Jesmyn Ward è nata a DeLisle in Mississippi nel 1977. Nella sua biografia si dice che con “Salvare le ossa” le è stato attribuito il National Book Award per la narrativa nel 2011 a soli 34 anni. Incuriosito vado su Wikipedia e trovo che è l’unica donna che dal 1950 l’abbia vinto per due volte, per la precisione il secondo nel 2017 con “Canta, spirito, canta”. Prestigiosi riconoscimenti che non mi sorprendono perché ho appena finito di leggere proprio un bel libro, con l’aura mitologica del “grande romanzo americano”. Le suggestioni infatti sono tante e portano a Faulkner, a Steinbeck, a Jack London, tanto per dire i primi nomi di cui si avverte un’eco.
Innanzitutto, per un dato geografico: Faulkner, classe 1897, veniva anche lui dal Mississippi, da New Albany, cinquecento chilometri più a nord di DeLisle, che invece è sul mare a uno sputo da New Orleans. In particolare, la Ward ha vissuto la sua infanzia in una comunità povera e prevalentemente nera dedita all’agricoltura.
Il romanzo di Faulkner che forse più ricorda “Salvare le ossa” è “Mentre morivo” del 1930, definito da Harold Bloom come “il romanzo più originale del XX secolo”, scritto all’età di 32 anni e pubblicato nel 1930 (sarà un caso, ma coincide anche il dato anagrafico…)
Entrambi si svolgono in luoghi immaginari del Mississippi: As I lay dying nella “contea Yoknapatawpha” (la stessa de “L’urlo e il furore”); Salvage the bones nel “cuore nero” di un’inesistente cittadina dal nome di “Bois Sauvage”.

In “Mentre morivo”, già dal titolo, si fa riferimento all’Odissea, alla discesa agli inferi di Ulisse, dove Agamennone, ucciso dalla moglie Clitemnestra, racconta le circostanze della propria morte. In “Salvare le ossa”, Esch, la protagonista, divora la “Mitologia” di Edith Hamilton, vibrando ammirata per la passione sconfinata di Medea. Esch di fatto riconosce di essere Medea nella sua parte fragile quando dice pensando a Manny, il ragazzo di cui – non corrisposta – è invaghita:
“Secondo me Medea ha provato la stessa cosa per Giasone quando l’ha conosciuto e si è innamorata di lui; forse l’ha visto e ha sentito un fuoco divorante attraversarle il petto, un fuoco che le faceva ribollire il sangue prima di evaporare, caldissimo, da ogni centimetro di pelle.”
Ma di Medea la Ward parla sin dalla prima pagina, nella bellissima dedica iniziale:
“Questo libro è per Medea, che va incontro a Giasone tremante nel vento, per chi dopo la pioggia pesca a mani nude i girini nei fossi, per chi gioca a nascondino nelle stanze di vapore tra lenzuola stese ad asciugare, e per chi corre mano nella mano con suo fratello, ogni passo il balzo di un uccello che si alza in volo.”
Nel romanzo di Faulkner, in una terra che è allo stesso tempo arsa e piovosa, c’è il racconto di un diluvio, di una terribile inondazione, di un fiume che straripa portandosi via i ponti e le case e che rende epico il viaggio della famiglia Bundren. Il romanzo della Ward ha come evento centrale l’uragano Katrina del 2005, forse il più noto e grave abbattutosi sugli Stati Uniti, le cui devastazioni l’Autrice ha vissuto personalmente con i suoi familiari (anche l’uragano simboleggia Medea, che nel mito era tempestosa e devastante).
Non sarà sfuggito che pure “Furore”, il capolavoro di Steinbeck del ‘39, ricco di allegorie bibliche, si concluda sotto una pioggia torrenziale. E come si fa a non pensare a Jack London, in particolare a Zanna bianca, nelle scene del parto della pitbull e soprattutto in quelle tremende dei combattimenti fra i cani?

