Breve riflessione a caldo leggendo Krasznahorkai e guardando la balena di Tarr, di Mariarosaria Sciglitano

C’era aria di Nobel fin dal 2015, quando la critica americana Susan Sontag lo aveva definito “The contemporary Hungarian master of apocalypse”, maestro dell’Apocalisse, dopo aver letto il suo secondo libro, Melancolia della resistenza, e dopo che lo scrittore ungherese era stato insignito del prestigioso Man Booker International Prize. I nomi ungheresi che ritroviamo puntuali ogni anno sono, appunto, quello di László Krasznahorkai e quello, assolutamente non meno meritevole, di Péter Nádas, anche lui leggibile in lingua italiana.

In occasione del conferimento del Nobel la sua casa editrice ungherese, la storica Magvető, sui social ripubblica un post del 2024: «Quest’anno la Magvető è piena di anniversari importanti, rotondi […]: la casa editrice compie 70 anni, Péter Esterházy è nato 75 anni fa […] Esattamente 40 anni fa, il 10 aprile 1985, veniva pubblicato il primo romanzo di László Krasznahorkai: Sátántangó. I tesori gelosamente custoditi del nostro archivio editoriale sono i cataloghi in cui i colleghi di un tempo registravano i dettagli delle prime pubblicazioni. […] Sátántangó è ormai diventato un classico, un’opera fondamentale senza la quale la cultura ungherese, così come la letteratura mondiale, sono impensabili e inimmaginabili”, scrive János Szegő, editor della casa editrice. 

L’allora curatrice, Mária Zsámboki, a cui si deve in assoluto il primo tentativo di interpretazione, annotava: «Leggiamo il primo, avvincente romanzo di uno scrittore con un umorismo pungente, una visione sofisticata e profonda, uno stile sfumato e raffinato: un libro che ci presenta le vicissitudini del destino in una forma matura e chiara».

Ma in Italia László Krasznahorkai non si presenta con Satantango (trad. di Dóra Várnai, Bompiani, 2016), bensì con Melancolia della resistenza (trad. di Dora Mészáros e Bruno Ventavoli, Zandonai, 2013) grazie alla brillante intuizione dell’editor Giuliano Geri, poco prima che la casa editrice in questione, purtroppo, chiudesse i battenti.

Ed è proprio su questo suo secondo libro che si basa una delle più fortunate collaborazioni tra lo scrittore e il regista, parimenti ungherese, Béla Tarr, ospitato nel 2024 a Napoli nell’ambito del Maggio dei Monumenti con un workshop, una bellissima rassegna integrale e tante iniziative a lui dedicate. Parliamo de Le armonie di Werckmeister (2000), che ho avuto l’onore di tradurre lavorando fianco a fianco con il regista, che ascoltava scrupolosamente risuonare i dialoghi in italiano. 

Le atmosfere rarefatte, quelle comunità ai limiti dell’umano, ai margini del mondo, in prospettive temporali sospese, le attese infinite, che ricordano il tempo in Dino Buzzati, dei libri di Krasznahorkai, lo hanno forse troppo spesso incastrato nella definizione di “apocalittico”. Ma l’autore ha più volte ribadito nelle sue interviste che l’Apocalisse è la normale condizione del mondo, è il suo stato ordinario.

L’opera di Krasznahorkai viene abitualmente considerata come un unico, lungo arco narrativo che parte dall’implosione del villaggio e della sua comunità e procede verso aperture cosmiche, prende il via dal senso della fine del mondo e si eleva fino alla trascendenza. E, sebbene ogni sua opera affronti il caos e l’ordine da prospettive diverse, ci riporta sempre alla stessa consapevolezza: oltre i confini del linguaggio, dell’esperienza umana e della comprensione, c’è qualcosa che ci attende e che non possiamo più controllare. 

Nota positiva: mentre per il primo premio Nobel alla letteratura ungherese, Imre Kertész (2022), l’editoria italiana era stata colta alla sprovvista e in italiano c’era solo un titolo, Essere senza destino (trad. di Barbara Griffini dal tedesco, Feltrinelli 1999), con Krasznahorkai si è organizzata per tempo, tant’è che dopo Zandonai e Melancolia della resistenza, Bompiani ha regolarmente pubblicato le sue opere.

Mariarosaria Sciglitano*

László Krasznahorkai e Mariarosaria Sciglitano. Foto di Katalin Kismartoni scattata a Budapest, presso la sede della MTA – Accademia Ungherese delle Scienze.

