scrittori italiani del Novecento. Mi sono spostata su altro, invece, proprio perché avevo in parte già scritto il libro nella forma in cui lo hai letto tu. La natura della mia ricerca, comunque, resta quella umanistica: mi occupo di rintracciare alcune delle più interessanti opere del cinema e della letteratura novecentesca italiana in cui compaia un personaggio femminile artificiale (macchina, computer, cyborg, robot, quadro, statua, ecc). Sto cioè provando a disegnare una mappa della presenza di donne-macchina all’interno dell’immaginario italiano contemporaneo. Una ricerca che investe anche fenomeni come quelli della cibernetica, di ChatGPT per capirci, ma più che altro da un punto di vista storico-culturale.

Non posso chiaramente negare che approfondire alcuni dei testi e dei film che trattano argomenti simili a quelli del mio romanzo (faccio qualche esempio tra i più noti: The Stepford Wives di Ira Levin, Metropolis, Westworld o Her)… non posso negare, dicevo, che sia stato un grande arricchimento, però devo anche essere onesta: a posteriori, per il mio libro non ho mai scelto una soluzione stilistica o di trama che fosse suggerita dai miei studi accademici. Nella scrittura sono anzi da sempre molto istintiva: almeno all’inizio, mi butto nel vuoto. Poi sento anche il bisogno di un momento di concettualizzazione, ma questo penso sia necessario se non vuoi dire banalità o se vuoi capire davvero a chi può interessare quello che stai scrivendo. O almeno questo è il mio metodo adesso: sono solo al primo romanzo, spero di farne altri e allora chissà.

Parliamo di Tamara, questa perfetta fidanzata, così viene definita, dalle forme sinuose che parla per citazioni e frasi fatte elaborate dal sistema interno collegato ai computer, sempre pronta a soddisfare ogni bisogno. Nel tuo romanzo Tamara è un regalo di Giulia al compagno Guido, forse per ridare pepe al rapporto o solo per esigenze sessuali di lui. Credi che serva un elemento estraneo su cui concentrare desideri sessuali che non collimano in una coppia, una compagnia anche silenziosa, un intermediario esterno tra due persone che possa dirimere litigi, per gestire una relazione?

Non credo che serva un elemento estraneo: credo fermamente che ci sia sempre, a prescindere dal modo in cui lo concettualizziamo o scegliamo di viverlo. Nella vita di coppia così come nella vita di ciascuno di noi, in qualsiasi contesto, c’è sempre un modello con cui confrontarci, siamo sempre di fronte a uno specchio, più o meno consapevole o deformato, di quello che siamo o non siamo.

In questo senso Tamara è un elefante nella stanza sia per Giulia che per Guido, anche se per motivi diversi: nessuno dei due sa bene perché quella bambola del sesso si trovi lì, su quel divano di ecopelle, in quel salotto in cui sembra trovarsi più a suo agio di loro. Eppure Tamara è proprio lì, con le sue plastiche ipoallergeniche su cui il sole batte con violenza, a manifestare un qualcosa che non funziona, tra di loro, nel modo in cui ciascuno dei due elabora i propri desideri – per la maggior parte delle volte, reprimendoli. In fondo, Tamara è una sorta di regalo sadomasochistico: serve a testare la solidità di una relazione che non si sente troppo stabile, o forse è un modo obliquo, indiretto, per chiamarsene definitivamente fuori.

Sempre Tamara nel romanzo dice di avere un sassolino nel petto o nello stomaco che sembra farsi pesante in concomitanza di quelle che per noi sono emozioni. Ha quindi una coscienza e impara nuove cose sul mondo e sull’amore dai programmi televisivi del pomeriggio, in particolare Uomini e Donne. Hai mai pensato a come sarebbe vivere tra robot?

In una scena del romanzo, durante il vernissage casalingo di Guido, la coppia di proprietari di Tamara si comporta in maniera sciocca, snobistica, falsa. Giulia è la più impostata, ma Guido è goffo e banale, in una maniera che Tamara non riesce a sopportare: non fa che ripetere “la natura umana, la natura umana”.

