I consigli di Gabriele Torchetti della Libreria “Un panda sulla luna” di Terlizzi (Ba)

Abbiamo chiesto a Gabriele Torchetti, uno dei due librai della libreria indipendente “Un Panda sulla Luna” di Terlizzi in provincia di Bari – l’altro è l’ex giornalista RAI Vito Marinelli -, di suggerirci alcuni titoli. E, come sempre, la sua è stata una risposta sorprendente:

“Senza troppi giri di parole credo di aver individuato in Bell Hooks un punto cardine nella mia personale costellazione letteraria. Scrivere oltre la razza (IlSaggiatore) è di un’attualità estrema, affronta il tema del razzismo e delle barriere socioculturali che ci dividono in fazioni opposte. Barriere che ancora oggi hanno a che fare con il colore della pelle, classe e genere. Un saggio illuminante, chiaro, nitido, che si snoda attraverso le pratiche di cui ha fatto esperienza in prima persona una delle più grandi pioniere del femminismo contemporaneo: l’ascolto, la condivisione e la partecipazione nelle diversità. E’ possibile debellare il razzismo, per farlo dobbiamo iniziare dalla nostra vita quotidiana. Bellissimo.

Grave disordine con delitto e fuga (TERRAROSSA EDIZIONI) di Ezio Sinigaglia è uno di quei romanzi che ti rappacifica con la narrativa contemporanea italiana e ha il retrogusto di un frutto proibito. Sinigaglia gioca con i generi letterari e mescola le carte, commedia? Noir? Un giovane e rampante manager ha tutto ciò che chiunque possa desiderare: i soldi, la sicurezza in sé stesso, una bella famiglia…ma poi arriva lui, un incantevole fattorino adolescente. Che cosa accade quando inaspettatamente sopraggiunge un lieve, lievissimo disordine? Non resta che leggere.

Un ringraziamento va a Cliquot per aver avuto l’intuizione di ripubblicare le opere di Alba De Cèspedes, Invito a pranzo è una raccolta di racconti. La grande autrice rivolge il suo invito principalmente alle protagoniste di queste storie. Le donne sono sempre al centro delle riflessioni dell’autrice. Personalità complesse e labirintiche soffocate dalle convenzioni morali ed etiche del tempo. Una prosa raffinata e nostalgica, che a distanza di decenni continua a rinnovarsi e a parlare ancora di noi, merito di un’intellettuale visionaria e lungimirante. 

Avete voglia di perdervi in un bosco? Questo è un romanzo folgorante e misterioso. Liz Moore con il noir Il dio dei boschi (NN Editore) riesce a mantenere la suspence per tutte le 540 pagine (incredibile ma vero). Senza “effetti speciali”, senza splatter, senza violenza. Moore riesce nel suo intento, ci riporta indietro nel tempo in un’estate del 1975, quando l’adolescente Barbara Van Laar scompare da Camp Emerson, il campo estivo fondato dalla sua ricca famiglia. Una narrazione che va avanti e indietro nel tempo e che non concede un attimo di tregua. Un thriller? Un dramma familiare? Un poliziesco? Liz Moore va letta senza se e senza ma, perché questo libro travalica i generi, letteratura pura, con la L maiuscola.

Quando i gatti cadono dal cielo (Garzanti) di YU YOYO, ok gattare e gattari ci siete? Questo è il libro che fa per voi, da regalare a Natale, da leggere sotto il plaid insieme al vostro micio. Doppia kombo esplosiva, Giappone/Gatti. Un romanzo fiaba rivolto a tutti, cosa accadrebbe se a un certo punto cadessero gatti dal cielo? Una storia tenerissima, di un marito e una moglie che decidono di adottare Gatto. I gatti cambiano la nostra vita, qualche volta la stravolgono (oltre alle palline dell’albero di Natale). Ironico, lieve e magico, da leggere e rileggere.”

IL RANDAGIO RACCOMANDA: COMPRATE IN LIBRERIA!

Intervista a Silvia Ballestra per “Una notte nella casa delle fiabe” (Laterza, 2024), di Gabriele Torchetti

In questa intervista di Gabriele Torchetti, ripercorriamo con Silvia Ballestra alcuni dei momenti salienti della sua variegata carriera di romanziera, saggista e giornalista. Dall’incontro con Tondelli nel ‘90 e dal romanzo d’esordio Il compleanno dell’iguana o dall’iconico personaggio di Antò Lo Purk, passando attraverso memorie giovanili, riflessioni sull’evoluzione del ruolo delle donne e i saggi su Joyce Lussu, arriviamo al suo ultimo lavoro da poco in libreria con Laterza, Una notte nella casa delle fiabe, con il quale si conferma come una delle autrici più originali del panorama letterario italiano. Ci racconta In particolare del suo viaggio personale e intellettuale nel cuore dell’universo dei fratelli Grimm, offrendo interessanti spunti sulla sua evoluzione di scrittrice e intellettuale.​​​​​​​​​​​​​​​​