*Mariarosaria Sciglitano: ha ottenuto la cittadinanza ungherese per chiari meriti. Traduttrice, giornalista, PhD in letteratura comparata, ha tenuto corsi di letteratura italiana contemporanea e di traduzione letteraria dall’ungherese all’Università ELTE di Budapest. Ha insegnato italiano come lettrice madrelingua all’Università Corvinus di Budapest per circa un trentennio; ha svolto corsi di lingua italiana livello avanzato all’Istituto Italiano di Cultura per l’Ungheria per un ventennio.
È stata docente a contratto all’Università di Firenze e cultrice della materia (Letteratura ungherese) all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale.
Membro della Federazione Nazionale dei Giornalisti Ungheresi (MÚOSZ) dal 1995, collabora con media italiani (la Repubblica, il Manifesto, il Sole 24 Ore, RAI, Radio Popolare, Radio Mir) e ungheresi (ÉS, HVG, MTI, TV2, Magyar Rádió) occupandosi di cultura.
È stata giornalista accreditata presso il Ministero degli Esteri d’Ungheria per Radio Rai, Rassegna sindacale e Il Manifesto.
Svolge attività di consulenza per la traduzione letteraria dall’ungherese all’italiano presso l’Istituto Balassi, e continua a svolgerla presso il Petőfi Literary Fund. Collabora come consulente madrelingua per l’Italianistica con l’Ufficio Scolastico Nazionale – Oktatási Hivatal.
Traduce per editori come Garzanti, Feltrinelli, Bompiani, Il Saggiatore, Marsilio, Marietti, Neri Pozza, Hopefulmonster e altri sia italiani sia stranieri, conseguendo il riconoscimento per la traduzione “Frankfurt ’99”, nel 1997; il premio Déry Tibor per la sua attività di traduttrice nel 2018; il premio MIBACT – Fondo per il potenziamento della cultura e della lingua italiana all’estero nel 2020. Tra gli autori tradotti, il premio Nobel della letteratura ungherese Imre Kertész.
Ha curato la traduzione dall’ungherese e dall’inglese all’italiano di numerose sceneggiature letterarie e la sottotitolazione dei relativi film, nonché di opere teatrali.
Svolge regolarmente lavori editoriali di revisione, correzione, editing.

A Napoli un tour letterario dedicato a Márai Sándor, di Mariarosaria Sciglitano

Sándor Márai visse a Napoli, nel borgo di Santo Strato a Posillipo, dal 1948 al 1952, un periodo che descrisse come tra i più belli della sua vita. Da Napoli, l’autore ungherese, esule a causa dell’invasione sovietica del suo paese, trasse l’ispirazione per scrivere “Il sangue di San Gennaro”, il romanzo che ha come cornice e protagonista la cultura, i paesaggi e l’umanità del popolo napoletano. Ed è da Napoli, passando per Capri e Sorrento, che da mercoledì 3 settembre parte un tour letterario dedicato a Márai Sándor in compagnia della storica della letteratura ungherese Juhász Anna e della traduttrice e giornalista Mariarosaria Sciglitano. Il tour si concluderà sabato 6 settembre alla libreria Feltrinelli di piazza dei Martiri a Napoli, dove dalle 18,30 si parlerà anche di letteratura ungherese contemporanea. Inutile dire che noi Randagi ci saremo!

*************************************

«A Pasqualino, perché aveva sei anni e ogni mattina portava giù l’immondizia, al pescatore monco, perché ammansiva il mare, a santo Strato, perché proteggeva il palazzo e i malati» (da Sándor Márai Il sangue di San Gennaro)

Parte da Napoli il successo mondiale dello scrittore ungherese Sándor Márai grazie a un libro che molti ricorderanno: Le braci (Adelphi, 2008, oggi alla 23ª edizione, tradotto in oltre 30 paesi), ma soprattutto grazie alla grande cura e competenza della sua traduttrice, Marinella D’Alessandro, docente di letteratura ungherese all’Istituto Universitario Orientale (oggi: Università di Napoli L’Orientale), ora in pensione, la persona alla quale devo la mia passione per l’Ungheria e la mia professione di traduttrice. Secondo Pietro Citati «…un libro straordinario per grandezza d’ispirazione e intensità di stile, da mettere accanto ai pochi libri bellissimi della sua epoca».

Le braci, risulta essere uno dei cinque titoli più venduti di sempre del catalogo Adelphi, ma nel corso di questo primo tour napoletano – che parte oggi e termina sabato alla Feltrinelli – ci soffermeremo anche e soprattutto su Il sangue di San Gennaro (Adelphi, 2010, trad. di A. D. Sciacovelli), ambientato a Napoli, città nella quale Márai visse tra il 1948 e il 1952, anni che ricorderà nei suoi diari come i più belli della sua vita. 