Dicevamo della protagonista, di Esch, che è anche la narratrice del libro. Ha quindici anni ed è incinta. Vive con i suoi tre fratelli ed il padre alcolizzato in una specie di discarica tra rifiuti, galline e carcasse di camion. Esch parla poco, nasconde la sua gravidanza, legge la mitologia greca immedesimandosi con le sue eroine e fa sesso con tutti gli amici dei fratelli perché è più facile lasciarsi toccare che chiedere di smetterla. Dice: “L’unica cosa che mi è sembrata facile fin dall’inizio, come nuotare nell’acqua, è stato il sesso. Avevo dodici anni. La prima volta l’ho fatto sdraiata sul sedile davanti nel camion di papà, quello col cassone ribaltabile. E’ successo con Marquise, che aveva solo un anno più di me.”
Sono bambini e adolescenti liberi ma abbandonati, con un padre ai margini, poveri e affamati, la cui madre è morta partorendo Junior, il più piccolo della famiglia, che trascorre le giornate scavando nella terra in mezzo alla polvere. I due fratelli più grandi sono Randall, il maggiore, che gioca a basket e spera di prendere una borsa di studi per meriti sportivi e il sedicenne Skeetah, il personaggio centrale del libro, la cui vita ruota intorno a China, la sua pitbull, che partorisce una fragile cucciolata nelle prime pagine del libro (se Esch era la parte vulnerabile di Medea, China ne è la parte brutale e leale).
Prime pagine da cui già emerge una fisicità che sarà presente in tutto il libro: la nausea di Esch, la pelle luminosa dell’amato Manny che l’ha messa incinta e la rifiuta, il vomito del padre incattivito dall’alcol, l’odore di cane bagnato dei ragazzi, il muco rosa di China nello sforzo del parto o gli occhi rossi di Randall che “sembrano schizzargli fuori dalle orbite”, la parvovirosi dei cuccioli, i capelli sciolti di Esch che la fanno sembrare “di un’altra epoca”.
E questa fisicità spesso si trasforma in violenza. Nelle lotte tra i ragazzi nel bosco di querce, nella violenza del padre, nel sesso consumato nella sporcizia di una toilette o nello scheletro di un’auto, nella descrizione terribile e nauseante, ma di assoluto splendore estetico, del combattimento tra i cani… Tutto sembra voler ricordare – anche nella frenesia del ritmo – i miti greci tanto cari alla protagonista.
E, come nelle tragedie greche, il sangue sgorga e pulsa in tutto il romanzo, in un festival di metafore e di analogie. Il sangue “ha odore di terra calda e bagnata dopo un acquazzone estivo”, cade sulla sabbia in una raffica di goccioline luccicanti, si allarga sulla pelle come una medusa … C’è sangue sulle mascelle dei pitbull dopo l’accoppiamento per cui “sembrava che invece di amarsi si fossero azzuffati”. Il sangue disegna: disegna una curva tra le dita fino ai gomiti, disegna sul petto una fascia da miss, disegna una striscia sulla fronte come una bandana, sulla coscia come una giarrettiera cremisi. Il sangue può somigliare a una sciarpa o a una collana o a un nastro. Il sangue si fiuta e si desidera. Esch ricorda la scia di sangue per terra dal letto di casa al furgone lasciata dalla madre l’ultima volta che l’ha vista.
Eppure, a Bois Sauvage non manca la bellezza, che è soprattutto quella che si esprime nel legame fortissimo tra i quattro fratelli che rubano, si sacrificano, litigano per proteggersi a vicenda; o nel senso di protezione e di cura che Esch ha per il fratellino o Skeetah per i suoi pit bull. La Ward sa descrivere l’orrore e la tenerezza in ogni situazione e in ciascun personaggio. Personaggi che mostrano l’intera gamma di emozioni umane, contraddittori e per questo autentici, li riconosciamo e li vediamo vivere pienamente tra le pagine del romanzo.
La storia di “Salvare le ossa” copre i dieci giorni della vita di questa famiglia prima dell’uragano Katrina, il giorno del diluvio e quello subito dopo. Alla povertà estrema, agli sforzi per sopravvivere, alla violenza, agli abusi sessuali, si aggiunge l’arrivo catastrofico della tempesta. Personalmente, prima di questo libro, mi è capitato di leggere un solo romanzo che abbia parlato di Katrina: “Zeitoun” di Dave Eggers, una sorta di saggio narrativo teso più a soffermarsi sui disastri causati dall’uomo, la miopia e l’inettitudine della politica, le incompetenze nell’organizzazione dello stato di crisi, l’abbandono della povera gente. In “Salvare le ossa” non c’è nulla di tutto questo. Il romanzo è una sorta di conto alla rovescia nell’ombra minacciosa della catastrofe, in cui è il padre dei bambini, Claude, che si preoccupa, nei rari momenti di sobrietà, di predisporre un qualche riparo in vista dell’arrivo dell’uragano, il cui passaggio, con venti a 150 miglia all’ora e la conseguente inondazione, farà sì che i nostri protagonisti dovranno lottare per mettere in salvo la pelle, perdendo comunque tutto il poco che hanno.
Il giorno dopo il disastro gli scampati cercheranno di rendersi conto, spaesati, dell’apocalisse che il ciclone ha lasciato nella sua scia. Con gli edifici scomparsi, senza cibo, elettricità, acqua corrente, ecc… l’unica cosa che resta da fare è provare a sopravvivere.

Se si esclude qualche eccesso nelle descrizioni e nelle similitudini, e un’ingenuità nel far coesistere nella stessa ragazzina un linguaggio che passa dal volgare ai riferimenti alla mitologia classica, credo si possa tranquillamente dire che ”Salvare le ossa” è un romanzo che non ti capita di leggere tutti i giorni e che la sua autrice è un talento indiscutibile.
Ben lontano dall’estetica minimalista tanto in voga negli ultimi decenni, la Ward scrive, con un linguaggio altamente lirico, un romanzo di un realismo solo apparentemente tradizionale, ma fresco e moderno, emozionante e credibile.
Come quei cantautori che con pochi accordi compongono grandi canzoni, la Ward è capace di emozionare il lettore, di dargli tensione e magia, sangue e bellezza. E alla fine del libro scopri che quella storia non ti molla e pensi: che altro dovremmo chiedere all’arte e alla letteratura?
“Salvare le ossa” è il primo volume della Trilogia di Bois Sauvage, il secondo è “Canta, spirito, canta”, il terzo “La linea del sangue”, tutti pubblicati in Italia da NN Editore.
Gigi Agnano

