Silvana Leonardi: errare del segno e del sogno, di Stefano Taccone

Se ritratti in/versi (Bertoni Editore, 2024) costituisce, come suggerisce lo stesso titolo, una raccolta di ritratti – non solo a base di parole, ma talvolta raddoppiati attraverso la rappresentazione visiva, in grafite e pastelli a olio su carta, ché l’autrice è pittrice oltre che poeta, mentre in/versi allude non solo alla versificazione ma anche all’inversione data dalla scelta, parafrasando una fortunata mostra di Lea Vergine, di dedicare questi ritratti all’ “altra metà” dell’universo creativo, quella femminile – questa successiva, e fin ora ultima, raccolta poetica di Silvana Leonardi,  psicogeometrie erranti (2025), pubblicata per la stessa casa editrice della precedente, oltre che per la stessa collana, Aurora, e prefata ancora da Bruno Mohorovich – curatore della collana – si configura piuttosto come un autoritratto. Meglio ancora come un autoritratto che – come avviene nella pittura cubista o futurista ed anche, per certi versi, in alcune prove impressioniste, benché con strumenti ed esiti differenti – possiede uno sviluppo non solo nello spazio, ma anche nel tempo, dal momento che i componimenti raccolti abbracciano un arco di quasi un decennio. Per quanto ciò sia dissimulato attraverso una disposizione di questi ultimi che non concede nulla alla diacronia, rigorosamente basata sull’ordine alfabetico dei titoli. La non staticità di tale autoritratto è inoltre garantita dal carattere dichiaratamente errante della sua opera, participio presente che associato alla psicogeometria rimanda immediatamente al metodo montessoriano, ma, a sua volta, la psicogeometria potrebbe richiamare alla mente la psicogeografia situazionista, consapevole delle implicazioni emotive proprie dell’ambiente che abbiamo intorno, nonché la deriva, ovvero la principale metodologia che traduca in pratica la disciplina psicogeografica.

Le derive situazioniste tuttavia – come è noto – sono strettamente legate all’ambito urbano. Leonardi, vice versa, pur mantenendo fermissima la relazione tra emozione e ambiente, ne evoca costantemente uno dai tratti ben poco antropizzati. Il suo spazio e il suo tempo sono quelli del mito pre-cristiano, ove l’ancoraggio alla natura e ai suoi ritmi abbraccia la sfera dell’estetica, ma anche quella della morale e persino della politica, intesa chiaramente nel senso più alto del termine. Come “strega e tarantolata quasi in trance”, come “sciamana sciamannata”, l’autrice ci dà così costantemente conto di impregiudicate esplorazioni entro una realtà che confina col sogno sempre pronto a farsi segno. E la gaia inquietudine di tale peregrinazione è restituita appunto dallo stesso curvarsi della sostanziale linearità della sua poesia verso il visivo: la scelta di evidenziare in neretto alcune parole, o parti di parole, di usare il maiuscolo, di eliminare gli spazi tra una parola e l’altra, di aumentare le dimensioni del carattere e, soprattutto, tratto più che mai caratterizzante i suoi versi, di allinearli al centro piuttosto che distribuirli uniformemente, in maniera tale da dare forma a impensabili figure geometriche per lo più assimilabili a rombi, ma talvolta persino a cerchi, irregolari.

Se tale peculiare modellare plasticamente la scrittura acquista, tra l’altro, più o meno consce valenze espressive, se non espressionistiche, assai visualmente evocativo è anche il significato più convenzionale cui i segni mettono capo, sollecitando un mondo archetipico di infallibile fascino e di inequivocabile senso. La Luna è forse la co-protagonista più ricorrente, e sulle implicazioni femminili di tale corpo celeste, fin da tempi antichissimi, è persino superfluo soffermarsi – con essa talvolta si rasenta l’identificazione: «la Luna nel mio corpo / mi illumina da dentro». Subito affianco porrei il mare-madre – ulteriormente dipanabile in variazioni «tra/mare e a/mare» -, un pur non inedito slittamento della più consueta, ma meno dinamica, associazione tra terra e madre, testimonia ancora la passione di Leonardi per l’assonanza-allitterazione e rende palese, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la matrice del suo sentire. La stessa che tra il 1980 e il 1981, giovane laureata in Storia dell’Arte e in Filosofia, la conduce a porre a Roma, sua città natale, la questione della produzione artistica al femminile attraverso mostre e dibattiti che coinvolgono studiosi del calibro di Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi, Simonetta Lux, Dario Micacchi, Filiberto Menna e Marilena Pasquali, in significativa coincidenza cronologica con quanto Lea Vergine va facendo a Milano, ideando la sopra evocata mostra L’altra metà dell’avanguardia (1980). Una spinta che giunge fino ai nostri giorni, giacché un filo rosso corre da allora fino almeno alla già ricordata raccolta del 2024, composta da trenta ritratti di artiste, per lo più poete, spesso “fuori canone”, nelle cui «vicende autobiografiche mi sono rispecchiata».