Ciao Silvia e benvenuta a Il randagio. Facciamo un bel salto temporale nel tempo e torniamo al tuo esordio letterario nel 1991 con Il compleanno dell’iguana. Antò Lo Purk è un ragazzo abruzzese a cui sta stretta la vita di provincia e sogna il successo lontano da Montesilvano, arriva a Bologna e persino a Berlino, ma questo successo sembra non arrivare mai. In una vecchia intervista hai definito i personaggi del libro come frustrati e perdenti, in qualche modo allora ti sei riconosciuta anche tu in quello stato d’animo. A distanza di tantissimi anni, che ricordi hai di quel periodo e come ti senti oggi? Ti capita mai di ripensare a quegli scapestrati degli Antò, dove te li immagini adesso?

    Ciao, grazie. In realtà non mi capita spesso di ripensare agli Antò letterari, più di frequente e proprio in questi giorni in cui ricorre il trentennale mi è capitato di rivedere scene del film che è stato tratto anni dopo e che ho scoperto essere diventato, lentamente, un cult per una generazione successiva. Non ne sapevo niente perché all’epoca non c’erano i social e perché è stato un fenomeno molto del centro Italia (credo romano, oltre che abruzzese). Stando a Milano non ne avevo avuto notizia. Inoltre il libro – i libri, visto che erano due – non vengono ripubblicati da un bel po’ (l’ultima edizione credo risalga al 2005 per Einaudi, da allora niente più ristampe) per cui anche nella mia vita sono rimasti indietro rispetto ad altri libri e altri percorsi che nel frattempo ho intrapreso. Lavorando molto sulla ricerca, si va avanti. E in generale non sono incline a nostalgie o ripensamenti del passato. Frustrati di sicuro, perdenti non lo so. Ho completamente perso l’aggancio con quel periodo, con quel mondo, che era Bologna negli anni ’90. La città stessa è cambiata, l’università è cambiata, la realtà è completamente stata stravolta da internet, da certo conformismo, da fenomeni epocali come la pandemia con cui dobbiamo ancora fare i conti e da mille altri eventi come il diritto allo studio che è venuto meno. Quello che ahimè non è cambiato è che c’è sempre la guerra, oggi più di allora. Ma adesso le voci alternative, la controinformazione, le proteste, sono soffocate da un conformismo micidiale. Questo impatta anche sulla creatività e sullo sperimentalismo. Insomma, oggi non ci sarebbe posto per narratori di un certo tipo (vedi lo scouting di Tondelli), perché non c’è nessuno veramente interessato alla voce dei giovani, a fare spazio, a dare ascolto. Forse succede nella musica, e infatti i risultati si vedono, ma non nella letteratura.

    Comunque, visto che gli Antò si ispiravano anche a persone realmente esistenti (che vedo e seguo anche su facebook ahahaha), che dire? Veleggiano verso la sessantina, chi con figli e nipoti e chi no, alcuni sono rincoglioniti altri no, pochi hanno fatto carriera (non erano, per fortuna, programmati per questo), molti sono tornati in provincia e lì tirano avanti come tutti, come possono.

    Nel 2008 hai scritto Piove sul nostro amore. Una storia di donne, medici, aborti, predicatori e apprendisti stregoni, un libro inchiesta sulla legge 194: campagne elettorali contro l’aborto, propagande violente pro-life, mullah ipercattolici del movimento per la vita e tante storie di donne che hanno abortito tra umiliazioni e vessazioni. Se dovessero ripubblicarlo adesso, nel 2024, quali sarebbero le tue note aggiuntive?

    Non lo so, adesso su certi argomenti lascerei davvero la parola alle donne più giovani. Molti problemi posti dalla tecnica sono sul tavolo, in maniera ancora più complicata di prima. Mi sembra di poter dire comunque che in questo momento c’è una ripresa di consapevolezza. In generale, sull’argomento donne (se così si può dire), corpo delle donne, ruolo delle donne, rappresentanza politica eccetera, c’è ancora molto da lavorare ma bisogna farlo anche andando a riprendere un po’ di storia. Ci sono riflessioni, testi, storie, libri che non sono abbastanza noti, o che non si trovano più da anni. Sono parte di un patrimonio molto ricco e ancora “nuovo”, nel senso di fresco e alternativo, che è stato accantonato, tagliato fuori, oscurato, per mille motivi, come spesso succede con il sapere delle donne. 

    Joyce Lussu è sicuramente un punto cardine nella tua bibliografia: nel 1996 l’hai intervistata per il libro  Joyce L. Una vita contro. Diciannove conversazioni incise su un nastro, il cerchio si è chiuso con la biografia La SibillaVita di Joyce Lussu. Hai dedicato parole appassionate per lei: “è stata un tempo, un intero secolo, ed è stata un mondo”. Cosa ha rappresentato per te? Ha influito in qualche modo nella tua scrittura?

