In copertina l’immagine di una giovane donna (da una foto di Charles H. Traub, Naples, 1985) suggerisce quel fuoco di cui il titolo precisa, perfetta sintesi della storia, “che ti porti dentro”.
La ragazza non è una signora, appare scanzonata, stringe fra due dita affusolate, l’indice e il medio della mano destra, un mozzicone di sigaretta che regge fra le labbra, consumato quasi fino al filtro, mentre gli occhi scuri leggermente socchiusi ammiccano di sfida, il viso è angoloso ma i tratti sono regolari. Piccoli cerchi si intravedono alle orecchie, i capelli sono bruni, il pullover è rosso, un paio di occhiali da sole sono infilati nello scollo, non sono appariscenti, le unghie sono laccate di rosso ma tagliate corte. La sua età non arriva ai trenta, non trapela l’adolescenza o l’infanzia, non si prevede una vecchiaia.

Come tutte le immagini, informa su luci e colori tralasciando sensazioni tattili e olfattive, anche per questo, nel primo paragrafo del primo capitolo la frase “mia madre puzza” colpisce il lettore come un affronto, invitandolo a continuare a suo rischio e pericolo. Può darsi che alcuni abbiano chiuso o siano andati poco più avanti per riprendere la lettura in un altro momento, o non riprenderla affatto, una reazione comprensibile considerando quanto la madre, il suo odore, il calore e la morbidezza del suo corpo siano alla radice della vita di ogni essere umano. Poco conta la proposizione concessiva che precede: “Benché da molti sia considerata una bella donna”.
La prima pagina continua impietosa, senza parafrasi e senza allusioni, con il preciso intento di provocare da subito repulsione e disprezzo. Mettendo subito le cose in chiaro, l’autore avvisa che “nessuno di noi si sente in imbarazzo, nessuno prova vergogna”, il corpo umano puzza, come testimoniano le filastrocche imparate dalla nonna che parlano di puzze e puzzette, i bambini di solito ridono, si divertono: al mondo puzzano tutti, i bambini più degli altri.
Allora qual è il problema? Arriva il momento della fuga. Lontano dalla madre, lontano dal Sud, lontano dalle contraddizioni. Perché i figli possono odiare? Di solito lo fanno quando sono o si sentono respinti, quando non si riconoscono in chi li ha messi al mondo, quando non sono incoraggiati. In questo libro di memorie non solo la madre è protagonista, entrano in gioco la storia e la terra.
La storia è quella che dagli anni Sessanta arriva ai giorni nostri, la terra è un meridione contraddittorio e diviso fra città e provincia, non troppo diverso, se si riflette, dalla dicotomia città-campagna presente anche al Nord, come in alcuni romanzi di Pavese. A questo segue la naturale contrapposizione Nord Sud.
Nel napoletano, in realtà, le differenze esistono molteplici nelle diverse classi sociali, sono frammiste a pregiudizi ostinati, si sviluppano in stratificazioni complicate e antiche, si scontrano e si affrontano in una lotta senza fine. Non è la cultura che manca. Tutti, più o meno, ne posseggono una parte cospicua, fatta di sovrapposizioni di epoche e influenze diverse, il risultato di un irrimediabile cinismo sviluppato forse nei secoli.

Angela, la madre mai chiamata mamma, ma sempre con il suo nome di battesimo, che, fra l’altro e chissà perché, non le piace, viene in città dalle montagne del Sannio, da un paesino del beneventano, Cautano, è di umili origini, quando si trasferisce in città, a Napoli, è solo una bambina, il padre muore quasi subito, con la madre e una sorella affronta le difficoltà e la miseria del dopoguerra.
Aiutate da alcuni parenti di condizioni sociali più elevate, le donne riescono a superare le iniziali difficoltà, una sorella si ammala e muore, l’altra, Angela, conquista il cuore di un quarantenne della buona borghesia, scapolo, deciso, dopo alcune storie d’amore, a crearsi una famiglia con una donna di vent’anni più giovane, estranea al suo ambiente. Si tratta forse di una scelta di comodo, ma c’è un prezzo da pagare ed è quello dell’impossibilità di intesa fra educazione e gusti diversi, pagheranno i figli questa incongruenza di base.
A questo punto è Napoli la protagonista, o, meglio, il teatro di un intreccio che rappresenta gran parte del tessuto sociale così spesso descritto e analizzato da scrittori e commediografi, fino a creare stereotipi, categorie false o travisate, spesso lontane dalla realtà perché non si tratta di un’unica realtà. Il cliché è nel teatro di Eduardo ma esistono altre dimensioni. Viene in mente una versione di Napoli, quella descritta nei romanzi della Ferrante, dove “Un’amica geniale” scavalca con intelligenza le distanze sociali, sicuramente meno vera, meno interessante e priva di drammaticità, molto diversa dalla protagonista di questo romanzo, una storia, in ogni caso, spostata più avanti di qualche decennio, dove si sente, nonostante tutto, l’odore di cucina e i pettegolezzi delle portinerie.
Le canzoni romantiche ottocentesche, le gouaches del Settecento restano nei salotti, la generazione alto borghese che ha vissuto guerra e dopoguerra frequenta i circoli dove si va in barca a vela e si gioca a carte, non si può fare a meno di pensare a “Ferito a morte” di Raffaele La Capria, è questo l’ambiente al quale appartiene il marito di Angela.

