“Filosofia in uniforme?”, di Vincenzo Franciosi

La polemica esplosa intorno alla richiesta del Ministero della Difesa di attivare un corso universitario di filosofia riservato ai militari presso l’Università di Bologna non è un incidente marginale né un conflitto locale. È il sintomo di qualcosa di ben più profondo: una tensione crescente tra l’autonomia dell’università e la volontà di alcuni apparati dello Stato di appropriarsi delle scienze umane per plasmarle a fini di legittimazione.

Che un’università pubblica abbia rifiutato di organizzare un corso chiuso, cucito su misura per un corpo armato, rientra perfettamente nella sua funzione istituzionale: difendere la propria libertà didattica e la natura pubblica del sapere. Invece il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha reagito con un attacco violento e sproporzionato, accusando l’ateneo di ideologismo, mancanza di senso dello Stato, persino di irresponsabilità. Una “sparata”, non trovo parola più adatta, che rivela un’idea distorta e pericolosa del rapporto tra potere esecutivo e autonomia accademica.

Per capire perché questo episodio sia così inquietante, occorre riflettere sul nodo centrale: la filosofia e l’apparato militare non sono due universi che possono convivere armonicamente. La filosofia non è un modulo di formazione professionale, né un camice morale che si indossa per nobilitare un mestiere. È un sapere critico, che interroga le strutture del potere, smaschera la retorica della violenza legittima e mette costantemente in discussione l’obbedienza, la sovranità, le narrazioni ufficiali. È un luogo di esposizione al dubbio, alla contraddizione, alla libertà interiore.

Le forze armate sono, per struttura, l’esatto contrario: un dispositivo che richiede disciplina, gerarchia, compattezza, sospensione del giudizio individuale. Il loro fine istituzionale è l’esercizio della violenza legittima dello Stato. In nessun momento della vita militare, né nella formazione né nell’azione, c’è spazio per la dialettica del pensiero come forma di liberazione. L’obbedienza è un valore, non un problema; la gerarchia è un principio, non un oggetto di discussione. L’ordine non si discute: si esegue.

È evidente che un sapere come la filosofia, se preso sul serio, è incompatibile con la logica dell’apparato armato. O si neutralizza il pensiero critico, o si mette in crisi l’istituzione militare. I corsi ad hoc servono proprio alla prima operazione.

Molte delle giustificazioni circolate in questi mesi parlano di “umanizzare” i militari, di renderli più consapevoli, più attenti ai diritti, più sensibili ai valori democratici. Ma questa retorica, apparentemente nobile, è profondamente ingannevole. La filosofia non nasce per umanizzare la violenza: nasce per smascherarla. Usarla come strumento di legittimazione morale di un apparato fondato sull’obbedienza e sulla forza significa rovesciarne la funzione. Un apparato armato non diventa più umano perché alcuni suoi membri ascoltano lezioni di filosofia, ma rimane ciò che è: un dispositivo che necessita, per funzionare, di ridurre il nemico a figura astratta, di sospendere la piena riconoscibilità dell’altro come persona, di trasformare l’obbedienza in virtù. Le scienze umane non mutano questa natura. Al massimo, la velano sotto un linguaggio colto.

Perché allora gli alti gradi militari insistono tanto su percorsi umanistici dedicati? Le ragioni sono strutturalmente politiche. Da un lato, c’è un bisogno di legittimazione simbolica: un ufficiale che può esibire crediti o titoli ottenuti in una prestigiosa università pubblica appare immediatamente più autorevole, più colto, più “civile”. È un capitale d’immagine che fa comodo. Dall’altro, c’è la volontà di costruire una nuova élite in uniforme, capace di muoversi con disinvoltura nei contesti civili, nei media, nella diplomazia. Una élite culturalmente presentabile, ma pienamente integrata nella logica gerarchica.

E poi, forse l’aspetto più decisivo, l’apparato militare cerca cultura, ma solo in forma controllata. Il contatto reale con il pensiero filosofico è pericoloso; genera dubbi, incrina certezze, apre conflitti interiori. La filosofia autentica non addestra: disobbedisce, insegue domande radicali, mette in crisi. È un rischio troppo grande.

Per questo i vertici militari non chiedono ai loro ufficiali di frequentare i normali corsi universitari insieme agli studenti civili. Chiedono percorsi separati, filtrati, schermati. Un ambiente sotto controllo, in cui i temi più critici possono essere modulati, attenuati, elusi. Dove non ci siano discussioni imprevedibili, né studenti disposti a dire ciò che un apparato armato non vuole sentirsi dire.

Il punto è proprio questo: il vero pericolo, per le forze armate, è il confronto con gli studenti civili.
Perché in un’aula universitaria reale l’ufficiale può trovarsi faccia a faccia con chi è pacifista o antimilitarista, con chi mette in discussione l’autorità statale, con chi non accetta come naturali parole come “nemico” o “missione”, con chi rifiuta la retorica dell’obbedienza come valore assoluto, con chi proviene da zone di guerra (si pensi, ad esempio, agli studenti palestinesi che sono riusciti ad arrivare in Italia con una borsa di studio universitaria).