Ecco alcuni brani che, a mio avviso, lasciano intuire lo sguardo dello scrittore sulla città alla quale rimarrà legato per tutta la vita. 

[Il venditore di noccioline] A dire il vero non ama vendere, è un aspetto della sua attività che lo infastidisce. Sopra ogni cosa gli piace salutare: i clienti, i conoscenti che passano da quelle parti, il conducente del filobus. A salutare è bravissimo. Il busto che si piega appena in avanti sulla sdraio – senza mai sollevarsi troppo – il braccio alzato con noncuranza, il sorriso che rivela le gengive sdentate e annerite dalla nicotina nella cornice del volto non rasato: tutto ciò fa parte della sua attività, ma significa di più, e ben altro. Anche la Città ha avuto origine da un sorriso di tal fatta, il sorriso aristocratico. Così come la Vita Pubblica, quando i suoi avi, i coloni greci, sbarcarono tremila anni fa nella vicina Cuma. Forse, razionalmente, quest’uomo lo ignora, ma il suo cuore lo sa. Gli stranieri non possono far nulla contro la mitezza e la cortesia. I saraceni sono stati conquistati e scacciati dalla mitezza, come di recente i tedeschi e gli americani. Tutti loro, giunti su queste coste con le armi, se ne sono allontanati confusi, incapaci di fronteggiare un sorriso cortese.

(Il sangue di San Gennaro, pp. 59- 60)

Il pescivendolo arriva di primo mattino da Pozzuoli. Pure lui canta, giù nel giardino, come il postino e il venditore di legumi e frutta, come quell’altro che regge in capo il canestro con il pane. Perché vanno e vengono, sono sempre in movimento, sempre attivi. Nel mondo hanno fama di essere pigri. Ma non è vero.

Dall’alba alla mezzanotte sono sempre in giro a cercare lavoro. Non hanno tempo per lavorare, perché cercano lavoro. Certo, il lavoro lo disprezzano. Non lo ritengono un obiettivo esistenziale, né una soluzione. Si limitano a eseguirlo, quando ne trovano uno, con grande perizia e sensibilità manuale. Le diverse possibilità dell’uomo – l’azione, la creazione, il lavoro – li interessano solo da un punto di vista teorico. Non sono abbastanza crudeli per agire. E sono troppo stanchi per creare, perché hanno sprecato tutte le loro energie nel Rinascimento. No, non ammettono che il lavoro possa costituire una ragione di vita. Quello che veramente amano è l’attività.

Sono instancabilmente attivi. Attivi come gli uccelli che volano in circolo sotto l’oro del cielo azzurro. Sanno che l’attività non è azione. Né creazione. Né lavoro. Essere attivi è modificare le opportunità offerte dal momento. Ed è questo che sanno fare bene.

(Il sangue di San Gennaro, pp. 50- 51)

Non potendo ricevere la cittadinanza italiana, sarà in effetti costretto a lasciare Napoli e l’amato rifugio di via Nicola Ricciardi a Posillipo, per recarsi in America dove però non riuscirà ad attendere il momento storico delle prime elezioni libere in Ungheria nella primavera del ’90. A fine agosto del ’48, abbandonando il suo paese per motivi politici, aveva disposto che da quel momento le sue opere venissero pubblicate in Ungheria solo dopo le eventuali e tanto attese elezioni libere. 

Morirà suicida a 89 anni nel 1989 a San Diego, in California.

