Due popoli travolti da uno stesso destino di morte, di violenza e di orrore. A distanza di poco più di mezzo secolo, il poeta Paul Celan (1920 – 1970) e la narratrice Adania Shibli (nata in Palestina nel 1974), ci raccontano la stessa storia.

Nel 1949 Adorno si pose la domanda: può esistere una poesia dopo Auschwitz? Celan, che con ogni probabilità è stato il più grande poeta dell’Olocausto e il più grande poeta lirico di lingua tedesca dopo Rilke, nel 1945 aveva scritto Todesfuge (fuga di morte) tra Czernowitz e Bucarest.
Apparteneva a quell’ “Europa centrale che non è uno Stato ma una cultura e un destino. I suoi confini sono immaginari e, a ogni nuova situazione storica, devono essere tracciati daccapo”. Così scrive Kundera nel suo saggio Un Occidente prigioniero. Una riflessione che richiama Merleau-Ponty: è attraverso la percezione che esperiamo il mondo. “Non sono i confini politici, inautentici e imposti da invasioni e conquiste, a delineare l’aggregazione centro-europea, ma le grandi situazioni comuni che riuniscono i popoli entro confini immaginari e mutevoli, dove permangono la medesima memoria, la medesima esperienza, le medesime tradizioni comuni”. Il problema, per Celan, non era solo quello di scrivere poesie, ma quello di doverle scrivere nella sua lingua madre, che era però la lingua degli assassini.
Poeta rumeno di origini ebraiche, naturalizzato francese, ma di lingua tedesca, Celan nasce a Czernowitz, capoluogo della Bucovina settentrionale, provincia orientale dell’ex impero austro-ungarico, nel 1920. Czernowitz diventa rumena nel 1919. Con la fine della Seconda guerra mondiale la Bucovina settentrionale sarà annessa all’Ucraina. “La Storia ha divorato la Geografia”, scriverà Celan. La scrittura poetica, in alcuni autori, diventa l’unico mezzo per individuare e creare un paesaggio nella lingua, un luogo dove trovino spazio i luoghi perduti, quelli dell’esilio, la memoria dei morti insepolti e una possibilità di futuro per i sopravvissuti.
Todesfuge – Fuga di morte
Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera
noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte
noi beviamo e beviamo
noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto
Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive
che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarethe
egli scrive egli s’erge sulla porta e le stelle lampeggiano
egli aduna i mastini con un fischio
con un fischio fa uscire i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda e adesso suonate perché si deve ballare
Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo
Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive
che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarethe
i tuoi capelli di cenere Sulamith noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto
Egli grida puntate più fondo nel cuor della terra e voialtri cantate e suonate
egli estrae dalla cintola il ferro lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
voi puntate più fondo le zappe e voi ancora suonate perché si deve ballare
Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo
nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarethe
i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca colle serpi
Egli grida suonate più dolce la morte la morte è un Maestro di Germania
grida cavate ai violini suono più oscuro così andrete come fumo nell’aria
cosi avrete nelle nubi una tomba chi vi giace non sta stretto
Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio la morte è un Maestro di Germania
noi ti beviamo la sera come al mattino noi beviamo e beviamo
la morte è un Maestro di Germania il suo occhio è azzurro
egli ti coglie col piombo ti coglie con mira precisa
nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarethe
egli aizza i mastini su di noi ci fa dono di una tomba nell’aria
egli gioca colle serpi e sogna la morte è un Maestro di Germania
i tuoi capelli d’oro Margarethe
i tuoi capelli di cenere Sulamith
Una scrittura che si serve di molte figure retoriche, forse per aggirare l’orrore di descrizioni troppo cruente e vere per aprire quello spazio poetico che contraddice il common sense. In ogni segno è nascosto un doppio significato.
In Fuga di morte, musica, poesia e tragicità si combinano: fuga musicale e fuga dalla morte, colpa per essere sopravvissuti. In musica la fuga è una figura polifonica di una tematica ripetitiva, un dolore ininterrotto che mai si acquieta. Arriva a noi evocando il pianto delle prèfiche del mondo arcaico, richiamandoci al dolore della separazione.
Il nero latte del mattino è una figura ossimorica che, associando il nero al latte, trasmette il tormento di chi, fin dal mattino, lo beve con la consapevolezza di un condannato a morte.