In quel confronto il pensiero critico non è più astratto, ma diventa vivo, conflittuale. Ed è lì che l’istituzione militare vacilla. La filosofia non è più un ornamento: torna a essere pericolosa. La filosofia genera domande a cui la logica dell’uniforme non può rispondere senza incrinarsi: perché obbedire? che cos’è un dovere? che cosa legittima la violenza? cosa significa uccidere in nome dello Stato? I corsi ad hoc nascono precisamente per evitare tutto questo: non proteggono l’università dai militari, ma proteggono i militari dall’università.

Il comportamento degli atenei che hanno accettato di discuterne è stato spesso giustificato con formule generiche: Terza Missione, innovazione formativa, dialogo con il territorio, allineamento agli standard internazionali, formazione continua della Pubblica Amministrazione. Ma sono argomenti fragili. La Terza Missione riguarda la società civile, non i corpi armati. L’innovazione non consiste nel costruire percorsi chiusi per una categoria privilegiata. L’internazionalizzazione non giustifica la sospensione dei principi fondamentali dell’università. E la formazione dei dipendenti pubblici non può essere un alibi per trasformare la filosofia in un’appendice dell’apparato militare.

In questo contesto, la reazione di Crosetto all’Università di Bologna è stata particolarmente grave. Non perché un ministro non possa esprimere un’opinione, ma perché ha attaccato l’ateneo come se esso dovesse obbedienza alle forze armate. Ha insinuato che il rifiuto del corso fosse un tradimento dello Stato, una mancanza di senso civico. È l’affermazione implicita, ma chiarissima, che l’università debba servire l’apparato militare, non interrogarlo; che la cultura debba collaborare con la forza, non criticarla, che la filosofia debba legittimare, non disturbare. Un ministro della Difesa che rimprovera un’università pubblica perché non vuole piegare la propria offerta formativa a una richiesta delle forze armate compie un gesto che, in una democrazia matura, dovrebbe essere riconosciuto come profondamente inaccettabile. È un segnale sinistro, anzi, “destro”, soprattutto perché attacca proprio ciò che distingue una democrazia da uno Stato autoritario: il primato del sapere critico sul potere esecutivo, la libertà dell’università, la separazione tra cultura e apparato armato. Il nodo non riguarda solo un corso di filosofia, ma riguarda la domanda fondamentale: che cosa deve essere l’università? Un luogo di pensiero libero, aperto, conflittuale, dove civili e militari, se lo desiderano, studiano insieme da pari? Oppure un fornitore di servizi culturali da cui il potere può comprare legittimazione morale? La risposta, se vogliamo difendere la democrazia, dovrebbe essere evidente. L’università non può e non deve proteggere i militari dalla filosofia. E la filosofia non deve e non può essere messa in uniforme.

Vincenzo Franciosi

Vincenzo Franciosi è professore associato di Archeologia Classica. Ha scavato in vari siti dell’Italia meridionale quali Fratte (SA), Buccino (SA), Montescaglioso (MT), Pompei (NA). Ha pubblicato studi sulle importazioni ceramiche corinzie di età geometrica nell’isola d’Ischia e sulle loro imitazioni locali; sulla ceramica figurata attica del V sec. a.C.; sull’urbanistica pompeiana e sugli scavi dell’insula VII, 14 a Pompei; sul culto della Mefite in Valle d’Ansanto; sulla statuaria arcaica in marmo dall’Acropoli di Atene; sulla statuaria in bronzo dalla Villa dei Papiri ad Ercolano; sulla statuaria policletea. È stato insignito, per l’insieme degli studi e delle indagini condotti nel campo dell’Archeologia Classica, del Premio Anassilaos 2020-21 (XXXII-XXXIII) “Arte, Cultura, Economia, Scienze” – Premio Μνήμη per l’Archeologia, Reggio Calabria, 13 Novembre 2021.

L’università sotto tutela: dal controllo tecnocratico al dominio governativo, di Vincenzo Franciosi

L’università italiana si trova oggi di fronte a una trasformazione che mette in questione la sua stessa ragione d’essere come istituzione libera e critica, in una parola democratica. Il progetto di riforma dell’assetto di governo universitario (mi rifiuto di utilizzare l’osceno termine governance), discusso in questi mesi e anticipato il 16 ottobre 2025 dal quotidiano il manifesto con un articolo di Luciana Cimino dal titolo eloquente Le mani del governo sugli atenei, rappresenta un salto di qualità nel lungo processo di subordinazione dell’università al potere politico. L’inserimento di membri nominati dal Ministero nei Consigli di amministrazione, la possibilità per il Governo di imporre “linee generali” vincolanti alle politiche degli atenei, la prolungata e condizionata permanenza in carica dei rettori e il pieno controllo ministeriale sull’ANVUR costituiscono tasselli di un disegno coerente: riportare l’università nell’alveo dell’obbedienza governativa. 

Questa svolta non nasce dal nulla, ma è l’esito logico di una deriva avviata ormai da vent’anni, quando, sotto la retorica della “valutazione” e della “meritocrazia”, venne istituita l’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca). Creata nel 2006 ed entrata in funzione nel 2010, l’agenzia si è presentata come un organo “indipendente”, ma in realtà strutturalmente subordinato al Ministero, che ne nomina i vertici e ne definisce gli indirizzi. Con i suoi algoritmi e le sue classifiche, ha imposto una visione economicista e produttivista della ricerca, fondata su indici bibliometrici, impact factor e su un’idea di “qualità” ridotta a quantità di pubblicazioni. È così che la valutazione, anziché incentivare il merito, ha introdotto una burocrazia del consenso, omologando i linguaggi scientifici, punendo la lentezza del pensiero e disincentivando ogni forma di sperimentazione critica. L’università è stata progressivamente svuotata della sua autonomia interna e culturale, mentre i docenti, anziché liberi studiosi, sono stati spinti a diventare funzionari della produzione accademica, intenti a compilare schede e a inseguire punteggi.