Mariarosaria Sciglitano

Mariarosaria Sciglitano: ha ottenuto la cittadinanza ungherese per chiari meriti. Traduttrice, giornalista, PhD in letteratura comparata, ha tenuto corsi di letteratura italiana contemporanea e di traduzione letteraria dall’ungherese all’Università ELTE di Budapest. Ha insegnato italiano come lettrice madrelingua all’Università Corvinus di Budapest per circa un trentennio; ha svolto corsi di lingua italiana livello avanzato all’Istituto Italiano di Cultura per l’Ungheria per un ventennio.
È stata docente a contratto all’Università di Firenze – FORLILPSI tra il 2020 e il 2024, dove ha condotto un Laboratorio di traduzione tecnica e di traduzione letteraria dall’ungherese, e cultrice della materia (Letteratura ungherese), all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale.
Ha collaborato alla comunicazione della Stagione Ungherese in Italia del 2002 e del 2013; con l’Ambasciata d’Italia in Ungheria ha curato la redazione di programmi radiofonici sulle eccellenze italiane; si è occupata di PR tra Università Corvinus di Budapest e istituzioni italiane in Ungheria.
Membro della Federazione Nazionale dei Giornalisti Ungheresi (MÚOSZ) dal 1995, collabora con media italiani (la Repubblica, il Manifesto, il Sole 24 Ore, RAI, Radio Popolare, Radio Mir) e ungheresi (ÉS, HVG, MTI, TV2, Magyar Rádió) occupandosi di cultura.
È stata giornalista accreditata presso il Ministero degli Esteri d’Ungheria per Radio Rai, Rassegna sindacale e Il Manifesto.
Svolge attività di consulenza per la traduzione letteraria dall’ungherese all’italiano presso l’Istituto Balassi, e continua a svolgerla presso il Petőfi Literary Fund. Collabora come consulente madrelingua per l’Italianistica con l’Ufficio Scolastico Nazionale – Oktatási Hivatal.
Traduce per editori come Garzanti, Feltrinelli, Bompiani, Il Saggiatore, Marsilio, Marietti, Neri Pozza, Hopefulmonster e altri sia italiani sia stranieri, conseguendo il riconoscimento per la traduzione “Frankfurt ’99”, nel 1997; il premio Déry Tibor per la sua attività di traduttrice nel 2018; il premio MIBACT – Fondo per il potenziamento della cultura e della lingua italiana all’estero nel 2020.
Ha curato la traduzione dall’ungherese e dall’inglese all’italiano di numerose sceneggiature letterarie e la sottotitolazione dei relativi film, nonché di opere teatrali.
Svolge regolarmente lavori editoriali di revisione, correzione, editing, nonché di organizzazione di eventi culturali tra Italia e Ungheria.

Paolo Nori, Nadia Terranova, Andrea Bajani e Fabio Canino allo Strega Tour con Loredana Cefalo e il Randagio (video)


E la guerra? È sparita, proprio come il povero bruco (Quartu, 18 giugno 2025)

Una piccola cosa, stasera, ha attratto la mia attenzione, fortemente.
Fra le scarpe delle tante persone, i tacchi delle signore, quelle eleganti da uomo e le sneakers dei ragazzi presenti alla tappa isolana del Premio Strega Tour, si aggirava timidamente un bruco.
Un bruco marroncino, un po’ brutto, in verità, che c’entrava poco col clima di festa e l’aria di bellezza intellettuale che si respirava fra le sedie, bagnate dalla pioggia torrenziale, che ha preceduto la kermesse presentata da Fabio Canino, volto noto ed irriverente della TV e della radio italiane. 

Mentre il piccolo insetto si faceva spazio fra sedie e piedi, sono saliti sul palco i giovani, di un noto liceo cagliaritano a leggere le loro riflessioni sui cinque libri candidati al prestigioso premio. 

E sempre mentre l’esserino strisciante si aggirava intorno al palco, sulle quattro sedie messe una accanto all’altra, tre dei cinque finalisti hanno preso posto per parlare dei loro bellissimi libri. 

Una serata coi fiocchi, con la giusta dose di pacatezza e puntualità che solo i sardi sanno avere, nonostante due dei nostri supereroi (li chiamo così perché il tour è una bella prova di resistenza per chiunque) non siano riusciti a presenziare in questa unica tappa in Sardegna di Quartu Sant’Elena. 

Ed ecco arrivare le parole che si intrecciano nell’aria che, dopo la pioggia, è diventata fresca.
Si parla di memoria, del potere del ricordo, si ascoltano i video messaggi dei due assenti e si fa qualche battuta. 

Dov’è finito il bruco? 

Eccolo lì, proprio accanto alla mia scarpa, in una posizione defilata, stavolta, rispetto al palco. Sembra cercare finalmente riparo, lontano da piedi indiscreti. 

Mentre riposiziono l’attenzione sul gruppo di scrittori in gara, noto che il fil rouge dei  libri presentati è un grande super potere: quello delle donne. Me ne compiaccio, ma tengo sempre un occhio vigile al bruco e al suo percorrere lento e mi metto in asascolto.

Ascolto la potenza del racconto della protagonista del libro di Elisabetta Rasy, “Perduto è questo mare” che durante varie fasi della vita, sperimenta la ferita per la perdita, dolore che si placherà solo attraverso la memoria letteraria. 

Sempre di memoria e dolore si parla nella famiglia di Madre e Padre, in “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” di Michele Ruol e anche lì, il ruolo femminile gioca una chiave fondamentale per il recupero dei 99 ricordi. 

