All’interno della raccolta dei tre racconti del libro Sortilegi (Bompiani 2021) con cui Bianca Piztorno ha vinto il Premio Chiara nel 2022, c’è un racconto lungo intitolato La strega, che mi ha suscitato una tale fascinazione da spingermi a leggerlo più volte. Si tratta della storia immaginaria di Caterina Farcigli, una giovane e innocente creatura vissuta in Toscana nel Seicento, figlia di contadini proprietari di un podere isolato in fondo a una valle a una certa distanza dal paese di Albieri denominato Ca’ del noce, la quale nel 1631, quando è ancora molto piccola perde i genitori e i fratelli durante la peste ‘manzoniana’.

Nella sua visione infantile, vedendo scomparire tutti i membri della sua famiglia (portati via dai monatti toscani del Granduca quando lei non è presente), Caterina crede che i suoi e tutto il resto del mondo siano spariti per sempre e che lei sia l’ultimo essere umano rimasto sulla faccia della terra.
Questa narrazione, nella migliore tradizione della Piztorno, ci restituisce un senso incantato di tempo e di spazio ed ha un sapore in parte fiabesco. C’è un incantesimo potente, quello del silenzio e del suo rapporto con la mente di Caterina, che cresce in una cascina immersa nella natura in totale solitudine e che diventa una giovane donna in compagnia di qualche animale domestico e di un merlo indiano, il quale le parla con la voce del padre, l’unica cosa che le resta dei suoni e dei rumori familiari di ‘quel mondo di prima’.
‘’Le pareva di vivere prigioniera di un incantesimo, un sortilegio, come quelli che aveva sentito narrare a veglia, quando tutti d’inverno si radunavano nella stalla e i vecchi raccontavano’’
Caterina cresce da sola, bellissima, innocente e selvatica, nutrita dalla terra e protetta dai suoi animali domestici e l’autrice riesce a darci il senso di una creatura incontaminata, che ha avuto il destino di essere al di fuori di qualsiasi contesto umano.
‘’Molte altre cose si chiedeva, ma non aveva risposta. Viveva, preoccupandosi solo dell’indomani, come i gigli nel campo, come gli uccelli nel cielo. Se adesso che ormai era alta come suo padre, e che da qualche stagione le era venuto ogni mese il sangue, la Santa Vergine non l’aveva chiamata, c’era sicuramente una ragione, pensava. S’era rimasta solo lei viva sulla terra, ciò significava che il Signore Iddio esercitava sul suo capo una speciale protezione e che mai, mai – se continuava a stare attenta e a scansare i pericoli del fuoco e dell’acqua – le sarebbe potuto accadere alcun male.’’
Tuttavia a differenza della fiaba, o meglio delle edulcorate fiabe moderne, questo racconto ha in sé un seguito e un significato assai amaro: la bellissima fanciulla bionda, una volta scoperta dai compaesani molti anni dopo, mentre si bagna nel fiume del Rio Freddo, sarà denominata la strega di Vallebuja e verrà ritenuta responsabile di un periodo molto difficile, caratterizzato da carestie e lutti, per cui nella narrazione viene rappresentato quel meccanismo terribile in cui una comunità sceglie qualcuno come responsabile e capro espiatorio delle proprie disgrazie. Non è un caso che si tratti di una giovane donna bellissima, oltre che di una creatura selvatica, cioè di un personaggio che non può adeguarsi alle regole della comunità e del suo tempo.