Il sistema ANVUR ha dunque rappresentato il primo passo verso la neutralizzazione del sapere: un controllo tecnocratico mascherato da modernizzazione.

La storia dell’ANVUR, dall’origine nel 2005 fino a oggi, è un esempio della capacità del potere politico italiano di mantenere una linea di continuità perfetta dietro l’alternanza apparente dei governi di centro-destra, centro-sinistra e dell’attuale di estrema destra. Su questo terreno è esistito un consenso trasversale intorno all’idea che l’università dovesse essere valutata, disciplinata e controllata secondo criteri amministrativi esterni alla comunità scientifica. Il primo passo avvenne, durante il terzo governo Berlusconi, con la legge Moratti del 2005, che delegò al governo la creazione di un’agenzia nazionale per la valutazione. Dietro il linguaggio modernizzatore e la retorica dell’efficienza si celava già una visione aziendalista: la ricerca non più come ricerca di verità, ma come prestazione misurabile. La successiva attuazione della legge, nel 2006, durante il secondo governo Prodi con Fabio Mussi al Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica, non modificò la sostanza del progetto: l’agenzia fu istituita formalmente con il Decreto legislativo 262, conservando la stessa logica di fondo, ovvero la sottrazione del giudizio scientifico alla comunità accademica per affidarlo a un organo centralizzato, tecnicamente dipendente dal Ministero. Che fosse un governo di centrosinistra non cambiò nulla, dal momento che la “valutazione” divenne un dogma condiviso, una parola intoccabile che bastava a giustificare ogni riduzione di autonomia.

Il passo decisivo si compì nel 2010, sotto il quarto governo Berlusconi e con Mariastella Gelmini al Ministero. Con il D.P.R. 76/2010 e la legge 240/2010, l’ANVUR fu finalmente resa operativa: i membri del consiglio direttivo venivano nominati dal governo, le valutazioni della ricerca (VQR) divennero condizione per i finanziamenti e la carriera dei docenti venne legata ai parametri fissati dall’agenzia. Da organo tecnico “autonomo”, l’ANVUR si trasformò in strumento di controllo ministeriale. Il linguaggio dell’efficienza nascondeva ormai una vera gerarchia amministrativa: chi non produceva secondo i criteri fissati dall’alto, semplicemente spariva dal sistema. Da allora, nessun governo ha rimesso in discussione questo assetto. I governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, tutti di area moderata o “riformista”, hanno consolidato e perfezionato la macchina burocratica, introducendo nuove procedure di valutazione e accreditamento e facendo della “qualità” un meccanismo premiale che in realtà ha accentuato le disuguaglianze tra atenei e discipline. Neppure i due governi Conte hanno alterato la logica del sistema, né il primo, “populista”, né il secondo, con Gaetano Manfredi ministro, anzi, la subordinazione ai parametri ANVUR si è fatta ancora più pervasiva. E oggi, con il governo Meloni, quel controllo si compie nel modo più diretto e ideologico. L’attuale governo di estrema destra non fa che raccogliere i frutti di un processo che centrodestra e centrosinistra hanno pienamente legittimato, trasformando una macchina di valutazione in uno strumento politico. In questa prospettiva, l’ANVUR non appare come un incidente, ma come la chiave di volta di un progetto ventennale, ovvero quello di svuotare progressivamente l’università della sua autonomia, prima con il linguaggio della modernità, poi con quello della disciplina, infine con quello della fedeltà. Ogni governo ha contribuito a un tassello della stessa costruzione: la conversione del sapere in amministrazione e la riduzione della cultura a funzione del potere esecutivo. Non c’è stato bisogno di un’imposizione autoritaria dal momento che la neutralizzazione è avvenuta in nome del merito, dell’efficienza e della responsabilità, parole che, una volta interiorizzate, hanno reso superflua ogni resistenza.

Oggi, con la riforma affidata a Ernesto Galli della Loggia, si chiude il cerchio. Non più soltanto valutare, ma governare; non più misurare la produzione universitaria, ma indirizzarne i contenuti e sceglierne i dirigenti. Galli della Loggia, custode di una visione elitaria e autoritaria della cultura, interpreta il proprio ruolo come restaurazione dell’ordine, propugnando un’università disciplinata, depoliticizzata e funzionale all’ideologia del potere. Egli è divenuto il paradigma dell’intellettuale di regime, che scambia l’autorità del sapere con la subordinazione al comando e giustifica la perdita di libertà in nome dell’efficienza e del prestigio nazionale.

L’università non sarà più una comunità di ricerca autonoma, ma un’articolazione dell’esecutivo; i rettori, dipendenti dalla benevolenza ministeriale; i consigli di amministrazione, luoghi di fedeltà e non di competenza; i docenti, sempre più precarizzati e condizionati dalla logica dei finanziamenti “premiali”. In questa prospettiva, l’università smette di essere il luogo della libertà di pensare e diventa una struttura amministrata, dove l’unico sapere ammesso è quello conforme.