Andrea Bajani, vincitore già dello Strega Giovani, nel suo romanzo “L’anniversario” compie un piccolo miracolo: fa restituire il ricordo di una madre a suo figlio, una donna che nonostante fosse resa invisibile da un uomo tiranno, riesce anche ad essere felice ed è proprio attraverso la memoria di quella felicità che suo figlio la sente presente nel ricordo e la trova “scalpellando” fra gli scritti.


Ed ecco che arriva il superpotere della bisnonna di Nadia Terranova, nel suo romanzo autobiografico “Quello che so di te”: un emblema delle donne rese isteriche perché anticonvenzionali, marchiate per sempre come pazze, solo perché fuori dagli schemi. Con tenerezza la scrittrice ci ricorda che, sebbene tanti passi si siano fatti nell’emancipazione femminile, siamo ancora molto indietro nella parità di genere. E ci presenta un’immagine fortissima, accomunando le sedie di design delle nostre case a quelle dei manicomi di inizio Novecento, a causa del peso dei legacci e fibbie che il ruolo femminile nella società ancora impone. 


E sul finire del suo discorso sulla realtà attuale, mentre ero distratta dalla scia del mio piccolo amico strisciante, ecco che sento volare nell’aria una parola che sembra uno squarcio.
“Guerra”.
È piccola, bruttina anzichenò rispetto a questa magica serata. Non c’entra nulla, proprio come il mio amico. Ed esattamente come lui, dopo aver generato un silenzio glaciale, nonostante l’afa serale, si attorciglia intorno alla sua autrice, fa un giro timido fra le prime file e sembra dissolversi. 

Paolo Nori, con la simpatia parmense che lo contraddistingue, cita un verso del poeta Raffaello Baldini, “In due” dedicato alla morte di sua moglie. Nel suo libro “Chiudo la porta e urlo” è evidente come la perdita della donna segna per il Baldini un profondo mutamento. Il finale della serata, dunque, ritorna sul potere femminile.

E la guerra? 
È sparita, proprio come il povero bruco. 

Loredana Cefalo*

* Mi chiamo Loredana Cefalo, classe 1975, vivo a Cagliari, ma sono Irpina di origine e per metà ho il sangue della Costiera Amalfitana. Adoro le colline, il profumo della pioggia, l’odore di castagne e camino, che mi porto dentro come parte del mio DNA.

Ho una grande curiosità per la tecnologia, infatti da cinque anni tengo una rubrica di chiacchiere a tema vario su Instagram, in cui intervisto persone che hanno voglia di raccontare la loro storia. 

Sono stata una professionista della comunicazione, dell’organizzazione di eventi e della produzione televisiva, settori in  cui ho un solido background. Mi sono laureata in Giurisprudenza e ho un Master in Pubbliche Relazioni.

Ho accumulato una lunga esperienza lavorando per aziende come Radio Capital, FOX International Channels, ANSA e Gruppo IP, ricoprendo ruoli significativi nel settore della comunicazione e dei media, fino a quando non ho scelto di fare la madre a tempo pieno dei miei tre figli Edoardo, Elisabetta e Margaret.

In un passato recente ho anche giocato a fare la  foodblogger e content creator, con un blog personale dedicato alla cucina, una delle mie grandi passioni, insieme all’arte pittorica e la musica rock.

L’amore per la scrittura, nato in adolescenza, mi ha portata a scrivere il mio primo romanzo, “Il mio spicchio di cielo” pubblicato il 16 gennaio 2025 da Bookabook Editore e distribuito da Messaggerie Libri. Il romanzo è frutto di un momento di trasformazione e di crescita. La storia è presa da una esperienza reale vissuta indirettamente e ricollocata nel passato per fini narrativi e per gusto personale. Ho abitato in molti luoghi e visitato con passione l’Europa e le ambientazioni del romanzo sono frutto dell’amore che provo nei confronti delle città in cui è collocato.

“Pride, monogenitorialità e Chiara Maci”, di Loredana Cefalo (video)

“Stasera ho scoperto che le cernie nascono femmine. Poi a metà della loro vita diventano maschi. Sono furbe, le cernie. I maschi sono tutti vecchi e stanno con femmine più giovani, ma non possono stare insieme per sempre per ovvi motivi. Comodo essere una cernia.”

Il primo romanzo di Chiara Maci, “Quelle due” ci ricorda, in pieno Pride Month, una scomoda verità. 