Ma anche la matrice che ancora prima, nel 1978, la conduce ad inscenare una performance nella Pineta di Ostia, appena devastata da un incendio, operazione inaugurale del suo percorso che si inscrive in un decennio notoriamente assai pervaso – come i nostri tempi, ma con tante, inevitabili differenze – da una ansia ecologica. Ed anche qui, considerando la sua poesia recente, il cerchio si chiude perfettamente, benché temporaneamente. Malgrado l’afflato ottimista di fondo, a tratti profondamente vitalistico, che connota il suo errare psicogeometrico, la dimensione del mito non è sempre al riparo – e forse non potrebbe essere altrimenti in tempi funesti come questi – dai miasmi tossici della storia, contemporanea. Allora il vitalismo non si spegne ma si tramuta in indignazione, invettiva: «scoppio / di rabbia ed orrore / e lo sconforto cresce / implacabile invade / cuore e mente / scoppio / d’intolleranza / – ed è ora di dirlo – / per tutti i delinquenti / che per loro profitto / hanno distrutto il mondo». E se fosse necessario essere ancora più espliciti: «perduta l’armonia sapiente della natura / la contesa tra il molteplice e l’uno / è divenuta eterna / e tutti noi / in / folle / discesa / verso l’abisso / colpiti da infezione dell’orrore / destinati al declino / e all’estinzione / estrema malattia la distruzione / di alberi prati foreste / e acque dolci / di mari e monti / e infinite bellezze / che abbiamo dissipato / nel nome del guadagno».

Qui però la prospettiva sembra almeno in parte cambiata, giacché non si tratta più – o non solo – di puntare il dito sulle responsabilità altrui. L’umanità tutta – o, quanto meno, il mondo occidentale -, e quindi la stessa autrice – e forse, chissà la stessa felicità dell’arte e della poesia – Walter Benjamin non sostiene forse che ogni documento di civiltà è anche documento di barbarie? – viene posta sul banco degli imputati. Non di meno ella ridiviene fieramente accusatrice quando si tratta di confrontarsi col mondo della cultura, di stigmatizzare le brutture quotidiane agli occhi – e alle orecchie – di chi interroga il linguaggio e lo fa guidato dal senso etico: «di non cader per tracotante eccesso / nel banalmente ovvio e consueto / risaputo fortuito arbitrario /accademico arrogante / autoreferenziale / egocentrico / efferato / gioco / di gruppo / subdolamente / spacciato per poesia».

Stefano Taccone

Stefano Taccone è nato a Napoli nel 1981. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica all’Università di Salerno. Attualmente è docente di Storia dell’arte nella Scuola secondaria di II grado. Ha pubblicato le monografie Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (Plectica, 2010), La contestazione dell’arte (Phoebus Edizioni, 2013; Iod Edizioni, 2015), La radicalità dell’avanguardia (Ombre Corte, 2017), La cooperazione dell’arte (Iod Edizioni, 2020), La critica istituzionale. Il nome e la cosa (Ombre Corte, 2022); le raccolte di racconti Sogniloqui (Iod Edizioni, 2018) e Morfeologie (Iod Edizioni, 2019), il romanzo Sertuccio (Iod Edizioni, 2020) e le raccolte di poesie Alienità (Edizioni Divinafollia, 2019), Terrestri d’adozione (Edizioni Progetto Cultura, 2021) e Sciogliete le rime (Campanotto Editore, 2023). Ha curato i volumi Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità (Ombre Corte, 2014) e Religione/arte/rivoluzione, anche (Massari Editore, 2020). Collabora stabilmente con le riviste “Frequenze Poetiche”, “Segno” ed “OperaViva Magazine”.

Umberto Lucarelli: la scrittura come terapia, di Stefano Taccone

Con un libro come Sei giorni troppo lunghi (Milieu Edizioni, 2024) Umberto Lucarelli, scrittore, ma anche sceneggiatore, regista, operatore socio-culturale, chiude idealmente un cerchio apertosi come una profonda ferita quarantacinque anni fa, senza che per questo tale ferita possa dirsi chiusa e tanto meno annullata, ché nel regno della contingenza nulla si distrugge mai completamente, casomai si trasforma.

