Ian McEwan: “Quello che possiamo sapere” (Einaudi, 2025, trad. Susanna Basso), di Edoardo Pisani

McEwan nel tempo – su Quello che possiamo sapere 

Ian McEwan è uno dei pochi grandi scrittori contemporanei ancora capaci di annoiare con diletto. Il nostro è un tempo di scrittori-intrattenitori, perché il mercato editoriale si assuefà sempre più ai gusti di un pubblico ipnotizzato dalle serie televisive e dai ritmi roboanti dei social network. Chi stenta a farsi leggere, chi vende poco, sembra non esistere, e bene o male anche i grandi scrittori devono esistere per essere considerati tali. Se la noia – o per meglio dire un certo “essere fatti di niente” – era la componente di molti grandi romanzi novecenteschi, nel nostro secolo i libri più letti e forse anche più riusciti hanno invece delle trame incalzanti. McEwan, abile costruttore di strutture romanzesche, non sempre fa eccezione, e tuttavia nelle sue opere più mature è anche capace di rallentare i tempi narrativi, procrastinando le storie che racconta e portando così la “noia” a uno stremo stilistico che impone i propri ritmi anche all’affaticato lettore contemporaneo. Questo è uno dei suoi pregi che amo di più.

Un altro pregio di Ian McEwan è l’intelligenza. Leggendo Quello che possiamo sapere, il suo ultimo romanzo, tradotto da Susanna Basso per Einaudi, ho pensato più volte a una pagina del suo romanzo precedente, Lezioni (Einaudi, 2023, sempre con la traduzione di Susanna Basso), nella quale il protagonista dice cosa pensa degli scrittori degli anni Settanta, ossia la generazione anteriore a quella di McEwan, che avrebbe dovuto formarlo. 

McEwan scrive: “Nessuno, uomo o donna che fosse, si prendeva la briga nei suoi scritti, o così la pensava Roland allora, di farsi qualche domanda sul mistero dell’esistenza o sulla paura di quel che l’avrebbe seguito. Si tenevano occupati con la superficialità mondana, attraverso graffianti descrizioni del sistema di classe. Nei loro racconti di immane leggerezza, il massimo della tragedia era una storia d’amore burrascosa, o un divorzio. Pochissimi parevano anche solo minimamente interessati a temi come povertà, armi nucleari, l’Olocausto o il futuro del genere umano o perfino al progressivo ridursi della bellezza del paesaggio sotto l’assalto delle tecniche agricole moderne.” 

Le ultime opere di McEwan rispondono ai temi che più stanno a cuore al protagonista di Lezioni e – suppongo – allo stesso McEwan. Quello che possiamo sapere infatti può essere definito un romanzo “ambientalista”, oltre che distopico. È il 2119 e Thomas Metcalfe si mette alla ricerca di un leggendario poemetto del grande poeta Francis Blundy, Corona per Vivien. È un testo su cui hanno fantasticato in molti e che però è stato letto da pochi. È stato scritto nel 2014 per la moglie di Blundy, Vivien, e da allora se ne sono perse le tracce; ciononostante Thomas Metcalfe, il narratore della prima parte del romanzo, è deciso a ritrovarlo. Perciò il libro di McEwan, dopo alcuni capitoli iniziali piuttosto lenti ma anche affascinanti – per ciò che è successo al mondo e all’uomo dopo di noi, per ciò che sarà la specie umana nel e dopo il 2119 – diventa un’avvincente caccia al tesoro. Stevenson, citato più volte nel romanzo, non è lontano, come a dire che la grande letteratura avrà sempre il suo spazio nel cuore dell’uomo.

Il tesoro – il poemetto – sarà trovato? Il lettore otterrà ciò che tanto brama di avere? La seconda parte del romanzo è una sorpresa e si svolge ai tempi nostri. Non voglio rivelarla. Ma davvero McEwan affronta i grandi temi contemporanei: la crisi ambientale, le malattie neurologiche, la morte, la violenza, il rimorso, il femminismo, il sesso, l’intelligenza artificiale, la procreazione, non da ultimo il perire di un certo tipo di letteratura e di poesia. “Tra cinquecento anni potrebbe ancora esserci un dipartimento di Letteratura in qualche punto del pianeta” scrive Thomas Metcalfe, nel 2119. “E tra cinquemila? Tra cinque milioni?” Di sicuro è avvincente interrogarsi su cosa significherà fare o studiare letteratura fra un secolo o due, o anche prima. L’uomo scriverà ancora? E qualcuno leggerà ciò che forse scriveremo? Ci sarà posto per l’arte? E per i sentimenti? 

Dopo i primi racconti e romanzi il giovane Ian McEwan era stato definito – forse troppo sensazionalmente – “Ian McAbre”, per via delle sue narrazioni spesso macabre. A partire da Bambini nel tempo (Einaudi, 1988) si è però liberato di quel nomignolo limitativo, aprendosi a narrazioni più complesse e per l’appunto ai grandi temi che tanto gli stanno a cuore. McEwan si ripete di rado, nondimeno ogni sua opera non potrebbe essere scritta da altri che da lui, e Quello che possiamo sapere ce lo conferma. È uno scrittore unico e grande e anche per questo a ogni suo nuovo romanzo abbiamo l’impressione che ci ricordi non solo cosa significhi saper scrivere ma anche cosa significhi saper leggere. Oggi e nel futuro che ci fugge davanti, nel mondo prossimo venturo che ci attende e finché la parola e l’uomo significheranno qualcosa, è bene avere fede nella letteratura, nei libri che amiamo e che ci hanno reso – che ci renderanno – ciò che siamo o ciò che vogliamo ma che forse ancora non sappiamo essere. 

Edoardo Pisani*

*Edoardo Pisani è nato a Gorizia nel 1988. Ha pubblicato i romanzi E ogni anima su questa terra (Finalista premio Berto, finalista premio Flaiano under 35) e Al mondo prossimo venturo, entrambi con Castelvecchi. Sempre con Castelvecchi ha pubblicato un libro su Rimbaud, E libera sia la tua sventuraArthur Rimbaud! Nel 2026 Marsilio pubblicherà il suo terzo romanzo.

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