    Sulla scrittura intesa proprio come stile non so, lei ha scritto prevalentemente poesia e saggistica e si è misurata con l’autobiografia, con una scrittura molto bella e limpida. Di sicuro nella sua ironia rintraccio una certa marchigianità che potrebbe essere comune a molti parlanti e pensanti del nostro territorio, una verve dissacratoria e “gioiosamente aggressiva” (uso questa sua espressione che mi piace molto: esempio sì di come abbia influito, come dico nel libro mi accorgo subito quando uso sue parole!) che caratterizza soprattutto i suoi pamphlet degli anni ’70. Comunque, tanto per dirne una, l’anglopescarese degli Antò deriva dall’anglomarchigiano di Joyce riferito ai suoi avi inglesi. Così come Fabio di Vasto falsario è ispirato a Joyce falsaria durante la Resistenza.

    A proposito di sibille, di magie e incanti vari, è uscito da pochissimo Una notte nella casa delle fiabe, è una domanda che ti hanno già posto: “che c’entri tu con i Grimm”? 

    C’entro che c’era questa collana nuova di Laterza che prevede di mandare uno scrittore a passare una notte da qualche parte, nello specifico in un museo, e poi raccontarlo. Sono passata dal Grimmwelt, letteralmente il mondo dei fratelli Grimm di Kassel, e sono rimasta folgorata da questo museo costruito sulla lingua e sulle storie. Si è riattivata tutta una serie di ricordi, di letture fatte da piccola, di studi sulle lingue fatti all’università, di agganci con il presente, che mi hanno spinta a lavorare su una serie di piste suggerite proprio dalla visita al museo, che è un museo contemporaneo e vivo. Con opere d’arte legate a Documenta e un gran lavoro sulla filologia e sulle romantiche figure dei Grimm.

    Il libro è nato da un’avventura solitaria in Germania, hai passato una notte da sola in un museo tra le stanze dei fratelli Grimm, al Grimmwelt a Kassel. Che cosa è successo? 

    Eh eh, si sono animate alcune cose che normalmente ci sembrano inanimate. È un percorso tra parole, voci, lingue. Vi si parla di traduzioni, streghe, narratori e narratrici, del lavoro delle donne, delle riscritture delle storie. Di animali che parlano, di intellettuali impegnati che hanno perso il posto in Università per restare fedele al loro ideale di libertà. I Grimm sono stati degli studiosi formidabili, il loro lavoro è un monumento alla ricerca. E alla libertà, come peraltro ha magnificamente raccontato l’antropologa Laura Marchetti in vari suoi libri e anche in un discorso politico molto forte che riguarda le strade delle fiabe, che uniscono e favoriscono scambi.

    Il tuo saggio ha tre parole chiave: “Lingua”, “Strega”, “Scala”. Data la passione comune per la magia e l’incanto, vuoi dirci qualcosa in più su Strega?

    Aiuto, ci ho scritto mezzo libro! Diciamo che le streghe di cui si parla qui sono le stesse fate e sono le donne emarginate e silenziate, le vittime della caccia che per decenni ha insanguinato l’Europa nel periodo di più furiosa misoginia e isteria collettiva, le depositarie di antichi saperi cancellati dai poteri maschilisti e patriarcali (vedi la Sibilla, nell’accezione di Joyce Lussu, appunto: una donna che conosceva benissimo la sua comunità, la medicina, la gestione dei beni comuni, cancellata dall’avvento di poteri spietati fondati su sfruttamento, accumulazione, schiavismo, tutti rigorosamente maschili). 

    Ormai sei un’esperta in materia, puoi consigliare alle amiche e agli amici del Randagio delle fiabe poco conosciute e da recuperare?

    Le fiabe che ho letto con più stupore (perché non le conoscevo) sono quelle della filatura, cioè quelle che raccontano il lavoro delle donne. L’immaginario Disney, il più potente e glamour – attenzione, sono una grande fan di Disney! – ci consegna principesse canterine e scintillanti che si sposano con principi che arrivano a salvarle. Ma in realtà sono ragazze che lavorano (sia Biancaneve che Cenerentola sgobbano di brutto) e spesso sono loro con i loro lavoro a salvare fratelli e padri. Tra tutte citerei senz’altro “La signora Holle” perché Holle è una figura molto forte parente della nostra Befana, discendente da dee madri (e qui si torna alle streghe), e “Le tre filatrici” per il discorso sul lavoro delle donne. Ma in generale consiglio di leggere le fiabe dei Grimm nella prima versione (uscita in uno splendido volume Donzelli curato da Camilla Miglio) per scoprire come al centro delle fiabe ci sia sempre la famiglia e che famiglia! Una famiglia moderna e allargata, ricomposta, o cupissima, o spezzata… A mille ce n’è, come dicevano le fiabe sonore, e ce ne sono sempre state: non solo di storie ma anche di famiglie!

