“Ci sistemiamo nelle sala da pranzo della casa, una grande tavola di legno su cui dispongo il materiale, e ci sediamo sulle panche, assi di legno in bilico su alcuni mattoni e casse di birra.”
Dopo un lungo percorso in auto un gruppo di donne, attraversata una parte del Pàramo di Sumapaz, in Colombia, arriva nel luogo deputato per un laboratorio di scrittura molto particolare. Sono donne avvolte nella nebbia, donne della nebbia, come recita il titolo del romanzo.

Il Pàramo di Sumapaz è infatti una regione pianeggiante in mezzo alle Ande, a venti chilometri da Santa Fé, semi inesplorata, ricca di un fascino di sacralità, dovuta anche a un clima dominato dalle escursioni termiche, gelo e pioggia con improvvise schiarite, sullo scenario di una laguna ritagliata nell’azzurro abbacinante, in alto, a mille metri sul livello del mare, in mezzo alle montagne. Chi sono queste donne?
Il titolo originale del romanzo è “La paramera”. La donna che abita questo paesaggio è figlia della natura selvaggia che la circonda, ma figlia sofferente e ribelle, ansiosa di scavalcare il limite e darsela a gambe. Non è nella psiche di tutti la voglia di varcare il confine alla ricerca della libertà? Se lo è per tutti, in questo romanzo si tocca con mano l’allarme che sa di disperazione, uno stato di allerta. Senza contare la situazione politica – immersa da sempre nelle guerre civili che strappano i figli alle madri, che scaraventano i corpi di rivoluzionari di infinite rivoluzioni (memorabile quella del non lontano 2005), nell’Iconanzo, un suggestivo burrone dentro un canyon senza fondo – qui è soprattutto l’isolamento del territorio a creare il clima claustrofobico che riempie gli uomini di follia. L’immenso spazio è circoscritto, la vastità non serve a niente se non si scorge la via di fuga. Non sono però gli uomini ad accorgersi di tutto questo ma le donne. Perché?
Probabilmente è l’essere madri, corpi addetti al ciclo della riproduzione, a rendere le donne più esasperate e quindi consapevoli, determinate. La maternità è trappola e salvezza contemporaneamente. Lo sente la protagonista della storia, una giovane professoressa, laureata all’università di Bogotà, altruisticamente protesa verso le sorelle, contadine, offuscate dalla nebbia di una vita isolata, nella realtà primordiale della solitudine. Lo sentono tutte, protese più o meno consapevolmente alla conoscenza, perché della conoscenza si tratta.
L’originale laboratorio di scrittura costringe la prof a percorrere parecchi chilometri per realizzare il progetto, affidando il figlio di appena sette mesi al marito, affettuoso e comprensivo, ben diverso dai compagni delle altre donne del gruppo. Il proprio corpo le ricorda ogni paio d’ore di essere madre, le esigenze del neonato le riempiono il seno di latte. Il rapporto con il corpo è difficilissimo per lei, non per le sue allieve, anni luce lontane dai problemi delle donne occidentali degli Stati Uniti o della vecchia Europa, immerse nel mondo del lavoro, al quale hanno dato la precedenza assoluta su tutto, in particolare sulla maternità. L’assurdo è nel fatto che questa ostacolante maternità è l’unico bene prezioso. Questo le donne del laboratorio di scrittura non lo sanno e forse non lo sapranno mai.

La più simile alla prof è Adriana, spregiudicata, tenace, pronta a cogliere la prima occasione per fuggire all’incubo del compagno ottuso e assillante con il suo bisogno di sesso. Adriana fa il bagno nella laguna durante una breve sosta del tragitto in macchina verso il luogo della riunione letteraria. Un bagno fisico e allegorico. La prof ammira il corpo nudo stillante acqua gelida, il groviglio dei capelli bagnati e le gambe robuste e forti. Niente di esile in questi corpi di donne andine, niente personaggi eterei.
L’unica astrazione è la scuola di scrittura che dovrà servire come psicanalisi per indurre a raccontare l’indicibile e il mai raccontato: esercizio psicanalitico alla ricerca almeno della consapevolezza di sé. La libertà nasce appunto da questo. Il torbido di quello che Freud definisce “inconscio” sta nella condizione originaria della creatura umana, che tutto riconduce al sesso. Nelle civiltà occidentali un tortuoso cammino ha portato a dissotterrare quell’ascia di guerra che in mezzo alle Ande è ben in chiaro. Qui fra le montagne gli uomini sono dei bruti. Sono rozzi e ignari, non possono nascondersi perché non immaginano di doverlo fare. Per questi uomini quasi non c’è differenza fra donne ed esemplari femminili di altre specie: servono a sfogare l’impellenza dell’istinto. Non essendo completamente allo stato primitivo, a volte cantano ballate romantiche, ispirate ai fuorilegge o a chi tale è considerato, chi può saperlo.
Tuttavia la civiltà, se così vogliamo definirla, si fa sentire nonostante, in qualche modo si è sempre fatta sentire: la cultura è il passaporto per una vita diversa. Non tutto quello che è ferino lo è fino in fondo, tutto e tutti possono cambiare, benché essere scaraventati nel burrone sia davvero orribile. L’autista Albeiro trasporta le donne con il suo mezzo sgangherato verso il laboratorio, e loro arrivano, e cominciano a raccontare le loro storie. Raccontano di gravidanze a tredici anni, di botte, di soprusi, di amplessi sopportati. L’istinto è potente. L’essere donna è la carta vincente. Le donne sono abituate ad avere figli che alleveranno da sole, perché gli uomini le abbandonano invariabilmente, secondo la loro natura. L’amore materno spalanca gli orizzonti e mette in chiaro la strada da seguire. La cultura legata al cibo, la coltivazione e la sua preparazione sono il segno della vita che continua. La voglia di vivere viene da lì. E’ forse per questo che due forze uguali e contrarie si sfidano in questo mondo primitivo. La corsa verso la conquista della libertà, oltre i confini delle montagne – scuola, università, altre lingue e altri mondi – da una parte, e bellezza di paesaggi, odori e sapori di una terra fantastica, istinti travolgenti, la sacralità della madre e del suo corpo, dall’altra. Se il maschio nel suo istinto è bestiale anche la femmina lo è. Se la natura selvatica del Pàramo è crudele, la sua bellezza è sacra, affascinante e indimenticabile, come un paesaggio magico o stregonesco. Allontanarsene porta la nostalgia ancor prima di partire. Chi passerà le montagne? Lo faranno i libri. Come afferma l’autrice colombiana, Laura Acero, dalla non lontana Università: “la letteratura non deve essere un saggio con note a pié di pagina” .
Le storie di donne sono tutt’altro che rare nel nostro attuale panorama letterario, gli scaffali delle librerie ne sono pieni. La lotta per affermare diritti delle donne sempre negati s’imbatte oggi nell’incredibile realtà dei continui femminicidi, proprio nel moderno mondo occidentale, e proprio nel nostro avanzato paese. In più, i fantasmi del passato risorgono nel mondo arabo, gli uomini coprono le donne con spessi drappi di stoffa, terrorizzati all’idea che possano sfuggire al controllo. Non è un problema geografico. Forse è un problema antropologico? Religioso? Psicanalitico? La prima cosa che s’impedisce alle donne in quel tipo di mondo è l’istruzione. Proibito alle donne andare a scuola. Nel Pàramo nasce invece un laboratorio di scrittura. Va bene. E’ da qui che si parte e si riparte.
Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.