La grande tradizione dei romanzi realisti ci ha insegnato a mettere in sospetto espressioni come questa: dai romanzi di Balzac sappiamo che non esiste l’uomo in generale, ma esistono tipi di umanità socialmente e ideologicamente determinati che, nell’incontrarsi, nel luogo più o meno simbolico del romanzo, non possono che relativizzarsi. Come non esiste la natura umana in astratto, allora, ma uomini e uomini, donne e donne, natura umana e natura umana, così non esiste il robot in astratto. Già adesso, che stiamo appena appena provando a familiarizzare con alcuni software di intelligenza artificiale, ce ne rendiamo conto: c’è una grande differenza tra AI e AI, che spesso dipende dall’uso che l’uomo ne fa, dal modo in cui lo interroga, da quello che cerca di estrapolarne.

Spero di non parlarmi troppo addosso se dico che quello che ho voluto fare con questo romanzo è proprio questo: sottrarre la riflessione della e nella fantascienza dall’ipoteca della metafisica. Chiedersi che cosa sia la natura umana in astratto è una questione forse priva di significato, e con questo romanzo ho provato a restituirla a una domanda più concreta, più interessante e utile, credo: “che cosa significa la natura umana nel salotto di due intellettuali di sinistra, se, quando escono di casa, si dimenticano la TV accesa?”.

Ed ecco che forse, con questa premessa, alla tua domanda posso rispondere: proprio perché, a differenza di quanto vorrebbero farci credere programmi come quelli di Maria De Filippi, non esistono “Uomini” e “Donne” in generale, forse vivere tra robot somiglia un po’ a rimanere intrappolati per sempre, da concorrenti, in uno studio di Canale 5.

Tornando ai programmi televisivi, mi sembra che il tuo libro metta in luce una critica ai media e alla cultura di massa. Prendiamo anche il personaggio di David, un amico della coppia: è un artista che desidera la fama ma che sa di non poterla perseguire se non asseconda alcune richieste che metterebbero però in mostra le sofferenze della madre. Quali sono e che entità secondo te hanno i danni provocati dai media, dalle scelte del pubblico e dai social sulla cultura, l’alfabetizzazione, l’evoluzione del lavoro e sulla notorietà (direi anche sul gusto vero e proprio, sulla conoscenza ecc.)?

Ti sono grata di aver colto questo elemento. Per me è molto importante che si parli del libro anche in questi termini: è vero che, assumendo il punto di vista di una bambola del sesso infatuata del mondo di Maria De Filippi, era molto forte il rischio di sembrare snobistica da una parte, perché in realtà io appartengo al mondo di Giulia e Guido, e dall’altra persino complice, se vuoi, dell’immaginario degradato e degradante di Mediaset.

Ho scelto però consapevolmente una posizione di totale ambiguità, spero non paracula, come si direbbe con eleganza, perché penso che sia nelle cose.

Se accettiamo la realtà della cosiddetta TV spazzatura, come non possiamo fare a meno di fare, a mio avviso, dobbiamo anche assumerci la responsabilità non solo di constatare, razionalizzandole tassonomicamente, tutte quelle specifiche forme in cui, per esempio, Mediaset contribuisce a mortificare il corpo delle donne: è nostro dovere, credo, rendere anche conto del come e del perché le narrazioni che contiene affascinano così tanto, nonostante questo, i suoi spettatori. Solo così possiamo smettere di essere snob, intellettualistici, e ricucire una sfasatura tra chi scrive e chi (non) legge – e dunque, magari, chissà, riuscire a occupare con nuove forme il ruolo che questa TV esercita ormai da decenni.

La bambola del sesso è in questo senso una richiesta di mediazione, e il romanzo che racconta la sua storia è fantastico (più che fantascientifico, come dicevo anche prima) tanto quanto sociologico. Il centro del libro non è, cioè, o almeno credo, il diventare umana di Tamara in senso astratto, o le nevrosi di Giulia e Guido, ma lo scontro tra due (anzi, tre) specificità sociologiche. Con la sua ingenuità, con la sua innocenza, con la sua parola disarmata, Tamara sta lì per porre una domanda: perché non potete darmi una cultura che non sia una trappola? Che non sia una forma degradata di un mio impulso rimosso né una intellettualizzazione totalmente distaccata dalla realtà?