Nato a Milano nel 1961, ma da padre livornese e madre della provincia barese, fin dal 1974, con altri compagni suoi coetanei, fonda il Collettivo Autonomo Antifascista della Barona – quartiere a sud-ovest della capitale lombarda – occupando uno spazio dismesso. La volontà è quella di progettare, inventare, dare colore ad una vita che vice versa appare costantemente minacciata, offesa, soffocata dalle logiche tossiche, oppressive, in scala di grigi della ragione capitalista e lavorista. Come sfuggire all’oppressione del produttivismo e del lavoro come perdita di sé? Come evitare che anche il cosiddetto tempo libero diventi tempo di lavoro condotto con altri mezzi? Sono temi certo già posti nel Sessantotto ed ancora prima – dai situazionisti per esempio -, ma che trovano forse la loro massima espressione italiana nel nodale Settantasette. Sono problemi che in una città come Milano, tra tutte le città d’Italia, identificano forse il loro più lampante fondamento. Sono battaglie che – ahimè già alla fine degli anni Settanta, con il montare della stretta securitaria, della repressione poliziesca e della repressione giudiziaria, con il diffondersi della “droga di Stato” e, last but not least, il trionfo dell’edonismo e del consumismo – appariranno sempre più ardue.

Col senno di poi in questi “sei giorni troppo lunghi”, giacché siamo agli inizi del 1979, sono rinvenibili le prime avvisaglie di ciò che accade solo qualche mese dopo, quel famigerato 7 aprile con l’annesso Teorema Calogero. L’autore non ha allora che 18 anni, l’età in cui, come egli stesso afferma, sulla scorta di quanto sostenuto da un pensatore a lui caro, Rudolf Steiner, il fondatore della antroposofia, si può già intravedere ciò che si sarà e si farà per il resto della propria vita. La percezione della lunghezza – lo si sa – è data dal dolore o dalla noia del tempo che si vive. Certe torture inflitte con la massima crudezza e crudeltà ai membri del collettivo – accusati senza nessuna autentica prova di essere gli assassini, mandanti e/o esecutori materiali, di un gioielliere, pure particolarmente inviso al mondo della sinistra extraparlamentare milanese -, quali scariche elettriche in punti sensibili, senso di soffocamento prodotto riempendo la bocca d’acqua con un tubo, manganelli che picchiano forte, ma vengono anche spinti violentemente nel foro anale… vanno nel senso del dolore, mentre l’isolamento è una sorta di mistura indistinguibile, una noia talmente acuta da divenire dolore. In certi casi, suggerisce oggi Lucarelli, l’unico espediente per difendersi – forse – è sperare in uno svenimento.

Da allora in poi la vita di Lucarelli è segnata ancora dalla militanza, ma anche da una serie di pratiche tendenti se non alla guarigione almeno al bene proprio ed altrui – ché Erich Fromm ce lo insegna: l’amore per sé non è in contraddizione con l’amore per l’altro, anzi l’uno non c’è senza l’altro, mentre l’egoismo è qualcosa di ben diverso – sempre nell’ottica di una unione tra corpo e psiche, ed anche nell’alveo di una critica mossa contro la stessa tradizione teorica del marxismo, notoriamente materialista, malgrado tutte le sue eresie. La meditazione vipassana, il lavoro di educatore negli istituti professionali e a contatto con individui con disagio intellettivo e relazionale, che si manifesta preferibilmente – e là, dove possibile – attraverso laboratori teatrali e cinematografici, e naturalmente la scrittura. L’esordio nell’ambito di quest’ultima è parimenti legato al discorso sulla militanza degli anni della sua adolescenza, Non vendere i tuoi sogni mai (Tracce, 1987; Tranchida, 1987; Bietti, 2009), al quale segue Ser Akel va alla guerra (Tranchida, 1991; Bietti, 2009). Ad essi si aggiungono gli assai più recenti Vicolo Calusca (Bietti, 2018) e Gianmariavolonté (Bietti, 2022), capaci di rinverdire la memoria di due personaggi d’eccezione ed emblematici di un’epoca quali il libraio rivoluzionario, Primo Moroni, e l’attore che compie scelte politicamente assai coraggiose, sprezzante del pericolo della marginalità, e concepisce il cinema – al pari di Picasso per la pittura – come uno strumento politico. 