    Gabriele Torchetti

    Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.

    Intervista a Erica Mou per “Una cosa per la quale mi odierai” (Fandango, 2024), di Gabriele Torchetti

    Chissà quante volte Erica Mou si sarà sentita definire “artista poliedrica.” Vorremmo trovare altre parole, ma ci riesce difficile. La sua carriera, infatti, è un intreccio di forme d’arte che si alimentano a vicenda: dalla musica alla letteratura, dal teatro al cinema. Erica, infatti, è una cantautrice affermata che porta la sua sensibilità musicale nella narrativa e sembra sempre capace di trasformare ogni esperienza in un racconto, in una canzone, in una storia.

    In questa intervista ci parla del percorso che l’ha portata a scrivere Una cosa per la quale mi odierai, un romanzo intenso, intimo, che affonda le radici nelle sue vicende personali e che siamo certi toccherà il cuore di molti lettori.

    Ciao Erica, grazie per questa intervista “randagia”. Facciamo un bel salto indietro nel tempo e torniamo ai tuoi 18 anni, ho ritrovato una tua vecchia intervista per Tgcom24 che intenerisce e fa sorridere, questo è un piccolo estratto: “Dico sempre che scrivo canzoni “per non uccidere nessuno”, ed è la verità! mi sfogo e in un certo senso “esorcizzo” ciò che ho dentro, ognuno trova la sua strada per farlo.” A distanza di tanti anni ti rifaccio la stessa domanda: perché scrivi?

    Scrivo ancora per non uccidere, forse, ma anche per amare. Scrivendo tutto diventa più intenso, viene condiviso e dunque acquista un peso, una dimensione, una profondità. Soprattutto però è una faccenda d’istinto, di necessità.

    Il tuo percorso professionale ha avuto sempre un punto di contatto con le altre arti: il cinema, il teatro e la letteratura. Soffermiamoci un attimo proprio su quest’ultimo. Sei forse una delle poche cantautrici ad aver scritto canzoni appositamente per un libro: “La strada del ritorno è sempre più breve” e “Adesso” per gli omonimi romanzi di Valentina Farinaccio e Chiara Gamberale. E infine “Madre”, il tuo ultimo singolo che è colonna sonora di “Una cosa per la quale mi odierai”. Come sono nate queste commistioni tra letteratura e musica?

    Con Valentina Farinaccio e Chiara Gamberale è stato come scrivere musica per un film. Leggendo i loro romanzi mi lasciavo guidare delle immagini che evocavano e che ho musicato, come fosse cinema. Sono state due esperienze uniche. Per “Madre” e “Una cosa per la quale mi odierai” invece la storia è diversa, canzone e libro si sono influenzati a vicenda, fanno parte dello stesso racconto ed è stato proprio lo scrivere quella canzone che ha dato l’avvio alla scrittura del romanzo che avevo in cantiere da tanti anni.

    Nel mare c’è la sete” è il tuo sorprendente romanzo d’esordio: chi legge accompagna Maria (io narrante) nelle 24 ore di una giornata, un breve arco temporale per una scelta cruciale. Com’è nata questa storia e quanto di te c’è nella protagonista rispetto alle tue canzoni?

    Credo che il primo spunto per questa storia, nella mia mente, sia stato proprio il finale. Ho immaginato l’ultima pagina del libro e mi sono chiesta quali potessero essere le ragioni che potevano portare la protagonista a vivere quel momento in quel posto. Un altro spunto è venuto dalle poesie che intervallano le pagine, scritti che avevo raccolto nel tempo e che diventano una sorta di collezione per Maria che, inevitabilmente, in molte cose mi somiglia.

    Come dici bene durante le presentazioni dal vivo “Una cosa per la quale mi odierai” è in realtà una grande dichiarazione d’amore per tua madre

    Sì e mi piace che un testo così pieno di amore contenga, nel titolo, il suo opposto. Penso che i sentimenti, all’apice della loro forza, si contaminino con il loro contrario. Così come si somigliano l’inizio e la fine della vita, cosa che sta al centro di queste pagine.

    E’ quasi impossibile non abbracciare e condividere il tuo dolore, il vostro dolore. Quanto è stato difficile per te mettersi completamente a nudo con un libro così intimo e privato?

    È stato sorprendentemente facile, naturale. Ho scritto questo libro seguendo un flusso che aspettava da dieci anni che una diga crollasse. Sono molto commossa dal fatto che una storia così personale stia diventando, per molti lettori, un racconto in cui identificarsi.