Il controllo governativo dell’università è dunque un attacco alla società nel suo insieme. Svuotare di autonomia le istituzioni del sapere significa indebolire la capacità critica del Paese, ridurre lo spazio del dissenso e formare generazioni di studenti addestrati all’obbedienza più che alla riflessione. Difendere l’università dal controllo governativo non è una rivendicazione corporativa, ma un atto di resistenza civile: significa difendere la libertà di pensiero, la pluralità delle idee e la possibilità, sempre più rara, di un sapere non asservito, ma indipendente.

Non è dunque corretto leggere la trasformazione dell’università italiana come una deviazione imprevista di un progetto nato in buona fede. La valutazione, così come fu concepita nella legge Moratti e realizzata attraverso l’ANVUR, non era un semplice strumento di miglioramento, ma il dispositivo originario di un nuovo regime del sapere, fondato sull’idea che la conoscenza debba rendere conto al potere. Già l’istituzione di un’agenzia “esterna”, incaricata di misurare la qualità della ricerca e di distribuire risorse in base a parametri quantitativi, implicava la sfiducia nella comunità scientifica e l’abbandono del principio cardine dell’università moderna: l’autonomia del giudizio tra pari. Dietro la retorica della trasparenza e della meritocrazia si nascondeva una visione profondamente autoritaria, quella di un sapere che deve essere controllato, verificato, normalizzato. L’ANVUR non è stata quindi un errore tecnico o una degenerazione burocratica, ma il primo atto di un disegno politico più ampio, volto a ridurre la libertà di ricerca a funzione dell’amministrazione pubblica e l’università a branca del potere esecutivo.

L’attuale progetto di riforma non fa che rendere esplicito ciò che era implicito, ossia il passaggio dalla sorveglianza tecnocratica alla direzione politica del pensiero. Si è partiti dal mito dell’oggettività numerica per giungere al commissariamento della cultura, dal linguaggio neutro della valutazione al linguaggio esplicito dell’obbedienza. È un percorso perfettamente lineare, il cui esito era scritto fin dall’inizio: la fine dell’università come luogo autonomo di conoscenza, e la sua riduzione a strumento di legittimazione del potere di governo.

Difendere oggi la libertà accademica significa riconoscere questa genealogia e rompere con l’illusione che la valutazione sia mai stata neutra. Solo restituendo alla ricerca il suo carattere intrinsecamente critico e al sapere la sua irresponsabilità verso il potere sarà possibile riaprire uno spazio di verità dentro un sistema che, da due decenni, tende a trasformare il pensiero in amministrazione e la conoscenza in obbedienza.

Vincenzo Franciosi

Vincenzo Franciosi è professore associato di Archeologia Classica. Ha scavato in vari siti dell’Italia meridionale quali Fratte (SA), Buccino (SA), Montescaglioso (MT), Pompei (NA). Ha pubblicato studi sulle importazioni ceramiche corinzie di età geometrica nell’isola d’Ischia e sulle loro imitazioni locali; sulla ceramica figurata attica del V sec. a.C.; sull’urbanistica pompeiana e sugli scavi dell’insula VII, 14 a Pompei; sul culto della Mefite in Valle d’Ansanto; sulla statuaria arcaica in marmo dall’Acropoli di Atene; sulla statuaria in bronzo dalla Villa dei Papiri ad Ercolano; sulla statuaria policletea. È stato insignito, per l’insieme degli studi e delle indagini condotti nel campo dell’Archeologia Classica, del Premio Anassilaos 2020-21 (XXXII-XXXIII) “Arte, Cultura, Economia, Scienze” – Premio Μνήμη per l’Archeologia, Reggio Calabria, 13 Novembre 2021.

L’arabo e la “pietra nera”. Come una lingua mi ha insegnato a capire i Greci, di Vincenzo Franciosi

Venticinque anni fa seguii un breve corso di arabo. Non avrei mai immaginato che quei rudimenti mi avrebbero spalancato un mondo. Con quelle poche nozioni, cominciai a vedere l’antichità greca con occhi nuovi, a cogliere nessi che l’archeologia classica, salvo rare eccezioni, ha quasi sempre ignorato.

Mi resi conto allora di quanto fosse limitato il nostro sguardo, chiuso nel perimetro ellenocentrico che separa artificiosamente la Grecia antica dal suo vero contesto: il Mediterraneo. Sabatino Moscati aveva già tracciato la strada, ma pochi tra gli archeologi classici l’hanno seguita. Tutto ciò che nasce dall’incontro fra Greci e Fenici viene solitamente attribuito geograficamente alla Frigia o alla Tracia, ricondotto a generiche culture antico-mediterranee, a lingue misteriose genericamente pre-greche, come se l’Oriente semitico non fosse mai esistito. Forse residui inconsci del “pregiudizio ariano”.

Eppure le prove sono sotto gli occhi di tutti. Prendiamo i Cabiri (greco Kábeiroi), i Megáloi Theói (Grandi dèi) di Samotracia, di Lemno, di Imbro, di Pergamo, di Tebe in Beozia, città fondata dal fenicio Cadmo (semitico √ qdm = Oriente), colui il quale ha insegnato l’alfabeto ai Greci (Erodoto V. 58; Diodoro B.H. III. 61. 1): nelle lingue semitiche √ kbr – kabîr vuol dire “grande”. È un’evidenza etimologica disarmante. Il sacerdote confessore del culto cabirico è indicato dalle fonti greche con il termine anellenico di kóes/kóies(Esichio, s.v. κοίης, κ 3230 Latte): ma non si tratta della chiara ellenizzazione del termine kohen/kahin, che nelle lingue semitiche vuol dire semplicemente “sacerdote”?