Il chiasmo dei versi di – I tuoi capelli d’oro, Margarethe / i tuoi capelli di cenere, Sulamith – concentra l’attenzione su due immagini mitiche: Faust e il Cantico dei Cantici. Una figura è tedesca, l’altra ebraica. Il colore dei capelli ne determina l’appartenenza e il destino, quasi che per un ingiusto capriccio del fato sia proprio il colore dei capelli a decidere la felicità o la tragedia. I capelli, simbolo di bellezza e insieme di disumanizzazione, sono la prima cosa di cui venivano private le donne all’ingresso nei campi di concentramento; la cenere, invece, anticipa ciò che sarà il dopo.
Celan continua a servirsi delle antinomie per accrescere la tensione espressiva del testo: suonate più dolce la morte, la morte è un maestro in Germania. Il contrasto di luci e ombre, l’accostamento del violino a suoni cupi, l’imperativo “salite come fumo nell’aria – poi avrete una fossa nelle nuvole, lì non si sta stretti”: il linguaggio deve essere distorto attraverso paradossi espressivi, solo così l’orrore può abitare la poesia. La sineddoche domina: ogni cosa sta per un’altra, nella sua veste più impensabile; il chiasmo, attribuendo qualità diverse allo stesso nome, ne sottolinea l’ingiustizia e il male.

Un’eco che ritorna
Non potevo non pensare a Celan leggendo la narrazione di Adania Shibli Un dettaglio minore (pubblicato nel 2021 – La nave di Teseo), dedicata alla guerra che i palestinesi chiamano Nakba, la “catastrofe”, e gli israeliani la “giornata dell’indipendenza”. Celan e Shibli: due memorie allo specchio.
I soldati guardavano i capelli della ragazza cadere silenziosamente sulla sabbia attorno a lei. L’infermiere portò a termine il taglio dei capelli in breve tempo, quindi sterilizzò le forbici, il pettine e lo sgabello. Un altro soldato raccolse i capelli sparsi sulla sabbia, li arrotolò in un fagotto… e bruciò ogni cosa. A terra, sulla sabbia, lontani dalle fiamme che consumavano i vestiti, giacevano alcuni riccioli neri.
Il gesto del taglio, la sabbia che trattiene i riccioli bruciati, rimanda in un flashback a Fuga di morte. Due immagini, lontane nel tempo e nello spazio, che si richiamano a vicenda.
La sincronicità tra la poesia di Celan, la domanda di Adorno e la Nakba rivelano un legame sotterraneo, un filo rosso che li attraversa. A questa si aggiunge l’altra coincidenza: la protagonista del romanzo, una donna di Ramallah, venticinque anni dopo, cerca di ricomporre i dettagli del crimine avvenuto il giorno esatto della sua nascita. La sua ricerca si snoda tra luoghi che hanno cambiato nome, confini ridisegnati, mappe inghiottite dalla storia. Chi un tempo abitava quei territori non sa più se riconoscerli come propri o sentirsi straniero nella propria terra.
Nel romanzo di Shibli ci muoviamo in un’atmosfera cupa: è notte fonda. Le nubi, che sembrano elevarsi sopra Auschwitz, Dachau, Sachsenhausen…., scivolano idealmente verso Sud, oltre il Mediterraneo. E ci ritroviamo nel deserto del Negev.
È qui che, nella notte di Yom Kippur del 1946, viene posta la prima pietra del kibbutz Nirim, nei pressi di Rafah, sul terreno di Dangom. Trenta camion di giovani ebrei europei, protetti dall’ Haganah, organizzazione militare di difesa a cui si fa risalire il terrorismo sionista, attraversarono il deserto senza che le autorità britanniche, né la stessa Agenzia ebraica, ne fossero informate. Un gesto clandestino che anticipava la frattura che si sarebbe compiuta tra il 1947 e il 1949.
Alla fine del mandato britannico e dopo la Risoluzione ONU sulla partizione della Palestina, la guerra arabo-israeliana del 1948 portò alla distruzione di centinaia di villaggi palestinesi e all’esodo forzato di oltre settecentomila persone. Una frattura originaria: luoghi cancellati, memorie sospese, un popolo in cammino verso un altrove non scelto—un altrove che quelli che stavano arrivando avevano già abitato.
Questo è il significato della Nakba: la catastrofe di un’identità sradicata.
Come un’ombra olografica che ritorna, ritroviamo l’uomo sulla soglia, che riflette quello celaniana dell’aguzzino: aizza i mastini – estrae dalla cintola il ferro – il suo occhio è azzurro – ti coglie col piombo…
L’uomo non si voltò: lo sguardo fisso oltre gli alberi, il latrato del cane, il bramito dei dromedari. Poi la sparatoria, i gemiti della ragazza avvolta nel suo abito nero, schiacciata al suolo da una mano che la zittisce.
Un’eco che ritorna.
Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