Questi quattro libri, insieme a Sei giorni troppo lunghi formano oggi una sorta di pentalogia del Settantasette. In un tempo in cui la memoria di quegli anni, di quanto realmente avviene in tutte le sue sfaccettature, è ben lungi da essere patrimonio comune e diffuso, ove la narrazione dominante sembra fossilizzarsi sul, quanto meno nebuloso, conflitto Stato-terrorismo, come se a sinistra vi siano stati solo il PCI e le Brigate Rosse – e purtroppo il tempo che passa, l’avvento di nuove generazioni sembrano tutt’altro che contribuire ad invertire la rotta –, tanto più trovo questa pentalogia preziosa. 

A questo nodo tematico si affiancano però ben presto libri di altro argomento, benché sempre congiunti da un filo rosso che è ancora, benché più latamente, politico. Il quaderno di Manuel (Tranchida, 1994), raccontando dell’intenso rapporto tra un insegnante e un suo studente con disabilità psichica, apre appunto il filone che si occupa di questa problematica, una linea ideale sulla quale si pongono successivamente Pavimento a mattonella (BFS, 2001) e Rivotrill (Bietti, 2011). L’autore non intende mai, non di meno, il disagio della diversità come qualcosa di semplicemente difforme da una presunta, astratta, oggettiva normalità – che spesso questa non è che l’insidioso nome con il quale i poteri dominanti impongono i loro paradigmi. Esso genera anche incontro, occasione di arricchimento, senza per questo naturalmente negare una condizione di sofferenza.

Normale, a dirla tutta, non può dirsi nessuno di noi. Fossimo fatti d’aria (BFS, 1995) pure parla di differenza e sofferenza e pure parla della relazione tra la differenza-sofferenza propria e quella altrui, solo che questa volta, ambientato a Cuba, l’altro è politico, sociale, geografico, benché naturalmente la dimensione psichica si scopra anche qui, finalmente, l’autentico oggetto di interesse. Ma il senso della vita, e della morte, è traccia ancor più evidente in libri successivi come Nulla (BFS, 1999) o Commiato (Bietti, 2014), così come la ricerca sull’esistenza, o meglio ancora sull’essere in Sangiorgio il drago (Ibis, 2008), sagace quanto significativo détournement del celebre racconto agiografico. 

 Entrando nel terzo decennio del XXI secolo, troviamo innanzi tutto Invettiva! (Bietti, 2020), amara denuncia delle condizioni di lavoro nelle cooperative sociali che, pensandosi originariamente come alternativa radicale alla giungla dello sfruttamento capitalista, finiscono, nei tempi più recenti, per mettere in atto i medesimi metodi di mobbing, e Ingiustizia! (Bietti, 2021), che, narrando la vicenda di un professore ingiustamente accusato di molestie sessuali, può essere anche letto come un adombrare la vittimizzazione vissuta sulla propria pelle a 18 anni e quella che si sperimenta collettivamente in pandemia. I successivi Affanno (2023) e Montecristo. Una catastrofe o una salvezza (2023) affrontano invece di petto tale pernicioso, terrificante periodo, anche e soprattutto, per l’autore, data la sua gestione politica e la (in)capacità generale dei cittadini di reagire a certi condizionamenti, scoprendosi peggiori piuttosto che divenire migliori, come vorrebbero certi insistenti slogan che accompagnano le prime settimane di chiusure. Infine, Erstfeld (2023), ambientato in treno, è un’occasione per riprendere, ancora una volta, il filo delle interrogazioni tra vita e morte.

Stefano Taccone

Stefano Taccone è nato a Napoli nel 1981. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica all’Università di Salerno. Attualmente è docente di Storia dell’arte nella Scuola secondaria di II grado. Ha pubblicato le monografie Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (Plectica, 2010), La contestazione dell’arte (Phoebus Edizioni, 2013; Iod Edizioni, 2015), La radicalità dell’avanguardia (Ombre Corte, 2017), La cooperazione dell’arte (Iod Edizioni, 2020), La critica istituzionale. Il nome e la cosa (Ombre Corte, 2022); le raccolte di racconti Sogniloqui (Iod Edizioni, 2018) e Morfeologie (Iod Edizioni, 2019), il romanzo Sertuccio (Iod Edizioni, 2020) e le raccolte di poesie Alienità (Edizioni Divinafollia, 2019), Terrestri d’adozione (Edizioni Progetto Cultura, 2021) e Sciogliete le rime (Campanotto Editore, 2023). Ha curato i volumi Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità (Ombre Corte, 2014) e Religione/arte/rivoluzione, anche (Massari Editore, 2020). Collabora stabilmente con le riviste “Frequenze Poetiche”, “Segno” ed “OperaViva Magazine”.