Lo stesso vale per la dea frigia Kubaba/Kybele, venerata a Pessinunte sotto forma di pietra nera caduta dal cielo, un betilo, in greco báitilos, dal semitico bêt/bait (casa, sede) + el (divinità) = sede della divinità. Quando quella pietra fu portata a Roma durante la seconda guerra punica, divenne il fulcro di un culto potentissimo: la Madre degli dèi, la pietra che racchiude il principio vitale. La pietra nera di Pessinunte, donata al popolo romano dal re pergameno Attalo, fu incastonata nella testa della statua argentea della Madre degli dèi.

In Kybéle troviamo la radice semitica √ k‘b che rimanda al cubo (in greco kýbos, in latino cubus), alla forma primordiale della pietra sacra. La Ka‘ba della Mecca, con la sua pietra nera, non è che l’eco di un simbolismo antichissimo, comune a tutto il Mediterraneo. Nella lingua latina il termine caput, da cui in italiano “capo” e nei dialetti del Sud-Italia “capa”, conserva ancora quella radice, che troviamo anche nel greco kephále: la forma stereometrica della testa, la solidità del principio. Kybéle è la divinità della pietra, la potenza che abita la materia.

Fu con quei pochi rudimenti di arabo che, un giorno, mi trovai a leggere un’iscrizione fenicia del IX secolo a.C. e a comprenderla. Mi vennero i brividi. Le parole erano semplici: “Io sono…, figlio di…, mio padre…, re di…, servo di…, re di…”. Ma era come se la voce stessa del Levante antico parlasse attraverso i secoli, limpida, comprensibile. L’arabo mi aveva restituito la vita della lingua madre.

La mia maestra di arabo era palestinese, originaria di Nablus (l’antica Neapolis) e, per uno scherzo del destino, si era stabilita proprio a Napoli. Si chiama Souzan Fatayer. Attivissima nel sociale, mediatrice culturale, traduttrice e interprete, oggi insegna arabo all’Università Orientale di Napoli. È una figura centrale della comunità palestinese napoletana: si batte per portare studenti palestinesi a studiare in Italia e per far curare nei nostri ospedali i bambini mutilati dai bombardamenti israeliani, feriti dai cecchini mentre giocano, lasciati deperire fino a morire di fame. Molti di loro, grazie a lei, sono stati operati e salvati all’ospedale Santobono di Napoli.

Souzan è stata candidata alle ultime elezioni europee, per poco non risultando eletta, e oggi si presenta alle regionali in Campania. Qualche giorno fa, un noto “giornalista”, onnipresente in televisione e noto per la sua “avvenenza”, l’ha attaccata con toni spregevoli, che non meritano neppure di essere ripetuti. È un segno dei tempi: oggi la cultura dominante non sopporta le voci libere, in particolare quelle palestinesi, soprattutto quando vengono da donne colte, determinate e moralmente integerrime.

Io, però, non dimentico che è stata proprio una donna palestinese a insegnarmi l’arabo, e dunque a farmi capire la Grecia. La lezione più grande che mi abbia dato è che le lingue, come le civiltà, non sono mai pure: vivono di incontri, di scambi, di pietre cadute dal cielo che diventano simboli universali.
E che anche la pietra, muta in apparenza, conserva una voce. Basta saperla ascoltare.

Vincenzo Franciosi

Vincenzo Franciosi è professore associato di Archeologia Classica. Ha scavato in vari siti dell’Italia meridionale quali Fratte (SA), Buccino (SA), Montescaglioso (MT), Pompei (NA). Ha pubblicato studi sulle importazioni ceramiche corinzie di età geometrica nell’isola d’Ischia e sulle loro imitazioni locali; sulla ceramica figurata attica del V sec. a.C.; sull’urbanistica pompeiana e sugli scavi dell’insula VII, 14 a Pompei; sul culto della Mefite in Valle d’Ansanto; sulla statuaria arcaica in marmo dall’Acropoli di Atene; sulla statuaria in bronzo dalla Villa dei Papiri ad Ercolano; sulla statuaria policletea. È stato insignito, per l’insieme degli studi e delle indagini condotti nel campo dell’Archeologia Classica, del Premio Anassilaos 2020-21 (XXXII-XXXIII) “Arte, Cultura, Economia, Scienze” – Premio Μνήμη per l’Archeologia, Reggio Calabria, 13 Novembre 2021.

Le radici teologiche della politica coloniale di Israele, di Vincenzo Franciosi

Questo scritto nasce dall’indignazione di fronte a un crimine morale, storico e politico che si consuma sotto gli occhi di tutti: il colonialismo genocidario dello Stato ebraico di Israele contro il popolo palestinese. 