Come ha detto lei stessa dal palco de Le Iene: “Molti credono che Adele non esiste”. Adele, la protagonista, è una madre single. Un fantasma che si aggira tra gli scaffali del supermercato, un’entità mitologica per chi vive ancora nel mondo incantato della famiglia tradizionale o “nucleare”.

Per decenni, il Vangelo sociale recitava: un uomo, una donna, un anello al dito, prole. 

Il kit base della felicità, approvato e sigillato. 

E il Pride, per fortuna, arriva ogni anno a fare da guastafeste, urlando che esistono mille modi per volersi bene e creare una famiglia.

Sul palco, in bella vista, monogenitorialità e l’omogenitorialità che affermano a gran voce: “Esistiamo anche noi. Le nostre famiglie sono reali, basate sull’amore e meritano lo stesso tipo di tutela delle altre”.

Il primo grande scoglio per un genitore single? Farsi riconoscere come “famiglia” e non come un “progetto fallito” o, peggio, un “atto di egoismo”. Perché, si sa, crescere un figlio da soli è una chiara violazione del regolamento non scritto del buon vicinato.

Ma quanti sono questi “egoisti”? 

Noi randagi curiosi siamo andati a ficcanasare tra i numeri.

Secondo l’ISTAT, dall’ultimo censimento disponibile del 2021, in Italia ci sono oltre 3,8 milioni di famiglie con un solo genitore. 

E chi guida questa armata? Le madri, ovviamente. Rappresentano il 77,6% del totale. Quasi 8 su 10, la cui condizione di genitore solo deriva principalmente da separazioni e divorzi. Seguono le vedovanze e, in misura crescente, la scelta di avere figli al di fuori del matrimonio.

La fascia d’età più rappresentata tra i genitori soli è quella tra i 45 e i 64 anni. Anche se si registra un numero considerevole e in costante crescita tra le fasce più giovani.

Si tratta di un fenomeno strutturale che richiede politiche di sostegno adeguate, volte a garantire il benessere dei genitori e, soprattutto, dei loro figli.

Ora, passiamo alla parte spassosa: i soldi. 

O meglio, la loro cronica assenza.

Save the Children, nel suo rapporto “Le Equilibriste”, ci dice che una madre sola con figli minori guadagna in media 26.822 euro all’anno. Un padre nella stessa situazione? 35.383 euro.

Una “piccola” differenza di quasi 9.000 euro. Le cause? Un mix letale di part-time involontari, carriere a singhiozzo per conciliare lavoro e vita e il solito, intramontabile, gender pay gap.

Ma il rischio povertà è solo l’antipasto. Il piatto forte delle difficoltà è un altro.

La vera beffa quotidiana è la caccia alla seconda firma. 

Benvenuti al sadico gioco a premi “Trova l’Ex!”, dove per iscrivere tuo figlio all’asilo, fargli la carta d’identità o mandarlo in gita, devi ottenere la firma di un fantasma o semplicemente un campione di ostruzionismo.

E poi c’è lui, il “carico mentale”.

“Non avevo idea di cosa volesse dire essere madre”

“Quando sei da sola, ogni cosa che fai hai paura di sbagliarla e sai che se succede qualcosa è sempre solo colpa tua”.

Le madri sole sono ad alto rischio di esaurimento psicofisico, essendo le uniche responsabili di tutti gli aspetti della vita dei figli. Dalla gestione della casa, i compiti, le visite mediche, fino alle decisioni educative, tutto viene gestito a ritmi sempre più invasivi e alle povere donne single con prole a carico, non solo non è data la possibilità di dividere i dolori con un  partner, ma non hanno nemmeno il tempo di assaporare le piccole gioie.

Ciliegina sulla torta, lo stigma sociale: quel coro greco di sguardi pietosi e giudizi non richiesti, laddove le domande scomode e inopportune non sono solo riservate al genitore, ma anche ai figli, che non sanno mai cosa rispondere. 

Ecco perché la battaglia per il riconoscimento della monogenitorialità è il cuore del Pride. 

Perché il Pride non è solo una parata arcobaleno. 

È una dichiarazione di guerra alla “normalità” imposta. 

È la lotta per il diritto sacrosanto di scegliere se, come e con chi costruire la propria vita. 

È chiedere allo Stato di fare il suo lavoro: proteggere tutte le famiglie, concentrandosi sul benessere dei bambini.

Perché l’amore, a differenza di un modulo per la questura, non ha bisogno di due firme per essere valido.