Al personaggio di Caterina l’autrice ne contrappone un altro di genere maschile, Lorenzo Salvadoreschi, a cui dedica alcuni capitoli relativi alla sua vicenda di vita e al suo destino. Questo personaggio rappresenta, come dice la stessa Piztorno: <<una controparte maschile, non sopraffattrice ma compassionevole, per aver vissuto da bambino una simile esperienza di dolore e di abbandono…Volevo raccontare di un’infanzia deprivata e indifesa come quella di Caterina anche se non vissuta in solitudine>>. Lorenzo, -scrivano del signor Lomi (uomo di cultura che insieme a pochi altri non crederà mai alla stregoneria di Caterina)- si ricorda di aver conosciuto Caterina da bambino, essendo stato pressappoco suo coetaneo, e sarà affascinato dalla sua bellezza da adulto, ma a differenza di molti altri proverà per lei solo una grande compassione: la visiterà nella prigione in cui si trova rinchiusa durante il processo per stregoneria, le lascerà il suo mantello per coprirla e ordinerà per lei del vino caldo e della minestra.
Un elemento che mi ha colpito particolarmente nella lettura di questa splendida e amara novella è la scelta e la capacità di variare il linguaggio ad opera della Piztorno. Nei capitoli in cui si racconta di Lorenzo Salvadoreschi sin da bambino, del suo rapporto da giovane con un maestro eremita che gli insegna a leggere e scrivere, e poi nei successivi in cui si muovono e agiscono i vari personaggi del paese di Albieri, c’è la scelta di una lingua che può definirsi secentesca nell’uso di alcuni termini, invece nei capitoli dedicati interamente a Caterina, a quell’incantesimo di essere rimasta all’improvviso sola al mondo e di crescere nel silenzio, l’autrice utilizza una lingua diversa, totalmente moderna, e specifica il motivo di questa scelta: << Caterina in solitudine non parlava la lingua del suo tempo… non aveva interlocutori umani, solo il ricordo di qualche canzone popolare, e le frasi ripetute e inconsapevoli di un povero merlo indiano…Pensai che dovevo prestarle la mia di lingua, quella di oggi, una lingua che conosce gli studi di psicologia infantile, sulle fantasie dei bambini, sulle nevrosi da isolamento. Una lingua che sa di Freud e di Piaget, e degli studi antropologici sull’origine delle fiabe popolari’’.
L’autrice regala a Caterina una personalità di grande fermezza, che non la farà piegare, nella forza invincibile della sua innocenza, a nessuna forma di tortura e vessazione: la ragazza durante il processo ammetterà solo il vero e con grande ostinazione dirà di essere ciò che è, solamente sé stessa.
Inoltre Bianca Pitztorno scrive nelle note di essere rimasta affascinata, durante le ricerche e gli studi che le sono stati essenziali durante la stesura di questa narrazione, dalla scoperta e la lettura delle Lettere al padre, della figlia Virginia, primogenita di Galileo Galilei, riscoperte negli anni Ottanta e pubblicate inizialmente dall’editore La Rosa di Torino, sia per la rivelazione della personalità di Virginia Galilei, sia perché la stessa racconta molti dettagli della vita del suo tempo in un italiano ‘antico, musicale, straordinariamente espressivo’. Non a caso la vicenda di Caterina, ci fa notare l’autrice alla fine della storia, è contemporanea al momento in cui avviene il processo storico di Galileo Galilei, il quale com’è noto si è concluso con l’abiura, e anche la fine, assai diversa, della giovane donna viene a coincidere con l’anno della morte del grande scienziato. Con il breve riferimento finale a Galilei nel racconto si vuole richiamare il contraltare della ragione e della razionalità, in totale contrasto con le tremende superstizioni e credenze popolari in grado di creare delle streghe e di condannarle.
Cristiana Buccarelli

Cristiana Buccarelli è una scrittrice di Vibo Valentia e vive a Napoli. È dottore di ricerca in Storia del diritto romano. Ha vinto nel 2012 la XXXVIII edizione del Premio internazionale di Poesia e letteratura ‘Nuove lettere’ presso l’Istituto italiano di cultura di Napoli. Ha pubblicato la raccolta di racconti Gli spazi invisibili (La Quercia editore) nel 2015, il romanzo Il punto Zenit (La Quercia editore) nel 2017 ed Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) nel 2019. Con Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) ha vinto per la narrativa edita la V edizione del Premio Melissa Cultura 2020 e la IV edizione Premio Internazionale Castrovillari Città Cultura 2020. Nel 2021 ha pubblicato il suo primo romanzo storico I falò nel bosco (IOD Edizioni), col quale ha vinto per la narrativa edita la XVI edizione del Concorso letterario Internazionale Città di Cosenza 2024. Nel 2023 ha pubblicato il romanzo Un tempo di mezzo secolo (IOD Edizioni), finalista per la narrativa all’XI edizione del Premio L’IGUANA- Anna Maria Ortese 2024. Nel 2025 ha pubblicato Taccuini di viaggio (Cervino Edizioni 2025). Collabora con la rivista letteraria Il Randagio.