Lei, invece, è consapevole di una difformità di fondo, aggravata dal fatto di venire dalla provincia, ma non lo riconoscerà mai, tutto si tramuta in odio, nel disprezzo che non dipende dalla consapevolezza di un’ingiustizia, più auto inflitta che voluta da altri, è, piuttosto, un senso di superiorità, il suo, con il quale combatte tutto e tutti sentendosi scaltra, più dotata di chiunque, in diritto di criticare, infierire, giudicare.
Almeno è così che il figlio la percepisce. Angela ha frequentato il liceo classico e la Facoltà di Lettere ma parla esclusivamente in dialetto, un napoletano ricco di sfumature diverse tratte dal Sannio, origini di cui è orgogliosa perché i Sanniti sconfissero e umiliarono i Romani alle Forche caudine. Quasi tutti nel romanzo parlano in napoletano, in stridente contrasto con la prosa elegante del narratore, c’è differenza fra il napoletano parlato dalle persone colte e quello aspro di Angela, arricchito di continue invettive fra le più truci e volgari.
C’è da immaginare le difficoltà e le sofferenze dei figli, costretti a vivere nel contrasto fra la vita esterna e quella fra le pareti domestiche, dove il padre si muove come un fantasma, in un alone discreto di profumo, in abiti ricercati o in pigiama e veste da camera.
Non è in questo il vizio capitale della donna. Il suo peccato è una cattiveria di fondo che le fa negare qualunque valore umano, è lo scherno, l’aggressività con la quale si scaglia contro il mondo intero. E’ davvero così? E’ questo il fuoco che la brucia dall’interno? Perché?
E’ un vizio personale o la prerogativa di una napoletanità esattamente opposta all’immagine comune di “gente col cuore in mano”? Una questione di quartiere? Perfino la gente umile a Posillipo o a Chiaia è diversa da quella del Vasto o della Ferrovia. Eppure Angela costringe il marito ad abbandonare l’antica via Bausan per una casa rumorosa nel caotico centro a ridosso della Stazione dei treni, la “ferrovia”.
Anche questo fa parte di una particolare concezione borghese: il marito accontenta la moglie nelle sue richieste e in cambio ha la libertà di vivere fuori casa, nel suo studio di commercialista o nei circoli che lei non frequenta. Non ha nessuna importanza che la donna abbia modi da megera e abbia portato in casa una madre che è peggiore di lei, le donne contano molto poco, l’importante è vivere la propria vita, fuori della famiglia e nonostante la famiglia.
Un padre da odiare? No. La colpa è della madre, mai solidale, neanche con le altre donne, soprattutto con le altre donne. La sua colpa è la protervia.
Difficile dire se questa condizione, aggravata da un orgoglio smisurato, sia stata la conseguenza di un difficile dopoguerra, se abbia colpito solo una città come Napoli, o se sia una dimensione umana che si raggiunge quando imitare modelli considerati superiori appare un’impresa impossibile che genera solo odio, se questo accada ad alcune persone in particolare o si tratti di un problema più specificamente sociale.
In alcuni luoghi comuni di Angela si vedono chiaramente le grettezze di ambienti molto ristretti, l’angustia dei paesi piccoli, dove l’artigiano è di più del contadino, dove le donne stanno appostate dietro le finestre per spiare le malefatte altrui, quelle stesse che una volta in città pensano di poter diventare furbe e accalappiare mariti o amanti che le mantengano, quelle che non hanno riguardo per la virtù e oltraggiano chiunque, virtuoso o vizioso che sia. E’ questo il cattivo odore.
E’ davvero così? Si tratta esclusivamente di questo?
Questo romanzo non parla di questo. Non si tratta di questo. Il lettore si accorgerà di essersi sbagliato. Allora non potrà fare a meno di sentirsi scosso. E commosso.
Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.