Loredana Cefalo*


* Mi chiamo Loredana Cefalo, classe 1975, vivo a Cagliari, ma sono Irpina di origine e per metà ho il sangue della Costiera Amalfitana. Adoro le colline, il profumo della pioggia, l’odore di castagne e camino, che mi porto dentro come parte del mio DNA.

Ho una grande curiosità per la tecnologia, infatti da cinque anni tengo una rubrica di chiacchiere a tema vario su Instagram, in cui intervisto persone che hanno voglia di raccontare la loro storia. 

Sono stata una professionista della comunicazione, dell’organizzazione di eventi e della produzione televisiva, settori in  cui ho un solido background. Mi sono laureata in Giurisprudenza e ho un Master in Pubbliche Relazioni.

Ho accumulato una lunga esperienza lavorando per aziende come Radio Capital, FOX International Channels, ANSA e Gruppo IP, ricoprendo ruoli significativi nel settore della comunicazione e dei media, fino a quando non ho scelto di fare la madre a tempo pieno dei miei tre figli Edoardo, Elisabetta e Margaret.

In un passato recente ho anche giocato a fare la  foodblogger e content creator, con un blog personale dedicato alla cucina, una delle mie grandi passioni, insieme all’arte pittorica e la musica rock.

L’amore per la scrittura, nato in adolescenza, mi ha portata a scrivere il mio primo romanzo, “Il mio spicchio di cielo” pubblicato il 16 gennaio 2025 da Bookabook Editore e distribuito da Messaggerie Libri. Il romanzo è frutto di un momento di trasformazione e di crescita. La storia è presa da una esperienza reale vissuta indirettamente e ricollocata nel passato per fini narrativi e per gusto personale. Ho abitato in molti luoghi e visitato con passione l’Europa e le ambientazioni del romanzo sono frutto dell’amore che provo nei confronti delle città in cui è collocato.

“Referendum, andiamo a votare!”, di Loredana Cefalo (video)

Cari amici randagi, oggi vi racconto una storia. 

Immaginate una bella mattinata a Procida, nel 1938. Il sole splende, il mare luccica… e cosa sognano le nostre fanciulle? 

Elsa Morante ce lo svela ne L’Isola di Arturo con una frase che è un pugno nello stomaco:

 “La loro sola speranza, era di diventare le spose d’un eroe: di servirlo, di stemmarsi del suo nome, di essere la sua proprietà indivisa, che tutti rispettano; e di avere un bel figlio da lui, somigliante al padre.”

Insomma, il sogno nel cassetto? Mettere l’anello al dito di un “eroe”, passare al “suo” nome e… diventare un oggetto. Sì, avete capito bene, una “proprietà indivisa”!

Per le donne di allora, l’orizzonte era il focolare domestico, la subordinazione e, magari, un bel marmocchio “somigliante al padre”. Tipo una versione ante-litteram delle “desperate housewives”, ma senza i benefit della lavastoviglie.

E poi, BAM! Arriva il 2 giugno 1946. 

Un giorno storico. Finalmente, le donne italiane vengono chiamate alle urne (in netto ritardo per l’Europa e ci ha staccati sui finali anche la Russia).

Niente più balli principeschi con scarpette di cristallo per accalappiare un marito col cavallo bianco. Stavolta, la posta in gioco era molto più alta: scegliere tra Monarchia e Repubblica! 

In quella occasione, le donne italiane si sono presentate al seggio non per trovare il principe azzurro, ma per dare il loro contributo. La Monarchia perde (addio sogni di principesse per tutti!) e un passo da gigante viene compiuto per la condizione femminile. 

Ma ancora c’era da galoppare!

Perché, nel dopoguerra, la vita delle donne era comunque una giungla. 

Pensate: erano ancora “subordinate al marito nel regime matrimoniale”, l’indipendenza economica era un miraggio lontano, e il divorzio? Ah, quello non esisteva proprio, nemmeno se il maritino si trasformava in un orco. E qui arriva il bello (sono ironica, l’avevate capito?): erano ancora in piedi gli “istituti giuridici del delitto d’onore e del matrimonio riparatore in caso di violenza sessuale”. Sì, avete letto benissimo.

Altro che favole! Se una donna osava tradire il marito, rischiava la pelle. E se veniva stuprata? Beh, la “soluzione migliore” era che lo stupratore accettasse di sposarla. Tipo “La bella e la bestia”, ma con un finale molto meno romantico e decisamente più inquietante.

Ma la storia, per fortuna, non è finita qui. Sono arrivati due “salvacondotti”: nel 1974 il referendum sul divorzio (finalmente libere di dire “addio”!) e nel 1981 la legalizzazione dell’aborto, che ha dato alle donne la libertà di decidere del proprio corpo. 