    Cerchi” è il titolo del tuo prossimo album e nello stesso tempo èun concept presente nella narrazione del libro, nove mesi per accompagnare e lasciar andare via la persona più amata e nove mesi per accogliere una nuova vita probabilmente a sua volta la più amata. Cosa rappresentano questi cerchi nella tua scrittura e nella tua vita?

    Sono lo scorrere del tempo, un tragitto che non segue per forza una linearità ma nel quale cose simili ritornano trovandoci però diversi, creando simmetrie inattese, seguendo il movimento della natura, dell’universo. L’album racconterà tante storie di questo tipo. Sono già usciti i singoli “Madre” che citavamo prima e “La festa del santo” nel quale la circolarità del tempo è scandita dal ritorno, anno dopo anno, di una festa di paese in cui sorprendersi diversi, nell’immutabilità dell’evento.

    Faccio un piccolo spoiler alle amiche e agli amici del Randagio, questo libro è forse uno dei più commoventi che abbia mai letto. Si piange e molto. Ma si ride anche e molto, perché se c’è una cosa che non manca nella tua famiglia è proprio l’allegria. E allora rimaniamo nel mood della spensieratezza, che commento sagace avrebbe potuto fare Lucia leggendo “Una cosa per la quale mi odierai”?

    Hai fatto bene a scrivere quello che ti pare, tanto io sono morta, che mi importa!

    Un’ultima cosa” è uno spettacolo bellissimo con la regia di Teresa Ludovico. In scena tu e Concita De Gregorio. Com’è lavorare con un’intellettuale con uno spessore così detonante?

    È come stare vicino al fuoco, riscaldarsi, rimanere ipnotizzati, provare a rubarne una scintilla. Sono molto orgogliosa del lavoro che stiamo portando in teatro da diversi anni ormai e sono certa che, senza quel testo, quella regia, quella ispirazione e soprattutto senza i nostri discorsi fuori scena, anche questo mio nuovo romanzo non esisterebbe.

    Ultima domanda, questa volta per davvero. Qual è l’ultimo libro che hai amato profondamente?

    “L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio, come tutto quello che scrive.

    Gabriele Torchetti

    Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.

    Intervista a Graziano Gala per “Popoff” (Minimum Fax, 2024), di Gabriele Torchetti

    Siamo innamorati da molto tempo di Graziano Gala. Saranno almeno tre anni, da quando il suo Giudariellu è uscito dalle pagine per prenderci il cuore. Gli avremmo voluto comprare noi il televisore, così da risparmiargli sofferenze e sbattimenti. Poi abbiamo aspettato ed è arrivato questo bambeniello di “Popoff“, e siamo rimasti come gli scemi, con il libro stretto al petto, commossi come dopo una scena di Dumbo.

    Graziano non è solo una persona buona, è uno scrittore buono, buonissimo, squisito come la parmigiana di melanzane che tua madre prepara quando torni al paese. La sua prosa ha il sapore della poesia, perché è poetico dalla cima dei capelli fino alla punta dei piedi. Con le sue parole soffia leggero sulle nostre sbucciature per non farci sentire il bruciore. E vedrete se non sembrano pura poesia anche le risposte che ha dato nell’intervista di Gabriele Torchetti, il nostro libraio preferito, mezzo panda e mezzo randagio.

    Ciao Graziano e benvenuto a Il Randagio. “Felici diluvi”, “Sangue di Giuda”, “Popoff”, i titoli dei tuoi libri sono  sempre d’impatto, catturano l’attenzione nell’immediato. Come nascono? Sei tu a decidere o hai indicazioni dalle case editrici?

    Non decido niente (quanto vorrei, ogni tanto!): li subisco. Decidono loro, io sono solo lo strumento. Arrivano così, cattivi, sto male prima, per giorni, mi tranciano le gambe. Poi arrivano: io mi sento che è tutto fuori, che sono svuotato. Mi sento felice. Mi sono passati attraverso. Piango dopo, piango come uno che è riuscito a rimanere, che non se lo sono trascinato via. 

    A proposito di “Sangue di Giuda“, il protagonista è un “bambino” di sessant’anni che vive col gatto Ammonio che “piscia a tutte ’e vanne” e un cane pelle e ossa. Tutto parte dal furto di un televisore, niente di trascendentale per la maggior parte di noi, ma è un innesto geniale per una storia che parla di solitudine, paura, indifferenza. Da dove è germogliato questo personaggio così fuori dalle righe? Che cosa hai voluto raccontare?

    Da Antonio Cosimo Stano, che è morto di mazzate, e da Lelio Baschetti, che è morto di silenzio. Da tutti quelli che ci dimentichiamo, che pensiamo che non siano rilevanti, ché le vite più preziose, le più avventurose, sono le loro, ché tenersi in piedi un’intera vita mentre tutto ti porta le gambe in acqua è cosa eroica. Sono storie dei poveri, di quelli che ogni tanto scivolano. Io lo faccio per mia madre che ha la quinta elementare. Giuda poi quando è arrivato, mamma mia. Un’epifania. Mi ha cambiato la vita. È sempre con me, non me ne separo mai. Lui sa fare cose che io mai potrò. 