Se fossi vissuto negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, avrei rischiato la vita per salvare un ebreo dai campi di sterminio. Ma oggi è diverso. Oggi è proprio lo Stato che si proclama “ebraico” a perpetrare crimini contro l’umanità. E lo fa con l’arroganza di chi si sente intoccabile, coperto da una narrazione tossica che confonde pretestuosamente antisemitismo e antisionismo, memoria e propaganda, autodifesa e annientamento. Israele ha trasformato il sionismo, nato come ideologia di emancipazione, in un progetto colonialista ed espansionista, fondato su occupazione, apartheid e pulizia etnica. La definizione stessa di Israele come “Stato ebraico” rappresenta una contraddizione rispetto ai principi del diritto costituzionale moderno, che fondano la legittimità dello Stato sulla cittadinanza inclusiva e sull’uguaglianza dei diritti. Un’identità statale fondata sull’appartenenza religiosa ed etnica produce inevitabilmente esclusione e discriminazione. In Israele, infatti, l’appartenenza al “popolo ebraico” non è definita da criteri civili, ma da una logica genealogico-religiosa, per cui è ebreo chi è nato da madre ebrea o, in rarissimi casi, chi ha ricevuto una conversione riconosciuta dalle autorità rabbiniche. Questo principio, che si fonda sull’antico adagio giuridico mater semper certa est, pater numquam, è alla base della Legge del ritorno del 1950, che concede automaticamente la cittadinanza israeliana a ogni ebreo del mondo, escludendo però milioni di Palestinesi nati o residenti in quella stessa terra. Tale impostazione è stata ulteriormente rafforzata dalla Legge fondamentale del 2018 (Basic Law: Israel as the Nation-State of the Jewish People), che definisce Israele come «la patria storica del popolo ebraico» e dichiara che «il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivo del popolo ebraico». Con questa norma costituzionale, lo Stato non solo si autorappresenta come etnicamente connotato, ma istituzionalizza una gerarchia tra cittadini, subordinando ogni altra identità nazionale o culturale a quella ebraica. Ne risulta un modello statuale etnico e confessionale, che privilegia una sola comunità, quella ebraica, a scapito di ogni concezione pluralista o democraticamente rappresentativa. È, di fatto, uno Stato tribale, non uno Stato di diritto per tutti i suoi abitanti.

Il concetto di “ebraicità”, così come definito dalla tradizione rabbinica, è strutturalmente chiuso ed escludente. Affonda le proprie radici in millenni di teologia e trova oggi applicazione politica nello Stato di Israele. Contrariamente a quanto molti affermano per ignoranza o ipocrisia, l’ebraismo non è semplicemente una fede religiosa. La sua definizione si fonda su criteri biologici: si è ebrei se si nasce da madre ebrea. Ne deriva un’identità “di sangue” che non può essere abbandonata nemmeno in caso di ateismo o di conversione ad altra religione.

Fin dall’antichità, il segno visibile e indelebile dell’alleanza tra il popolo di Israele e YHWH (Yahweh) è costituito dalla circoncisione (milah). La sua origine è nel libro della Genesi, dove YHWH stabilisce un patto eterno con Abramo e i suoi discendenti: «Questo è il mio patto che dovrete osservare, tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: ogni maschio tra voi sia circonciso… Questo sarà il segno dell’alleanza fra me e voi» (Genesi 17:9-11). La circoncisione deve essere praticata all’ottavo giorno dalla nascita e chi non la compie viene «reciso dal popolo» (Genesi 17:14), cioè escluso dall’alleanza.

Nel pensiero biblico e rabbinico, la milah ha un significato profondamente identitario. È un marchio fisico e spirituale che segna per sempre l’appartenenza al popolo di Israele. Anche in caso di peccato o di abbandono della fede, la circoncisione rimane valida. La tradizione rabbinica afferma infatti: «Tutti gli Israeliti circoncisi non vedranno mai la Gehenna, a meno che il profeta Elia non riporti il prepuzio al suo posto» (Midrash Tanchuma, Tazria 7); «La Gehenna è solo per i malvagi delle nazioni; per Israele è un passaggio momentaneo e non li distruggerà mai» (Talmud Bavli, Avodah Zarah 3a). 

Questa impostazione è unica e appare profondamente discriminatoria perché separa in modo netto gli ebrei dai goyim (gentili) e costruisce una logica di superiorità ontologica, espressa chiaramente in numerosi testi rabbinici: «Un gentile che uccide un altro gentile o un israelita è condannato a morte; un israelita che uccide un gentile non viene condannato a morte da un tribunale» (Maimonide, Mishneh Torah, Hilkhot Melakhim 10:11); «Tutte le nazioni del mondo esistono solo per servire Israele» (Zohar, Shemot 14b); «Voi [Israeliti] siete chiamati uomini, mentre le nazioni non sono chiamate uomini» (Talmud Bavli, Yevamot 61a); «Solo Israele sarà risvegliato alla vita eterna, mentre le altre nazioni saranno giudicate come animali» (Zohar, Vayikra 34b); «Tutti i figli dei gentili sono come animali» (Talmud Bavli, Yebamoth 98a).

È impressionante notare come questi concetti tradizionali vengano ripresi identici nella retorica politica israeliana contemporanea. Diversi ministri e leader israeliani hanno definito i palestinesi “animali”, riproducendo letteralmente il linguaggio dei testi rabbinici. Il ministro delle finanze Bezalel Smotrich (ottobre 2023) ha parlato dei palestinesi come “bestie terroristiche”; il ministro della difesa Yoav Gallant (ottobre 2023) li ha definiti “animali umani”.

Israele bombarda scuole, ospedali, mutila bambini, affama civili, distrugge città e villaggi. Non è autodifesa: è annientamento sistematico. E mentre accade tutto questo, il mondo occidentale applaude, tace o peggio ancora, accusa di antisemitismo chi critica la politica genocidaria dello “Stato ebraico”.