Capite ora perché andare a votare ai referendum è così importante? Non è per scegliere un partito o esprimere una preferenza. È per dire la nostra, per decidere cosa è giusto o sbagliato per noi e per la società in cui vogliamo vivere. 

Ogni singolo voto è una piccola battaglia vinta contro le vecchie “proprietà indivise” e le “scarpe di cristallo” della subordinazione!

E ora, passiamo al nuovo appuntamento con le urne: domenica 8 e lunedì 9 giugno! Due temi caldi: il lavoro (per rimettere a posto il pasticcio del Jobs Act) e la cittadinanza. 

Per farvela facile, ve le racconto come ho fatto con mia figlia, che ha quasi 5 anni.

  • SCHEDA VERDE (Il giocattolo ingusto): immaginate che vi tolgano il vostro giocattolo preferito e vi offrano delle caramelle. Ma voi rivolete il giocattolo! Se votate SI, potete riavere il vostro giocattolo. Se votate NO, vi beccate solo le caramelle. Chiaro, no?
  • SCHEDA ARANCIONE (Le caramelle illimitate): la legge vi dice quante caramelle potete avere se vi tolgono il giocattolo. Ma vi sembra giusto? E se il giocattolo era il vostro “super preferito”? Se vince il SI, non c’è limite alle caramelle che potete ottenere! Una cascata di dolcetti!
  • SCHEDA GRIGIA (Il motivo del gioco nuovo): vi danno un gioco nuovo, ma potete tenerlo solo per poco. Volete sapere il perché? Se la risposta è SI, allora votate SI. Se ve ne frega zero del motivo, votate NO. Facile come bere un bicchier d’acqua!
  • SCHEDA ROSSA (Il giocattolo malandrino): se prestate un giocattolo a un amico e lui si fa male perché se lo tira in testa, è giusto che sia anche colpa vostra? Se vi sembra di no, votate SÌ. Se invece vi sentite responsabili per tutti, votate NO.
  • SCHEDA GIALLA (L’isola che non c’è per tutti): questa è un po’ più complessa, ma ci arriviamo. 

Immaginate di voler andare a vivere nell’Isola che non c’è con Peter Pan e tutta la banda. Ci andate, ma prima di poter dire “ci abito!”, devono passare 10 anni. Vi sembra troppo? Col SI, i bimbi sperduti diventeranno cittadini italiani in 5 anni anziché 10. Meno attesa, più avventura!

Allora, capite l’importanza di fare un salto alle urne? Non lasciamo che altri decidano per noi il futuro delle nostre “scarpette di cristallo” o dei nostri “giocattoli preferiti”! 

Andiamo a votare!

Loredana Cefalo*


* Mi chiamo Loredana Cefalo, classe 1975, vivo a Cagliari, ma sono Irpina di origine e per metà ho il sangue della Costiera Amalfitana. Adoro le colline, il profumo della pioggia, l’odore di castagne e camino, che mi porto dentro come parte del mio DNA.

Ho una grande curiosità per la tecnologia, infatti da cinque anni tengo una rubrica di chiacchiere a tema vario su Instagram, in cui intervisto persone che hanno voglia di raccontare la loro storia. 

Sono stata una professionista della comunicazione, dell’organizzazione di eventi e della produzione televisiva, settori in  cui ho un solido background. Mi sono laureata in Giurisprudenza e ho un Master in Pubbliche Relazioni.

Ho accumulato una lunga esperienza lavorando per aziende come Radio Capital, FOX International Channels, ANSA e Gruppo IP, ricoprendo ruoli significativi nel settore della comunicazione e dei media, fino a quando non ho scelto di fare la madre a tempo pieno dei miei tre figli Edoardo, Elisabetta e Margaret.

In un passato recente ho anche giocato a fare la  foodblogger e content creator, con un blog personale dedicato alla cucina, una delle mie grandi passioni, insieme all’arte pittorica e la musica rock.

L’amore per la scrittura, nato in adolescenza, mi ha portata a scrivere il mio primo romanzo, “Il mio spicchio di cielo” pubblicato il 16 gennaio 2025 da Bookabook Editore e distribuito da Messaggerie Libri. Il romanzo è frutto di un momento di trasformazione e di crescita. La storia è presa da una esperienza reale vissuta indirettamente e ricollocata nel passato per fini narrativi e per gusto personale. Ho abitato in molti luoghi e visitato con passione l’Europa e le ambientazioni del romanzo sono frutto dell’amore che provo nei confronti delle città in cui è collocato.