    Nel romanzo è evidente la commistione letteraria con la Puglia, tua terra natia. Il dialetto ibrido presente nella narrazione è stato spontaneo nella stesura iniziale o sei partito dall’italiano? Una scelta coraggiosa, hai mai avuto timore che il dialetto potesse essere un ostacolo per i lettori?

    Io da casa sono scappato come fanno quelli che lasciano debiti, ma di debiti, quelli economici, ne avevo mica. Anzi. Sono scappato come chi corre via dal buio. Arrivato in Lombardia – terra promessa solo per chi non la abita – ho cominciato a sognare in dialetto, a masticare in dialetto. A sentire che un posto lo tenevo ed ero scappato. Mi sono premurato di guarire: ci ho messo dieci anni. Parlavo con la lingua di chi mi ha voluto bene: mia mamma, con la classe quinta; un salernitano che mi ha fatto da padre, un lucano che mi abbaiava addosso per insegnarmi a campare. Giuda una settimana dopo era in ristampa. Popoff da due giorni. La gente quelli onesti li riconosce: io bugie non ne dico. È per questo che mi vogliono bene. 

    Devo confessarti una cosa, quando ho finito “Popoff”, il tuo ultimo romanzo, ho fatto un piccolo applauso, è un libro commovente e poetico. Ma anche indefinibile, sospeso tra fiaba e realtà, commedia e tragedia, tenerezza e cinismo, quello che è certo che inizia in una notte buia con l’incontro bizzarro tra un bambino smarrito e un vecchietto strambo. Com’è nato questo incontro? E dove ci porta?

    Io non sono riuscito a diventare papà, ché tenevo il mio in ogni parte del corpo. Popoff è un esorcismo, è il bimbo che ti dice le cose come stanno, che ti mette a sedere e ti racconta la storia dalla parte di chi solitamente sta zitto. Popoff è incanto, che gli fanno di tutto e lui li odia mai, con la lingua di vetro e di schiuma. È il libro più importante della mia vita. Qualsiasi verrà dopo non sarà mai per me più importante: Popoff mi ha emancipato. Mi ha tirato fuori dal buio. 

    Anche in questo caso la scrittura è incasellabile e riconoscibile tra tante, quello che è certo è che il folklore del sud Italia per te è fonte d’ispirazione:

    Siamo vivi, noi. Teniamo fame. Proviamo sentimenti primari: amiamo, odiamo, mordiamo. Siamo quelli delle grandi speranze. Dei tentativi. Delle cadute coi tonfi: è lì l’eroismo, mentre sei sospeso. Poi a riuscire sono più bravi loro, quelli del nord, ma sognano peggio. A volte non sognano proprio, almeno qua a Milano. Il Sud, i Sud, sono l’unica alternativa di vita possibile. I nord, quelli del capitalismo, hanno fallito, e molto tempo fa. 

    “Nella steppa sconfinata, a quaranta sotto zero, se ne infischiano del gelo, i cosacchi dello Zar” sono i primi versi di una delle canzoni più amate de Lo Zecchino d’oro, gli stessi versi che aprono l’orizzonte del tuo romanzo. Perché proprio Popoff? Proviene da un tuo ricordo personale dell’infanzia? In cosa ti ha ispirato la canzoncina dell’Antoniano nella scrittura del romanzo?

    Avevo il romanzo dentro, ma non potevo iniziare: non sapevo il nome. Una persona buona, che mi ha voluto bene sempre, mi ha fatto sentire la canzone: è stato il momento. Ora sapevo, ora potevo. Popoff, il bimbo mio. Il bimbo più buono del mondo. Insieme ovunque. Per la manina. Pessempre. Non esiste nulla di più importante del mio cuore. Questo bambino io lo devo proteggere a qualsiasi costo. 

    Mani di padre, ciabatte di madre, una casa che affoga: ci vuole anche meno a tentare la fuga. Anche nel racconto Ciabatteria Maffei  (Tetra Edizioni) il protagonista (Mino) è un bambino. Quello dell’infanzia è un argomento molto presente nella tua scrittura, perché?

    Perché mi hanno fatto a pezzi. Se la sono masticata la mia infanzia. E ogni tanto ancora sento dolore. Potevo diventare uno di loro, e fare uguale, essere cattivo come loro: io però sono buono. Io sono buono. Non faccio male a nessuno, ché lo dice Cassola: quando si prova dolore, non si può voler male a nessuno          

    Graziano chiudiamo con un tuo consiglio di lettura: ci consigli un libro per sentirci un po’ meno soli?

    Leggete Randagio è l’eroe di Arpino e dopo il vostro cuore sarà diverso. Fatelo, vi prego. 

