Intervista a Michele Ruol per “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” (TerraRossa, 2024), di Gabriele Torchetti:

“Per la prima volta segnalo un romanzo ai giurati del Premio Strega. Lo faccio, in primo luogo, per condividere con loro l’emozione che ho provato nel leggere le pagine di Michele Ruol. Il romanzo è il racconto del vuoto lasciato nella vita di due genitori, Padre e Madre, dalla morte improvvisa dei loro due figli, Maggiore e Minore.”

Il virgolettato è parte della motivazione con la quale Walter Veltroni ha proposto “Inventario di quel che resta dopo che la finestra brucia” per il Premio Strega 2025.

E mai segnalazione fu più azzeccata, perché l’esordio letterario di Michele Ruol per Terrarossa è un’opera rara nel panorama letterario contemporaneo. L’autore, infatti, reinventando il punto di vista narrativo, propone al lettore una prospettiva inedita e affascinante: sono gli oggetti che raccontano.

Gabriele Torchetti, il nostro libraio sempre attento alle novità folgoranti, ha intervistato per noi Michele Ruol, che ringraziamo per la disponibilità.

Ciao Michele e benvenuto a Il RandagioInventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è un libro fuori da ogni schema letterario, almeno qui in Italia, un romanzo costruito attraverso un vero e proprio inventario. Una casa abbandonata, stanze vuote, silenzio: sono gli oggetti della casa a parlare e a comporre tassello dopo tassello la storia di una famiglia, perché hai scelto di raccontare questa storia proprio attraverso gli oggetti?

Ciao, e grazie per l’ospitalità. Sono partito dagli oggetti perché la storia che racconto è in qualche modo incandescente: avevo bisogno di allontanarmi un po’, di guardarla da quella che Mazzacurati in un suo film chiama la giusta distanza. Gli oggetti per me sono stati un filtro attraverso cui ricostruire la vicenda: come un archeologo che utilizza vasi, monete e altri reperti per ricostruire la storia di civiltà perdute, anch’io mi sono messo in ascolto della vita e delle storie che continuavano a emanare. 

    Anche gli oggetti apparentemente più insignificanti hanno il potere di accendere un ricordo, un momento di vita, di gioia o dolore. Qual è stato il tuo criterio di scelta nella stesura dell’inventario?

    Certo, questa è la cosa bella degli oggetti, ovvero il fatto che il loro valore affettivo sia completamente scollegato da quello economico. Ognuno di noi sa qual è quella cosa a cui non rinuncerebbe mai, e questo succede perché si vengono a creare dei fili – sottili ma visibili – che collegano gli oggetti a particolari momenti della nostra vita. A volte questi fili vanno oltre, e ci riconnettono con persone che non ci sono più, o ci uniranno a persone che verranno dopo di noi. Ho costruito così questo inventario, cercando questi fili e seguendoli fino agli oggetti a cui erano collegati.

    Madre, Padre, fratello Maggiore e fratello Minore, perché hai scelto di non dare un nome proprio ai protagonisti del romanzo?

    Da una parte perché preferivo dei nomi universali, che ci riguardassero tutti, ma c’è dell’altro. Quelli che ho scelto infatti non sono solo dei nomi comuni, ma nomi che indicano dei ruoli, all’interno della famiglia e della società. Mi interessava provare a raccontare il cortocircuito e lo spaesamento che si innesca quando il nome – il ruolo – che ci definisce viene improvvisamente a mancare.

    Sappiamo già dall’inizio che questa famiglia è travolta e distrutta da una tragedia, Maggiore e Minore muoiono in un incidente stradale. Il tuo libro è potente, drammatico, eppure è un romanzo che concede la possibilità di una speranza. Che cos’è questa foresta che brucia? E come si può sopravvivere dopo che quello che ami di più è distrutto per sempre?