Io non sono antisemita. E, a voler essere precisi, il termine stesso ‘antisemita’ è un’aberrazione linguistica, perché semiti sono anche i Palestinesi. Al contrario, provo empatia profonda per ogni ebreo che oggi si sente tradito dallo Stato che, in teoria, dovrebbe rappresentarlo. Se fossi ebreo, superata la depressione iniziale, combatterei con tutte le forze contro questo Stato razzista e assassino, contro questa menzogna, contro questo tradimento. Combatterei con la verità, così come fanno Moni Ovadia, Ilan Pappè, Shlomo Sand, Ariel Toaff, Zvi Schuldiner e tanti altri ebrei, paradossalmente accusati di antisemitismo.

Si parla tanto di recrudescenza dell’antisemitismo. Ma dov’è questo antisemitismo? Oggi i nipotini dei veri antisemiti, i neonazisti e i neofascisti attuali, sono dalla parte di Israele. Non perché abbiano compreso i loro errori, o provino sensi di colpa, ma perché invidiano Israele: Stato armato, etnico, spietato, che viene a rappresentare il compimento dei loro sogni autoritari. Il vero antisemitismo, oggi, è usare la Shoah come scudo morale per giustificare l’oppressione e la distruzione di un popolo come quello palestinese, a sua volta semita.

Per comprendere fino in fondo la brutalità dell’attuale politica coloniale e genocidaria dello Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese, è necessario risalire alle sue radici mitico-religiose: il concetto di “popolo eletto”, l’idea di “terra promessa”, la pratica del kherem. Questi tre elementi, profondamente intrecciati nella Torah, continuano a essere utilizzati per legittimare un’aggressione sistematica travestita da autodifesa. L’idea che il popolo ebraico sia stato “scelto” da Dio tra tutti i popoli – «voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Esodo 19,6) – ha generato un’identità etnica esclusiva, fondata sulla distinzione radicale tra “noi” e “loro”. Questa elezione non è mai universale, ma selettiva e condizionata. Nella lettura sionista, essa si è trasformata in una legittimazione etnica della sovranità su una terra promessa da YHWH e della eliminazione della sua popolazione indigena. Il concetto di “terra promessa” – «la terra che io do a voi e alla vostra discendenza» (Genesi 12,7) – è oggi reinterpretato in chiave geopolitica come diritto esclusivo all’occupazione. Questa promessa, nella Torah, è sempre accompagnata da narrazioni di conquista, sradicamento e annientamento dei popoli residenti: Cananei, Filistei, Amaleciti, ecc. Nella retorica politica israeliana contemporanea, la “terra promessa” è divenuta uno spazio esclusivo da purificare mediante lo sterminio. Durante l’operazione militare israeliana “Piombo Fuso” del 2008-2009 (oltre 1400 morti tra i Palestinesi, quasi tutti civili), alcuni telegiornali trasmisero dei filmati in cui due caccia israeliani mitragliavano, in un villaggio palestinese, dei cavalli chiusi in un recinto. Questo gesto, apparentemente inspiegabile dal punto di vista militare, ha una chiara analogia con la logica del kherem, ovvero l’annientamento totale come forma di “consacrazione distruttiva”. Il concetto di kherem è fondamentale nella visione etnica e militare della divinità del popolo di Israele. Parlo di “divinità del popolo di Israele” e non di Dio in senso universale, perché l’idea di un Dio unico e universale non appartiene all’ebraismo delle origini, ma nasce dopo l’esilio babilonese, si rafforza con l’influsso della filosofia greca e viene compiutamente formulata solo nel Giudaismo tardo, nel Cristianesimo e nell’Islam. 

Si parla solitamente del monoteismo ebraico come della radice prima e incontestabile della tradizione religiosa occidentale. Ma questa convinzione si fonda su una mistificazione storica e teologica. Il cosiddetto monoteismo dell’Antico Testamento non è, in realtà, monoteismo nel senso pieno del termine. La Torah conserva, nella lingua, nei miti e nelle affermazioni, le tracce evidenti di un politeismo arcaico, successivamente mascherato e reinterpretato. Il termine stesso “Elohim”, utilizzato per indicare l’Ente Supremo, è un plurale e significa letteralmente “gli dèi”. Solo in epoca tarda si è voluto intendere come un pluralis maiestatis. La grammatica e i contesti narrativi rivelano invece che, originariamente, si parlava di una pluralità di esseri divini: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Genesi 1,26). La figura di YHWH, che subentra progressivamente a Elohim, anzi, agli Elohim, è quella di un dio etnico, locale, guerriero. Il cosiddetto “Dio degli eserciti” non è l’unico Dio, ma la divinità principale del popolo di Israele, descritta come superiore agli altri dèi ma non unica: «Chi è come te tra gli dèi, o YHWH?» (Esodo 15,11); «Non avrai altri dèi davanti a me» (Esodo 20,3). Non è negata, quindi, l’esistenza di altri dèi, ma è vietato adorarli. Il termine giusto atto a definire lo Yahwismo biblico non è, quindi, “monoteismo” ma “monolatria”. Il Dio unico, creatore universale, onnipotente e trascendente, è, come si è accennato poc’anzi, il frutto di una lunga evoluzione teologica che si consolida soprattutto dopo l’esilio babilonese (VI sec. a.C.) e, in maniera ancora più profonda, con l’incontro con la filosofia greca in età ellenistica. L’influsso delle categorie greche è decisivo: da Parmenide e Platone proviene l’idea dell’unità dell’Essere, dell’esistenza di un principio supremo che non tollera rivali; dallo Stoicismo la nozione di logos, legge razionale e universale che ordina il cosmo, e il concetto di provvidenza; da Aristotele l’idea di un “primo motore” eterno, immutabile e perfetto. Queste categorie trasformano radicalmente il volto di YHWH, che non è più un dio nazionale, legato a un solo popolo, ma diventa il Signore dell’universo, creatore di tutto e giudice di tutte le nazioni. I testi biblici più tardi, come Isaia deutero e trito, riflettono già questa svolta: «Io sono il Signore e non c’è alcun altro» (Isaia 45,5). Si passa così da una religione tribale e monolatrica a un monoteismo universale, che però continua a custodire l’idea dell’elezione esclusiva d’Israele, mantenendo una tensione irrisolta tra universalismo etico e identità etnica.