    Gabriele Torchetti

    Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.

    Intervista a Deborah D’Addetta per “Maleuforia” (Perrone, 2024), di Gabriele Torchetti

    Lo straordinario esordio narrativo di Deborah D’Addetta è un fulmine a ciel sereno nel panorama letterario italiano. Maleuforia (Giulio Perrone Editore) è un romanzo di formazione, poetico e commovente, ipnotico, irriverente, sopra le righe, ambientato in una Napoli crepuscolare sospesa tra ombre e passioni proibite. 

    Ciao Deborah e benvenuta a Il Randagio. Maleuforia è un ossimoro curioso, ma è anche una parola che non esiste nella lingua italiana, da dove è venuta fuori? E cosa racconta alle lettrici e ai lettori?

      Ciao Gabriele e grazie per questo invito. Maleuforia è un neologismo coniato dal mio compagno in tempi non sospetti, quando ancora non ci conoscevamo. Nel corso di questi anni insieme ho colto il significato che lui gli dava e ci ho aggiunto un po’ della mia comprensione delle cose. Quando ho iniziato a scrivere il romanzo gli ho tassativamente proibito di pronunciare la parola per paura che perdesse efficacia. Ai lettori parla di uno stato d’animo vero e proprio, a cui ciascuno assegna una sua propria definizione. Se vogliamo semplificare, è il corrispettivo italiano dell’appucundria partenopea o della saudade lusitana. 

      Raffaele/Lèmon è un personaggio che entra nel cuore, durante la lettura assistiamo al suo percorso umano e identitario. Com’è nato?  Ha qualcosa in comune con te?

      Lèmon è un personaggio nato perché da sempre mi interesso al mondo dei femminielli napoletani e negli anni ho collezionato una serie di romanzi, racconti, saggi che trattano il tema del cross-dressing, del transgenderismo, della transizione, dell’identità e orientamento di genere. Mi affascina molto il conflitto interiore di queste persone, il percorso umano, le motivazioni alla base. Lèmon nasce perché dovevo dare un corpo alla maleuforia, che si piegasse ma non si spezzasse. Il suo conflitto intrinseco – quella sé in forma di femmina che sente dentro – è esattamente il punto di partenza della sua maleuforia.

      È un romanzo corale, un’umanità multiforme, colorata e atipica, chi sono gli altri protagonisti? 

      Ci sono cinque voci ben distinte nel romanzo, ognuna con le sue peculiarità, il suo tono, le sue cose da raccontare, tutte in prima persona: Lèmon, di cui abbiamo parlato, Linda e Cleo, le sue due migliori amiche, femminielli come lei, Maria, la santa puttana che introduce Lèmon nel bordello di Donna Sofia, e infine il Cavaliere, nel suo ruolo di pigmalione. Tutte le voci sono state pensate per creare un puzzle, uno sguardo collaterale che arricchisce di punti di vista la visione di Lèmon.

      Il tuo libro è implicitamente anche un’appassionata dichiarazione d’amore a Napoli. Una città perennemente in bilico tra i suoi contrasti, sacro e profano, miseria e nobiltà, poesia e monnezza: qual è il suo ruolo nella tua opera?

      Sarebbe stato molto facile rendere Napoli la protagonista del romanzo, ma io volevo assolutamente evitarlo. Non perché io non ami Napoli, al contrario: proprio perché ne sono innamorata da tanti anni non volevo cadere nell’errore di raccontarla in modo banale, piatto, oppure – peggio – rappresentarla come un insieme di cliché. Per questo motivo, la città, seppur massicciamente presente nel romanzo, viene relegata quasi in modo esclusivo in spazi chiusi: la casa d’infanzia di Lèmon, il bordello di Donna Sofia, la villa di Posillipo del cavaliere, il vascio di Linda e Cleo, lo strip club di Mergellina. Inoltre, più che reiterare una dicotomia ormai esausta che viene spesso usata per descrivere la città, quella di luogo in bilico tra sacro e profano, io insisto nel dire che Napoli oscilla tra osceno e benedetto. Il suo ruolo quindi, all’interno del romanzo, è quello di fondale teatrale: nel romanzo non pronuncio mai la parola “Napoli”, ma le persone capiscono perfettamente dove ci troviamo.

      I femminielli nella cultura partenopea sono quasi figure mitologiche e ancestrali, già raccontate magistralmente anche da Giuseppe Patroni Griffi e Annibale Ruccello. Eppure sei riuscita a decodificare il tema e a renderlo attuale senza cadere mai nell’anacronismo. Ci spieghi come hai fatto?