    Mi fa piacere che tu lo metta in evidenza, perché quello che ho provato a raccontare è proprio questo, la luce che filtra anche nel dolore più impenetrabile. La foresta che brucia è una metafora che il personaggio di Madre fa propria: una foresta in fiamme è persa per sempre, dal momento che una identica a quella che c’era non tornerà. Eppure Madre, a distanza di anni, si ritrova a camminare in quella che era la foresta bruciata, e scopre una varietà di nuove specie arboree che la sorprende: è la realizzazione che la vita, intesa in senso biologico, è in qualche modo inarrestabile e ci trascina oltre, anche attraverso lutti e dolori che non avremmo mai voluto affrontare.

    Quando ho finito di leggere il tuo romanzo inconsapevolmente ho pensato a Ricordi? un film di Valerio Mieli, nel film il regista analizza una storia attraverso i ricordi dei due protagonisti, ricordi divergenti e mutevoli. Un po’ ho pensato al rapporto di coppia tra Padre e Madre, entrambi vivono (prima e dopo la tragedia) le medesime situazioni con stati d’animo ed emozioni, almeno in apparenza, diametralmente opposte. Puoi dirci qualcosa in più su questo?

    Questo è un aspetto particolarmente interessante: un medesimo evento non ha gli stessi effetti sulle persone che lo vivono, e questo perché abbiamo tutti diversi vissuti, diversi strumenti emotivi e diverse risorse. Inventario di fatto è il percorso di una coppia che affronta un lutto con tempi e modi radicalmente differenti, e proprio per questo all’inizio si disgrega. Il dolore separa, non unisce, e Madre e Padre hanno bisogno di tempo per ritrovarsi, prima singolarmente e poi come coppia.

    A proposito di ricordi, che ruolo ha la memoria nella tua narrazione?

    Per me è una sorgente di immagini: quando scrivo parto prevalentemente da quelle – una luce, un dettaglio, una sensazione – e intorno a quella immagine, spesso attinta dal ricordo, invento poi scene e personaggi.

    Sei drammaturgo e lavori da tanti anni per il teatro, prova a immaginare Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia in scena, cosa vedi lì qui sul palco? 

    È un progetto a cui sto lavorando e che spero di poter realizzare. Si tratta di una bella sfida, perché una delle particolarità di Inventario è che i suoi personaggi non sono mai in scena. Drammaturgicamente è come se avessimo la scenografia, ma non gli attori. Per portarla in scena bisognerebbe quindi creare una sorta di negativo del libro, ovvero trovare il modo di recuperare la presenza umana, senza però perdere la magia degli oggetti.

    Il tuo è un romanzo d’esordio è stato letteralmente acclamato da critica e pubblico e sta collezionando premi su premi (Premio Venetarium Labomar, Premio Megamark, Premio Giuseppe Berto, proposto da Walter Veltroni per il Premio Strega), come stai vivendo questo successo? In qualche modo influirà nella scrittura del tuo prossimo libro?

    Lo vivo con continuo stupore. Quando il libro è uscito onestamente non avevo molte aspettative, ero felice che il libro fosse uscito con una casa editrice che stimavo, non mi aspettavo altre gratificazioni. Quindi ecco, prendo tutto quello che sta arrivando con meraviglia e gratitudine, perché senza la tenacia e l’entusiasmo che ci sta mettendo TerraRossa dubito sarebbe successo. Questo ovviamente poi avrà un riflesso sul prossimo libro che scriverò, almeno in termini di aspettative: per quanto mi riguarda ripartirò da zero, come se fosse un secondo primo libro.

    Solitamente chiudo la chiacchierata chiedendo all’autore un consiglio di lettura, in questo caso voglio fare un’eccezione (non mi odiare). Facciamo un gioco, se tu dovessi presentarti a qualcuno per far conoscere chi sei, la tua storia, da quale oggetto inizieresti?

    Comincerei da un oggetto che non è un oggetto, un essere vitale e silenzioso, che nel libro ha un ruolo chiave: la pianta di corbezzolo – una pianta speciale per la sua capacità di sopravvivere agli incendi, mantenendosi viva sotto la cenere.

    Gabriele Torchetti

    Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.