Se vogliamo spararla grossa, Tamara è un po’ un’idiota dostoevskiana: un personaggio che normalmente non troverebbe spazio in un preciso contesto, ma che, per un motivo o per un altro, quando vi entra in contatto, con la forza dello straniero o del bambino di fronte al re nudo, riesce a cogliere le verità nascoste, disinnescare le menzogne ancora più profonde di ciascuno dei personaggi della storia. Questo corto circuito rappresenta quella che è forse una scissione interna della nostra società, e il fatto che siamo sempre meno capaci di esprimere un ceto intellettuale che riesca a farsi ascoltare e avere una qualche efficacia sulla vita collettiva, senza ricadere in uno snobismo consolatorio.

Il desiderio è uno dei temi importanti del romanzo, e in parte nelle altre domande viene fuori anche se non è esplicitato. Parli di desiderio di essere amati, essere visti per quello che siamo, essere ascoltati e di avere successo. Da cosa deriva questo bisogno perennemente insoddisfatto ed esiste un modo per liberarsi del bisogno di essere amati, accettati, capiti, lodati dagli altri e vivere nella eccezionalità e mediocrità di ognuno di noi senza soffrirne ed esserne influenzati?

Qui sarò stranamente lapidaria. No, non esiste e non deve esistere, secondo me, un modo per liberarsi da questo bisogno. Poi possiamo parlare di modi più o meno sani di elaborarlo o non farci i conti, ma no, il desiderio è ciò che ci rende migliori e peggiori ed è dunque un fattore ineliminabile delle nostre vite, dei nostri tormenti.

Giulia, personaggio del romanzo, organizza dibattiti e serate contro il patriarcato. C’è un legame tra questa scelta e il regalo che fa a Guido, Tamara? Mi viene da pensare che Giulia sposti l’immagine del corpo sessualizzato della donna dal suo a quello di una bambola costruita ad hoc per lo scopo, per affermare le sue idee anche nei confronti del compagno. Per mostrare come il sesso sia un atto istintuale e di piacere, non solo procreativo, quindi definire la donna istintiva e irrazionale e l’uomo razionale non ha fondamento. Che il sesso e l’amore non sono la medesima cosa, e che l’idea di dominazione dell’uomo, di riempimento dell’involucro donna per giustificare violenze e prevaricazioni viene meno nel momento in cui si ricorre a una bambola. O forse volevi soltanto mostrare la difficoltà di un rapporto a due, la volontà di migliorare una relazione e mostrarsi all’avanguardia e come questo però nella realtà dei fatti metta in moto gelosie e sensi di inferiorità.

Hai colto ancora una volta un punto fondamentale di quello che volevo dire nel libro, quindi ti ringrazio.

In effetti è proprio come dici tu: Guido regala a Giulia un profumo lezioso e dei vestiti attillati che Giulia fa indossare a Tamara. Giulia, cioè, sposta su Tamara l’incombenza non tanto del sesso, quanto dell’essere la risposta al desiderio complesso, per lei inaccessibile fino in fondo, di Guido. E questo desiderio è inaccessibile anche perché è inascoltato da Guido per primo.

Si definiscono entrambi femministi, partecipano alla causa organizzando manifestazioni, scioperi, serate contro il patriarcato, ma nel modo in cui lo fanno (e non, certo, nella causa di per sé) c’è un forte elemento velleitario, da cui deriva il tono ironico del libro: lo stesso di quando leggono le pagine di Mark Fisher o Donna J. Haraway e non vanno mai troppo avanti. In un certo senso non possono andare avanti: le cose che leggono non sono coerenti con i loro più sotterranei desideri che, in un modo o nell’altro, come ci insegna la psicoanalisi, tendono sempre a riemergere.

Tamara ha un ingresso così potente nella vita di Giulia e Guido perché grazie alla sua particolare educazione sentimentale rappresenta una forte alterità per loro: comprandola, è come se si fossero costruiti una trappola. Hanno delegato, terziarizzato il proprio rimosso a qualcun altro che, tuttavia, lo espone ogni giorno: è il corpo perfetto, disponibile, sessualizzato di Tamara che mette continuamente il sospetto a Giulia di essere insufficiente per Guido, e che ricorda continuamente a Guido che non è così femminista come vorrebbe. Perché Tamara è desiderabile, come può non esserlo se è stata creata per quello? Così, il rimosso sessuale dei due ragazzi – che la TV di Mediaset e il mercato che distribuisce queste bambole rappresenta in forma degradata – diventa il nutrimento quotidiano di questa sorta di cavallo di Troia che i due si sono costruiti.

Viviana Calabria