      Non so se effettivamente io sia riuscita in questa impresa, ma la guida imprescindibile di Patroni Griffi con il suo Scende giù per Toledo, di Annibale Ruccello con Le cinque rose di Jennifer, nonché Pedro Lemebel con Ho paura torero, hanno dettato un canone da seguire. Non potevo fare a meno di leggere le avventure erotiche di Rosalinda Sprint né andare a vedere a teatro Ruccello. Il modo di rendere attuale il tema è stato attraverso la trasformazione fisica di Lèmon: lei non si accontenta di rimanere un femminiello, ma intraprende un percorso che oserei dire “contemporaneo” di vera e propria metamorfosi. 

      Questo libro è frutto di un lungo lavoro antropologico di ricerca. Quali sono state le tue bussole per orientarti in questo mondo inesplorato?

      Oltre alla ricerca di tipo accademico – quindi romanzi, saggi, testi che trattavano il tema della transizione di genere e della cultura dei femminielli, delle case chiuse, dei quartieri a luci rosse di Napoli e Genova – ho pensato che la cosa migliore da fare per cercare di capire un mondo a cui non appartengo fosse calarmici. Ho parlato con donne trans, con prostitute, le ho intervistate, mi sono fatta raccontare la loro storia, le ho fotografate. Ho tentato di immedesimarmi nei loro percorsi di vita. Lèmon, Cleo e Linda sono il risultato di queste conversazioni.

      Il sesso è molto presente tra le tue pagine, a volte è gioioso e spudorato altre squallido e veniale. Che importanza ha l’eros nella tua scrittura? Secondo te come mai non riusciamo ancora a parlarne liberamente?

      Mi è stato detto che ogni cosa che scrivo, dal romanzo ai racconti agli articoli ai pezzi saggistici (e mi trovo d’accordo), è attraversata da una corrente erotica facile da catturare. Il genere erotico, che sia nella letteratura, nel cinema, nell’arte, nella fotografia, mi interessa da quando sono adolescente e mi era proibito di indugiarvi. Trovo sia molto superficiale e ingiusto relegarlo a genere di serie B e questo per una questione molto semplice: scrivere erotico non è facile. Si cade nel grottesco, nel comico, nel surreale. Eppure abbiamo esempi di letteratura erotica di livelli eccelsi: pensiamo a Lolita di Nabokov, ad Apollinaire, lo stesso Lemebel, a De Sade, a Anaïs Nin, Angela Carter, nonché (quelli che personalmente preferisco) autori giapponesi che del genere erotico hanno fatto arte, come Kawabata, Mishima, Tanizaki. Di erotismo parliamo, ma male e con i termini sbagliati: l’erotismo si confonde con la pornografia e una mera questione di sesso. Non è così. Il problema è che, nel nostro Paese (e non solo), tutti fanno tutto ma si nasconde la polvere sotto il tappeto. È un’ipocrisia bella e buona: la solita facciata pulita del “si fa ma non si dice” e poi, nel privato, com’è giusto che sia, si consumano le migliori perversioni. Si dovrebbe essere più sinceri.

      Maleuforia ha una struttura circolare, finisce come inizia. Perché?

      L’incipit del romanzo, che ho riscritto circa trenta volte, si aggancia all’ultimo capitolo, o forse sarebbe meglio dire il contrario: l’ultimo capitolo riprende la stessa identica ambientazione per chiarire i connotati fumosi del principio. Non è chiaro a tutti quello che succede non appena il romanzo inizia. La chiusa serve, intanto, a sigillare un cerchio e questo perché amo particolarmente i romanzi circolari, e secondo, perché risolve degli irrisolti. È come una cerniera: i due lembi – l’incipit e la conclusione – fisicamente imprigionano la storia di Lèmon nei loro denti.

      So che scrivi racconti, puoi consigliarci tre racconti imprescindibili?

      Sì, amo molto i racconti e le raccolte di racconti. Posso consigliare di più, tre raccolte i cui testi brevi sono tutti capolavori: La foresta in fiore di Yukio Mishima, cinque racconti giovanili dell’autore giapponese che trattano temi come le divinità, l’introspezione profonda, le tradizioni; Puttane assassine di Roberto Bolaño, credo non abbia bisogno di presentazioni; e infine, I pericoli di fumare a letto di Mariana Enriquez, una delle mie autrici contemporanee preferite, dodici storie brevi che intrecciano perturbante, weird, realismo magico e oscura eleganza. 

      Deborah D’Addetta, è nata in Puglia nel 1986, vive a Napoli. Fa parte del collettivo Spaghetti Writers, per cui scrive racconti ed è redattrice, recensisce libri per Critica Letteraria ed è contributor di varie testate, tra cui Italy Segreta, Mar dei Sargassi, City News – Napoli Today. Molti suoi racconti e scritti di natura saggistica sono stati pubblicati su riviste letterarie. Vince il premio letterario “L’Avvelenata” con “Blam” 2021. Maleuforia è il suo romanzo d’esordio, pubblicato nel maggio 2024 da Giulio Perrone Editore.

      Gabriele Torchetti

      Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.