A questo punto va meglio definito il concetto di kherem, al quale facevamo cenno precedentemente, e che significa “separato” perché consacrato a YHWH. Il termine kherem può indicare ciò che è sacro, ma anche ciò che è impuro e deve essere annientato. In Deuteronomio 20,16-18 viene comandato lo sterminio totale degli abitanti delle città conquistate: «non lascerai nulla in vita che respiri». Lo stesso accade al popolo amalecita, sottoposto al kherem in 1 Samuele 15,3: «Ora va’, colpisci Amalek e vota allo sterminio tutto ciò che gli appartiene: non risparmiarli, ma uccidi uomini, donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini». Il primo ministro Benyamin Netanyahu (ottobre 2023) ha citato esplicitamente questo passo biblico per legittimare la violenza israeliana contro i Palestinesi, evocando lo sterminio come atto di consacrazione al “Signore”. Analogamente, il ministro dell’agricoltura Avi Dichter (novembre 2023) ha dichiarato che “va completata la Nakba come compito biblico”.

Insieme, i tre concetti di “popolo eletto”, “terra promessa” e kherem, costituiscono un arsenale simbolico tendente a giustificare, nei fatti, una politica di apartheid, pulizia etnica e genocidio. Il linguaggio religioso diventa, quindi, strumento ideologico per legittimare la violenza coloniale dello “Stato ebraico”.

L’inclusione dell’Antico Testamento nel canone cristiano non fu una scelta ovvia, ma il risultato di un lungo processo nei primi secoli del Cristianesimo. I primi cristiani, essendo ebrei, leggevano naturalmente le Scritture di Israele, ma quando la Chiesa si separò progressivamente dal giudaismo emerse un dibattito: quelle stesse Scritture, con la loro teologia etnica e bellicosa, dovevano restare testi sacri? Nel II secolo il vescovo Marcione, scandalizzato dall’immagine di un Dio crudele e vendicativo, propose di rifiutare del tutto l’Antico Testamento e di conservare solo parte dei Vangeli e alcune lettere di Paolo. La Chiesa di Roma reagì scomunicando Marcione e affermando l’unità tra Antico e Nuovo Testamento, ma lo fece al prezzo di portare con sé un bagaglio teologico problematico. I sinodi di Ippona (393) e Cartagine (397 e 419) sancirono definitivamente il canone biblico che conosciamo, nel quale l’Antico Testamento, con le sue pagine di elezione etnica, di promesse di conquista e di kherem, divenne parte integrante delle Scritture cristiane. Questa decisione della Chiesa, nata anche dall’esigenza politica di legittimarsi storicamente mostrando di avere radici solide e antiche, ha avuto conseguenze profonde: il Cristianesimo ha ereditato una teologia che non sempre coincide con il messaggio universale e inclusivo di Gesù.

In conclusione, continuare a proclamare “sacro” un testo come l’Antico Testamento, che contiene una teologia arcaica, tribale e bellicosa, significa oggi legittimare una visione del mondo che giustifica dominio, apartheid e genocidio. Riconoscere che il cosiddetto “monoteismo ebraico” non è un autentico monoteismo universale, ma una teologia etnica evolutasi nel tempo, non è un’offesa: è onestà intellettuale. È il primo passo per liberare la spiritualità da ogni ideologia del sangue e del possesso, e per affermare un’etica davvero inclusiva.

Vincenzo Franciosi

Vincenzo Franciosi è professore associato di Archeologia Classica. Ha scavato in vari siti dell’Italia meridionale quali Fratte (SA), Buccino (SA), Montescaglioso (MT), Pompei (NA). Ha pubblicato studi sulle importazioni ceramiche corinzie di età geometrica nell’isola d’Ischia e sulle loro imitazioni locali; sulla ceramica figurata attica del V sec. a.C.; sull’urbanistica pompeiana e sugli scavi dell’insula VII, 14 a Pompei; sul culto della Mefite in Valle d’Ansanto; sulla statuaria arcaica in marmo dall’Acropoli di Atene; sulla statuaria in bronzo dalla Villa dei Papiri ad Ercolano; sulla statuaria policletea. È stato insignito, per l’insieme degli studi e delle indagini condotti nel campo dell’Archeologia Classica, del Premio Anassilaos 2020-21 (XXXII-XXXIII) “Arte, Cultura, Economia, Scienze” – Premio Μνήμη per l’Archeologia, Reggio Calabria, 13 Novembre 2021.